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Il taglio dei parlamentari su cui si voterà nel referendum, è presentato come lo sbocco della rivolta contro la «casta» ma è appoggiato da tutti i principali partiti. E l’effetto appare il contrario dell’avvicinamento dei rappresentanti ai cittadini.

20 e 21 Settembre saremo chiamati a votare per confermare o meno la legge che riforma gli articoli 56 e 57 della Carta costituzionale, che determinano il numero di deputati e senatori. La legge, votata in Parlamento da M5S, Pd, Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia, prevede la riduzione del 36,5% del numero dei parlamentari portando i deputati da 630 a 400 e i senatori da 315 a 200.   

Per carattere e attitudine, tendo a rispettare molto le ragioni e le posizioni dei miei interlocutori. Anche in questo caso, cercherò quindi di argomentare la mia posizione a favore del No a partire da un tentativo di interlocuzione con gli argomenti apportati dai sostenitori del Sì. Comincerò dalle motivazioni più populistiche e, per così dire, sovrastrutturali, cioè le posizioni più utilizzate durante la campagna referendaria perché vanno direttamente a solleticare gli appetiti di un’opinione pubblica ormai da anni pervasa da un forte sentimento antipolitico.

● L’argomentazione che sembra andare per la maggiore corrisponde più o meno a questa locuzione: «Come fate a non rendervi conto del degrado che imperversa nelle aule parlamentari e della Mafia che ci sguazza? 315 parlamentari in meno, corrispondono a 315 disonesti e corrotti in meno». Si tratta della tipica argomentazione dei movimenti populisti che, ovunque nel mondo occidentale, contrappongono una «società morale» a una classe politica immorale e corrotta. Come accennavo, questa argomentazione è la più facile da smontare sul piano logico. Anche accettando l’idea bislacca secondo cui tutti i parlamentari siano corrotti, cosa c’entra l’istituzione parlamentare? Il malaffare si combatte colpendo gli affaristi non gli istituti costituzionali. Perché si parla sempre dei politici corrotti e tanto poco invece si sente parlare dei corruttori? Ovvio, perché i corruttori non fanno parte della società politica, ma di quel ceto «produttivo» e quella società civile tanto esaltati in questa retorica. Ammetterne l’esistenza e accettarlo come problema, farebbe saltare in un attimo il teorema populistico. Ma anche se pensiamo solo alla politica corrotta e non alla società dei corruttori, se il problema dei parlamentari è il Parlamento, perché a questo punto non liquidare il Parlamento e con esso anche tutti gli Enti Locali dove storicamente si annidano i maggiori casi di corruzione e concussione? Controllare la moralità di un uomo solo al comando è senza dubbio più facile che controllare quella di decine di migliaia di parlamentari, consiglieri, assessori, eccetera. Appare evidente che tale ragionamento non solo rischia di avere delle ricadute autoritarie, mettendo in discussione de facto le basi della democrazia rappresentativa, ma contesta l’idea stessa di «Politica» intesa come insieme di attività umane volte a regolare e organizzare la vita collettiva nell’ambito di una comunità di destino. Tale argomentazione è inaccettabile sia in premessa sia nelle sue conseguenze logiche. Più che di un dimezzamento dei parlamentari si dovrebbe ragionare dunque di qualità dei parlamentari, ma questo discorso non è connesso al numero dei seggi, ma alle modalità di selezione e reclutamento della classe politica. L’attenzione andrebbe rivolta dunque non verso la Costituzione, ma piuttosto verso una necessaria riforma culturale e organizzativa della politica in quanto tale e dell’attuale configurazione del sistema di partiti ormai ridotti a cartelli elettorali senza alcun progetto e visone del mondo.

● La seconda argomentazione è quella relativa al taglio dei parlamentari per esigenze di risparmio. Addirittura, il Movimento 5 Stelle ha tempo fa diffuso un manifesto, ora scomparso, in cui dichiarava un risparmio netto pari a 1 miliardo. Io non sono mai stato bravo a far di conto quindi sarei stato quasi tentato a credere a questa fandonia, ma la mia deformazione professionale che mi porta a un’inguaribile propensione alla verifica empirica mi ha portato ad affidarmi ai calcoli effettuati dagli economisti dell’Osservatorio sui conti pubblici diretto da Carlo Cottarelli che, qualcuno ricorderà, è un uomo quasi ossessionato dall’esigenza di risparmio attraverso tagli netti e lineari ai costi delle amministrazioni pubbliche. Ebbene, dai suoi conti, che direi di considerare attendibili, la realtà dei fatti è ben diversa. 230 deputati in meno corrispondono a un risparmio di 52,9 milioni a cui vanno aggiunti i 28,5 milioni di risparmio dal taglio dei 115 senatori, per un totale di risparmio di 81,4 milioni di euro. Si parla di cifra lorda. Questo vuol dire che una parte consistente di questa cifra ritorna comunque nelle casse dello Stato attraverso le tasse (Irpef e addizionali comunali e regionali) che, ovviamente, sono pagate anche dai parlamentari. Al netto delle tasse, il risparmio reale sarebbe dunque di appena 65,5 milioni di euro l’anno. Questa cifra include anche gli stipendi degli assistenti parlamentari, che non oserei definire «casta», e che verrebbero licenziati, anzi non più assunti. Anche volendo allargare al massimo la stima, il risparmio ammonterebbe a circa 0,90 centesimi di euro all’anno per ogni italiano. Praticamente il costo di un caffè al Bar, pari alla seicentesima parte del debito pubblico del nostro paese. Se l’intenzione fosse realmente quella di risparmiare, allora vi sarebbero decine di altri provvedimenti da poter adottare. Si pensi alla esorbitante evasione fiscale che (dati del Sole24Ore) costa al nostro paese circa 100 miliardi (non milioni) l’anno.

● Un’altra argomentazione si basa sul confronto con gli altri paesi europei secondo cui l’Italia sarebbe tra gli Stati che attualmente possiedono uno dei rapporti più alti tra numero di rappresentanti e numero di cittadini. Premetto che considero questo sforzo cognitivo e comparativo di dubbia utilità, dal momento che, se per una volta l’Italia è migliore degli altri paesi non vedo perché prendersela a male. Ma se stiamo ai dati, le stime dichiarate non sono così realistiche. Considerando infatti solo il numero dei rappresentanti nelle Camere elettive e considerando la diversa struttura dei sistemi elettorali dei vari paesi, vediamo che l’Italia possiede effettivamente una rappresentatività democratica migliore (ma non troppo) di paesi importanti come Regno Unito, Francia, Germania e Olanda e comunque peggiore rispetto ad altri paesi come Grecia, Portogallo, Finlandia, Svezia, Danimarca, Belgio, eccetera. Il taglio di quasi il 40% dei nostri parlamentari porterebbe in ogni caso l’Italia a essere uno dei paesi con il peggior rapporto di rappresentatività della propria popolazione tra i 28 Stati che appartengono all’Unione europea. Il problema della rappresentanza e della rappresentatività del Parlamento rispetto al numero della popolazione è roba seria. Non è un caso che i padri costituenti scelsero di non stabilire un numero fisso di parlamentari di Camera e Senato, limitandosi a fissare un rapporto tra numero di abitanti e numero di parlamentari, fissandolo a un deputato ogni 80.000 abitanti (o frazione superiore a 40.000) e un senatore ogni 200.000 abitanti (o frazione superiore a 100.000). Nella prima legislatura, rispettando questi rapporti, vennero infatti eletti solo 572 deputati e 237 senatori. Solo nel 1963 il numero di parlamentari fu fissato a 630 deputati e 315 senatori, andando sensibilmente a peggiorare il rapporto di rappresentatività auspicato dai costituenti, visto l’aumento vertiginoso della popolazione italiana. Sempre restando al taglio lineare dei parlamentari, a prescindere dai rapporti suindicati, si pone un problema serio di rappresentanza territoriale, soprattutto al Senato dove l’elettorato è suddiviso su base regionale e non, come alla Camera, su base circoscrizionale. Senza entrare nei tecnicismi, questo vuol dire che, al netto di un taglio del 36,5% dei parlamentari, alcune regioni subiranno un peggioramento della propria rappresentanza al di sotto della media nazionale, altre regioni (le meno popolose) subiranno invece un peggioramento nettamente superiore alla media nazionale, dal Friuli (-43%) fino all’Umbria e alla Basilicata che subiranno un peggioramento della propria rappresentanza regionale pari quasi al 60%. Questo perché i partiti che hanno votato la legge sul taglio dei parlamentari non hanno pensato di ridisegnare i collegi elettorali omologando l’elettorato di Camera e Senato. Per non parlare delle Circoscrizioni estere per cui l’Europa (più di 2 milioni di residenti iscritti all’Aire) avrà lo stesso peso parlamentare, e quindi la stessa rappresentanza (un deputato), di circoscrizioni molto più piccole come quella di Africa, Asia e Oceania dove il numero di italiani residenti è esiguo.   

● Un altro argomento a favore del Sì, per esempio in area Pd, sostiene che la riduzione del numero dei parlamentari è di per sé non necessaria ma può essere una buona riforma se compensata da un cambiamento del sistema elettorale in senso proporzionale. Non è un caso che il loro voto a favore in Parlamento è stato barattato con la «promessa» da parte del Movimento 5 Stelle, di una riforma proporzionale del sistema elettorale con soglia di sbarramento al 5%. Ma in realtà senza ulteriori correttivi (per esempio un adeguato ridisegno dei collegi elettorali di Camera e Senato, di cui nessuno parla) anche questo sistema elettorale sarebbe complice di un reale peggioramento delle condizioni della rappresentanza territoriale. Mi spiego: la soglia formale di sbarramento sarebbe del 5%, ma la soglia sostanziale, corrispondente alla percentuale che una lista dovrebbe raggiungere per incassare un eletto, sarebbe in realtà molto più alta. La riduzione del numero dei seggi elettivi disponibili per ogni regione rende nulla la possibilità di un partito medio-piccolo di poter prevalere nella competizione. La soglia sostanziale sarebbe del 12/15% fino a raggiungere picchi superiori al 20% nelle regioni a cui spettano meno seggi come la Basilicata. Al momento in Italia certe cifre sarebbero alla portata di appena due o tre partiti. Milioni di cittadine e cittadini rimarrebbero privi di rappresentanza istituzionale. Si pensi che anche nel terrificante sistema elettorale attualmente in vigore è prevista una clausola di salvaguardia delle liste minori attraverso una piccola quota di distribuzione nazionale dei seggi con soglia (reale) di sbarramento al 3%.  

● Un’altra argomentazione a favore del Sì è quella che fa appello a un’esigenza di semplificazione e velocizzazione dei meccanismi decisionali. Più o meno la stessa argomentazione addotta nel 2016 da Matteo Renzi e Maria Elena Boschi nel loro progetto di soppressione di una delle due Camere. Gli italiani bocciarono pesantemente quell’idea anche e soprattutto grazie alla mobilitazione per il No dei partiti che oggi sono i principali sponsor dell’attuale progetto di revisione. Per carità, nulla di male; nella vita si può sempre cambiare idea. Quello della velocità decisionale è però un finto problema oggi, come allora. Le due Camere possono infatti lavorare contemporaneamente su progetti di legge diversi, riducendo quindi al minimo la potenziale ridondanza della doppia lettura. Allo stesso modo non esiste una connessione tra numero di parlamentari e velocità del decision making. Prima di tutto dobbiamo fare i conti con le consuetudini degli ultimi anni. La produzione decisionale, in linea con il processo di depoliticizzazione della politica, cioè del neoliberismo applicato ai processi di governo, oggi è di fatto appaltato agli esecutivi. Le leggi nate e prodotte effettivamente dal Parlamento sono pochissime. Oggi si legifera essenzialmente con voto di fiducia o attraverso decreti governativi e questo ha prodotto grandi distorsioni rispetto alla rappresentanza politica degli interessi delle classi subalterne. Nel 2016 il progetto di Renzi e Boschi andava proprio nella direzione di una costituzionalizzazione di questa consuetudine, riducendo formalmente il ruolo del Parlamento in favore dell’Esecutivo. Io credo che in questo risieda una delle principali contraddizioni dell’attuale modello di governance. Il Parlamento è il luogo in cui gli interessi sociali diventano oggetto di conflitto politico. Esso non va indebolito ma piuttosto rafforzato rispetto a esecutivi sempre più spesso subordinati ai grandi poteri economico-finanziari che implementano decisioni prese al di fuori dei luoghi della rappresentanza politica. Ma c’è di più; la semplificazione delle pratiche decisionali non è data dal numero dei parlamentari, ma dalle procedure e dai regolamenti parlamentari della cui riforma nessuno parla. Se vincesse il Sì, assisteremmo a meno parlamentari che agiscono secondo le stesse procedure di oggi, con l’unica differenza che una fetta consistente di cittadini non potrebbero contare su alcun rappresentante e riferimento istituzionale. La perdita di rappresentatività democratica che si realizzerebbe attraverso questo taglio lineare, senza alcun correttivo e riequilibrio, è dunque ulteriormente aggravato dalla mancata revisione dei regolamenti parlamentari. Qualcuno potrebbe obiettare: «ma si può sempre fare!»; ma allora perché non è stato fatto prima rendendo minimamente più credibile questa riforma? Manca qualunque idea di tutela delle minoranze che, ricordiamolo, è uno dei fulcri della teoria e pratica della democrazia rappresentativa. Oggi 30 deputati possono per esempio richiedere l’inversione di un ordine del giorno in Parlamento, con 230 deputati in meno sarà statisticamente più difficile mettere insieme questo numero di parlamentari. Perché nessuno ha pensato di abbassarlo a 20 o 25? Per formare un gruppo parlamentare servono oggi 20 deputati e 10 senatori. Con un Parlamento quasi dimezzato, perché non dimezzare anche questi numeri? Come potranno i partiti più piccoli avere propri rappresentanti nelle giunte e nelle quattordici commissioni parlamentari? La legge di riduzione dei parlamentari è stata approvata con una maggioranza schiacciante (ma non era un provvedimento anti-casta?). La parola passa agli elettori grazie alla richiesta di 71 senatori che hanno reso possibile che l’ultima parola spettasse alle cittadine e ai cittadini attraverso un importante strumento di democrazia diretta quale è il referendum confermativo. Con un Senato di 200 membri sarebbe stato molto difficile trovare queste 71 firme. Perché nessuno ha pensato di introdurre norme che facilitino il ricorso al referendum? L’estensione delle condizioni democratiche e di partecipazione popolare non rientra evidentemente tra le priorità dei sostenitori politici del Sì.    

● Per concludere, ci tengo ad affermare che non credo che la Costituzione sia sacra e non lo era neanche per i padri e le madri costituenti che non ha caso avevano previsto modalità di correzione e revisione della stessa. Credo però che ogni progetto di revisione costituzionale debba essere l’effetto di un disegno organico di riforma, discusso ampiamente e collettivamente, al di fuori degli interessi propagandistici dei partiti, e che si ponga in primo luogo l’obiettivo di estendere le condizioni democratiche. Non sono né un cultore del bicameralismo perfetto, né un difensore ideologico del numero 945. Credo però che un eventuale messa in discussione dell’attuale assetto parlamentare debba essere accompagnato da provvedimenti che avvicinino la base popolare ai propri rappresentanti, oltre a prevedere importanti istituti di democrazia diretta, come per esempio si prevede nel progetto di istituzione del referendum propositivo o «legge di iniziativa popolare rafforzata» che, non ha caso, giace tra le scartoffie del Senato. Una riduzione dei parlamentari è sensata in un disegno organico che preveda per esempio una modifica della legge elettorale in senso proporzionale puro, e non quel finto proporzionalismo di cui si discute oggi, con in più la parificazione dell’elettorato attivo e passivo per Camera e Senato. Lo stesso progetto di revisione costituzionale dovrebbe essere accompagnato da una ridefinizione organica dei regolamenti parlamentari che semplifichino e velocizzino le procedure decisionali ma soprattutto tutelino le minoranze. Tutto questo non mi sembra sia in campo. Oggi si propone solo un taglio lineare senza inserirlo in nessun progetto di ristrutturazione democratica e nessuno può garantirci che tale progetto venga successivamente contemplato. Questa legge è solo lo strumento populistico da parte di alcuni soggetti politici in crisi che hanno bisogno di recuperare consensi solleticando la rabbia antipolitica del popolo italiano. Cambiare la Costituzione è possibile, ma non per tutelare gli appetiti particolari di qualcuno. Per queste ragioni credo che votare No rappresenti oggi la scelta più logica, più democratica e più oppositiva nei confronti di quella «casta» così invisa alle cittadine e ai cittadini italiani.    

*Fabio De Nardis è docente di Sociologia Politica all’Università di Foggia e Università del Salento.

Questo articolo è stato pubblicato su Jacobin il 1 settembre 2020

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Messaggio di Bergoglio per la Giornata per la cura del creato. Appello a intervenire sui disastri climatici, contro la "avidità sfrenata dei consumi", per "stili di vita più semplici e sostenibili", per "cancellare il debito dei Paesi più fragili"

 ”È tempo di riparare l’armonia originaria della creazione”, “restituire alla Terra il riposo che le spetta”, “cancellare il debito pubblico dei Paesi più fragili” piegati dalla pandemia. Lo sostiene Papa Francesco nel messaggio per la Giornata mondiale di preghiera per la cura del creato, un messaggio denso di contenuti ambientali e sociali che delineano la via per una decrescita consapevole.

 “Rinnovo il mio appello a cancellare il debito dei Paesi più fragili alla luce dei gravi impatti delle crisi sanitarie, sociali ed economiche che devono affrontare a seguito del Covid-19. Occorre pure assicurare che gli incentivi per la ripresa, in corso di elaborazione e di attuazione a livello mondiale, regionale e nazionale, siano effettivamente efficaci, con politiche, legislazioni e investimenti incentrati sul bene comune e con la garanzia che gli obiettivi sociali e ambientali globali vengano conseguiti”. 

Nel messaggio, Francesco invita a “ristabilire relazioni sociali eque, restituendo a ciascuno la propria libertà e i propri beni, e condonando i debiti altrui”. “Non dovremmo dimenticare la storia di sfruttamento del Sud del pianeta - prosegue - che ha provocato un enorme debito ecologico, dovuto principalmente al depredamento delle risorse e all’uso eccessivo dello spazio ambientale comune per lo smaltimento dei rifiuti”. ”È il tempo di una giustizia riparativa”, aggiunge il Pontefice.

Bergoglio invita a “trovare stili equi e sostenibili di vita, che restituiscano alla Terra il riposo che le spetta, vie di sostentamento sufficienti per tutti, senza distruggere gli ecosistemi che ci mantengono”. Per il Papa, “l’attuale pandemia ci ha portati in qualche modo a riscoprire stili di vita più semplici e sostenibili. La crisi, in un certo senso, ci ha dato la possibilità di sviluppare nuovi modi di vivere”.

Da sempre attento ai temi dell’ambiente, il Pontefice sottolinea l’urgenza di rispettare gli accordi di Parigi per evitare “una catastrofe”. “Il ripristino di un equilibrio climatico è di estrema importanza, dal momento che ci troviamo nel mezzo di un’emergenza. Stiamo per esaurire il tempo, come i nostri figli e i giovani ci ricordano. Occorre fare tutto il possibile per limitare la crescita della temperatura media globale sotto la soglia di 1,5 gradi centigradi, come sancito nell’Accordo di Parigi sul Clima: andare oltre si rivelerà catastrofico, soprattutto per le comunità più povere in tutto il mondo. In questo momento critico è necessario promuovere una solidarietà intra-generazionale e inter-generazionale. In preparazione all’importante Summit sul Clima di Glasgow, nel Regno Unito (COP 26), invito ciascun Paese ad adottare traguardi nazionali più ambiziosi per ridurre le emissioni”.

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Ambiente. Il governo non ha idea di come caratterizzare il rilancio, in piena emergenza climatica, per spendere al meglio i 209 miliardi di euro del Recovery Fund

Pala eolica

 

Nei giorni scorsi abbiamo assistito ad uno dei tanti eventi estremi, ormai un’abitudine anche da noi. Piogge torrenziali al Nord, esondazioni e vie di comunicazione interrotte, come accaduto sull’Autobrennero, trombe d’aria, e il tragico calcolo delle vittime.

Avvenimenti che rendono surreale il dibattito sul Recovery Plan. Ne abbiamo sentite di tutti i colori. Il ministro delle infrastrutture Paola De Micheli ha presentato un piano Italia Veloce molto bipartisan, con condivisibili opere infrastrutturali, in primis ferroviarie, per rendere civile la modalità di trasporto di persone e merci nel centro sud ma anche le solite e inutili autostrade e pedemontane nel nord. Poi ha messo la ciliegina sulla torta con il tunnel sotto allo Stretto di Messina.

Il premier Conte nelle sue quotidiane conferenze stampa durante gli Stati generali dell’economia ha citato un solo impianto energetico: il progetto di Eni per confinare la CO2 nei fondali davanti alla costa ravennate, presentandolo come unico al mondo (con i soldi dei contribuenti è molto semplice farlo). Il governo non ha idea di come caratterizzare, in piena emergenza climatica, il piano per il rilancio dell’economia per spendere al meglio i 209 miliardi di euro del Recovery Fund. E questo è imperdonabile.

Le Regioni soffrono della stessa sindrome del governo nazionale. In Emilia Romagna diversi assessori regionali e il governatore Bonaccini, dopo aver chiesto a gran voce al governo di finanziare alcune autostrade, si sono scagliati contro l’impianto eolico proposto davanti alla costa riminese paventando problemi al paesaggio e al turismo, sostenendo invece il progetto di eolico off shore davanti a Ravenna proposto da Saipem, azienda partecipata di Eni (a quanto pare c’è eolico ed eolico).

In Sardegna, dopo aver approvato un terribile piano casa che smonta la norma urbanistica voluta dall’allora governatore Soru, la Regione si è scagliata contro un parco eolico off shore che disterebbe 35 km dalla costa (Legambiente, Greenpeace e Wwf sono favorevoli), invisibile dalla terraferma, lamentando, bontà sua, problemi paesaggistici.

Per rilanciare l’economia bisogna puntare solo sulle tecnologie pulite. L’Italia deve dismettere le centrali a carbone senza investimenti sul gas, spingendo al massimo sull’efficienza e sulle fonti rinnovabili, nessuna esclusa, a partire dall’eolico, a terra come a mare, e dal fotovoltaico, anche sui terreni agricoli (i tetti non bastano) con le nuove soluzioni tecnologiche che permettono di coltivare e allevare, producendo anche l’energia elettrica e termica per decarbonizzare le aziende agricole.

Per arrivare a rifiuti zero a smaltimento, serve realizzare mille nuovi impianti di riciclo, a partire da quelli per produrre compost e biometano, utile per decarbonizzare anche la filiera dei trasporti, senza più prorogare l’entrata in vigore della plastic tax.

Non si devono più usare i soldi pubblici per finanziare l’ennesima rottamazione delle auto, come fatto col decreto Rilancio, ma si deve spingere sulla mobilità sostenibile, a cominciare da quella elettrica, partendo dai grandi centri urbani, e finanziare solo i progetti dell’industria manifatturiera per rendere innovativi e puliti i cicli produttivi e i prodotti, partendo da automotive, chimica e metallurgia.
Si deve finanziare solo lo sviluppo dell’agroecologia, puntando sulla qualificazione ambientale dell’agricoltura integrata e sullo sviluppo del biologico.

Tra le decine di migliaia di cantieri da finanziare coi fondi europei ci sono anche la bonifica dei siti industriali e delle discariche abusive, la realizzazione dei depuratori e di nuove discariche per lo smaltimento dell’amianto, lo smantellamento delle piattaforme offshore di idrocarburi non più produttive, gli interventi di riduzione del rischio idrogeologico, l’abbattimento degli edifici abusivi, la ricostruzione post terremoto e la diffusione della banda ultra larga.

Non si parla di quello che serve alla collettività, ma di quello che vogliono le solite lobby. Il governo italiano ha un’occasione irripetibile per modernizzare il Paese, scegliendo la lotta alla crisi climatica e la riconversione ecologica dell’economia. Dimostri coi fatti se crede veramente nel Green New Deal made in Italy, di cui tanto hanno parlato M5s, Pd, Iv e Leu all’inizio dell’avventura del Conte 2.

*Presidente nazionale di Legambiente

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Riviste. Sull'ultimo numero di "Alternative per il socialismo" saggi e interventi indagano su come la pandemia stia ponendo il mondo di fronte a un bivio

 

«Il virus nel capitalismo». È una riflessione intorno alle sfide poste alla società globale dalla stagione della pandemia quella da cui muove, fin dal titolo, l’ultimo numero di Alternative per il socialismo (Castelvecchi, pp. 204, euro 15) che invita a misurarsi con una realtà che si annuncia ancor più sinistra di quanto si potrebbe immaginare.

«NON È VERO – sottolinea l’editoriale del trimestrale diretto da Fausto Bertinotti – che domani, dopo che il virus sarà sconfitto, saremo tutti migliori e che, con noi, sarà migliore il mondo in cui viviamo» Si tratta di una formula, quest’ultima, che non è né innocente né neutrale e che cerca di nascondere «la concreta organizzazione della società, la natura sociale della sua struttura, la questione del potere e oscura le contraddizioni e il duro disagio sociale di cui è fatta la realtà e la quotidianità della vita». E questo, anche perché è altrettanto fuorviante ritenere che «il virus sia democratico» e che le reazioni delle persone al rischio non siano fortemente connotate in termini sociali. Perciò, è vero piuttosto il contrario, vale a dire che «la crisi del virus radicalizza la crisi di società nella quale si è manifestata e radicalizza il bivio in cui ci troviamo». In questo senso, «il virus funziona come una gigantesca lente d’ingrandimento sui problemi del mondo, dell’Europa e del Paese».

Interrogarsi, come fanno i contributi ospitati dalla rivista, sullo stato della politica al tempo del coronavirus (Bertinotti), significa perciò fare i conti con la crisi economica e la recessione «che verrà» (Gianni), i problemi della sanità (Garattini), come la sfida politica sulla salute che dentro la maggioranza di governo e non solo seguirà inevitabilmente la pandemia (Cavicchi), oltre alla relazione tra il virus e l’ambiente (Tamino) o alla situazione del commercio mondiale durante questa fase (Di Sisto).

MA ANCHE, come spiega Bianca Pomeranzi («Il Covid tra l’io e il noi della politica», invita a riflettere sul contesto nel quale tutto ciò sta accadendo: «Con il Covid 19 la necro-politica della nostra epoca è stata messa in mostra in modo radicale. Tutto uno stile di vita è stato visto nella sua illogica sistematizzazione definita dai modelli di produzione e consumo».

Mentre Tommaso di Francesco confronta in «Epidemia per voi» un «poemetto “attuale”» scritto nel 1974, un racconto familiare dell’epidemia di Spagnola durante la Prima guerra mondiale con il delirio della pandemia delle merci. «Da un’epoca presente proprio triste, alla/ stanza accanto e a quell’altra proprio distratta/ incontra uno sicuramente vivo e bello/ appassionato alla mala sorte, ti chiede l’augurio/ e il rito dell’occhio nel tuo più illuminato dopodomani,/ dopodomani morto,/ chiudono famiglie intere/ oggi erano vivi, dopodomani morti, perché/ morti tutti al fronte, donne ragazzi vecchi/ morivano piùcchealtro…».

ACCANTO all’ampio dossier sul virus, Alternative propone alcuni saggi e interventi che affrontano altri temi d’attualità. Come l’ampia disamina di un argomento fin troppo evocato in un’epoca di «fughe» patriottiche dalla crisi della globalizzazione: «Per una critica del “sovranismo economico”», di Giorgio Colacchio e Guglielmo Forges Davanzati. Mentre in vista del voto americano, Sandro Portelli firma un articolo dal titolo «Elezioni Usa: contro la normalità», nel quale riflette sul fatto che per battere Trump sarà necessario «riuscire a pensare, a dire e a far ascoltare qualcosa di nuovo e di diverso dal ritorno a una normalità diventata insopportabile».

Infine, in occasione del 150° anniversario della sua nascita, la rivista propone il testo di un discorso di Lenin mai pubblicato in italiano e pronunciato nel 1920 di fronte alla Conferenza del Partito Comunista Russo.

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Stato innovatore. Oltre al necessario impeto verso la neutralità della rete e la sua autonomia rispetto al vecchio monopolista, l’occupazione stia in testa alle priorità. La banda ultralarga scambiata con la vita di lavoratrici e lavoratori sarebbe una sconfitta

E così Habemus retem. Sembra, ormai, ai titoli di coda l’annosa vicenda della rete di telecomunicazioni italiana. Sembrava che il negoziato tra l’ex monopolista Tim e Open Fiber (la combinazione tra Enel e Cassa depositi e prestiti) fosse parzialmente arenato. Tuttavia, lo stato di necessità ha preso il sopravvento, giustamente. Non si poteva continuare a rimanere terz’ultimi in Europa quanto a irradiazione della banda larga e ultralarga. Ora che – con le varie stagioni della pandemia – il diritto alla connessione è stato finalmente riconosciuto come un bene comune e primario, evitare lo spezzatino a pois di questi anni diventa un imperativo categorico.

I fatti. Nel prossimo consiglio di amministrazione Tim varerà la scelta decisiva. Vale a dire, la destinazione dell’apposita società (ora 58% Tim, 4,5% Fastweb, 37,5% il fondo statunitense Kkr, ma in arrivo Tiscali e soprattutto Cassa depositi e prestiti) ad occuparsi del collegamento tra i cosiddetti armadi di strada e le abitazioni. Con la fibra e via via con tecnologie plurali, tra cui spicca il tanto evocato 5G (sarà sicuro per la salute?), in modo da recuperare i ritardi con quello che si chiama il “doppio salto”: dall’arretratezza ai piani più alti. Va ricordato che uno dei motivi della maggiore duttilità di Open Fiber sta, probabilmente, nello scarso successo ottenuto nelle zone deboli del paese, per la cui copertura aveva pure vinto diversi bandi pubblici.

Se la combinazione societaria assegnerà una formale (risicata, ma la simbologia conta) maggioranza al gruppo diretto da Luigi Gubitosi e se il ruolo pubblico verrà assolto dalla Cassa depositi e prestiti (che ormai ricorda i fasti dell’Iri) la partita a scacchi si conclude. Rimane un dubbio: i francesi di Vivendi tacciono. E Berlusconi, che sogna da anni di attraccare là dentro? E l’Europa?

Malgrado le evocazioni retoriche del mercato, per siglare l’intesa si è tenuta una riunione tra il governo e la maggioranza in grande stile. “Quelli che…”, avrebbe compendiato Enzo Jannacci. Già, perché solo ora si appalesa una soluzione bocciata, per motivi ottusi figli del peggior liberismo, diverse volte?

Nel frattempo, la privatizzazione di Telecom ha fatto danni enormi e una struttura che fu avanguardia nel villaggio globale è stata spolpata. Il governo presieduto da Matteo Renzi pensò bene di cambiare cavallo, optando per Enel. Altra stagione di rinvii e perdita di tempo. Quest’ultimo è una variante cruciale in un sistema nel quale le tecniche corrono alla velocità dell’intelligenza artificiale.

Bene, allora, che sia l’occasione per una vera politica dell’innovazione, sorretta da un’idea forte e non passatista di “Stato innovatore”. Non solo. Forse qualcuno si è ricordato di ascoltare le organizzazioni sindacali, giustamente inquiete. In tutto il parlare di rete e di governance, si è perso di vista il punto di vista del lavoro. Stiamo parlando di circa 100.000 persone, tra gli interni e l’indotto. Oltre al necessario impeto verso la neutralità della rete e la sua autonomia rispetto al vecchio monopolista, l’occupazione stia in testa alle priorità. La banda ultralarga scambiata con la vita di lavoratrici e lavoratori sarebbe una sconfitta.

Non il fiore all’occhiello che oggi si vuole agitare. Se la prospettiva è, invece, un serio sviluppo, allora si comincia a ragionare. Se, poi, la rete diviene l’alternativa alle attuali piattaforme degli Over The Top, c’è da brindare. Comunque, un pezzetto di socialismo, in una rete sola.

 

 

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Ecologia. Il limite di chi, a sinistra pone l’accento sull’accesso e sulla distribuzione della ricchezza, e di chi, tra i verdi, non vede le logiche dell’accumulazione capitalista.

 

C’è chi pensa – vedi il genetista evoluzionista Svante Pääbo, in Elizabet Kolbert, La sesta estinzione, Beat edizioni, 2014 – che ci sia un “gene faustiano” annidato nella mente umana che spinge alcuni individui (maschi – ci dicono le paleoantropologhe femministe) a sviluppare comportamenti aggressivi, predatori, distruttivi.

Nel corso della storia, si sono creati clan, potentati, élite dominanti che hanno plasmato le relazioni sociali. Come giudicare diversamente, se non folle, ciò che sta avvenendo sotto i nostri occhi, a conclusione di un lungo ciclo di civilizzazione, addirittura un’era geologica che molti scienziati vorrebbero ridefinire con il nome Antropocene? (Vedi per tutti, di Jan Zalasiewicz, The Anthropocene as a Geological Time Unit, Cambridge University Press, 2019).

Il sistema energetico fossile modifica la composizione chimica dell’atmosfera, genera cambiamenti climatici catastrofici e acidifica gli oceani; il sistema alimentare carnivoro distrugge le foreste primarie, desertifica i mari, elimina la biodiversità, innesca pandemie; il sistema di produzione industriale di beni di largo consumo programmato sull’obsolescenza genera spreco di materie e di risorse naturali non rinnovabili; il modello di insediamento urbano ammassa in megalopoli invivibili metà della popolazione mondiale; il paradigma tecno-scientifico è mirato alla ricerca del superamento dei limiti naturali (i nove Planetary Boundaries individuati dal gruppo di ecologi di Johan Rockström) e alla progressiva artificializzazione dei cicli vitali; il sistema dell’informazione manipola e sorveglia; l’assetto geopolitico è basato sulla potenza imperiale e la violenza militare.

Ovviamente, non c’è nulla di geneticamente predeterminato e di inevitabile nella suicida “devastazione dello spazio vitale” (Konrad Lorenz, 1972) intrapresa dall’homo – autodefinitosi – sapiens. Altri itinerari e altri esiti sarebbero stati possibili in passato e potrebbero esserlo ancora in futuro. Ed è questo il preciso campo dell’intervento politico, ovvero delle scelte collettive. La politica, invece, “muore” – come affermano da tempo molti politologi – se non riesce a confrontarsi con le questioni fondamentali dell’esistenza umana, cioè con la dimensione culturale e valoriale eco-etica.

In assenza di ciò, è inevitabile che a evaporare per prima sia la politica di sinistra, di coloro, cioè, che pur dichiarandosi non contenti dello stato delle cose presenti rimangono inanimi nell’indicare alternative di sistema, ovvero colgono solo elementi parziali e separati delle conseguenze delle politiche di potenza e di dominio.

Tipico in molta parte della cultura del movimento operaio è porre l’accento esclusivamente sulle disparità e sulle ingiustizie patite dai ceti popolari nell’accesso e nella distribuzione della ricchezza economica. Così come noti sono i limiti dell’ambientalismo superficiale (facilmente sussunto dal mercato) che non coglie le logiche distruttive intrinseche dell’accumulazione capitalista. Più pericolose di tutte sono le derive identitarie di qualsiasi tipo, pur giustificate dai centralismi nazionalisti e dalla globalizzazione omologante.

La cultura politica di sinistra dovrebbe saper individuare e riportare ad unità la lotta ad ogni forma di dominio e di dominazione, facendo perno su un’idea di individuo completo, consapevole e responsabile dei diritti propri, degli altri e di ogni forma di vita. Per dirla a slogan: non basta la coscienza di classe, servono anche la coscienza di genere, di generazione, di luogo, di specie. Secondo il principio (ecologico) della interconnessione e interdipendenza di tutti i fenomeni naturali e sociali, della sostenibilità ambientale e della giustizia sociale.

La Commissione internazionale di stratigrafia della Unione internazionale di scienze geologiche è ancora incerta su quando fissare l’inizio dell’Antropocene: qual é il point-break, il momento in cui l’homo sapiens comincia ad agire come forza geologica e a lasciare tracce rilevanti e indelebili sul sistema Terra? Con la diffusione dell’agricoltura e dell’allevamento, 10.000 ani fa; con l’affermazione del pensiero occidentale antro e andro-centrico della tradizione ebraica e della filosofia greca ellenistica; 500 anni fa con la prima globalizzazione, la colonizzazione europea delle Americhe e la nascita del capitalismo (come suggerisce Jason Moore, Antropocene o Capitaloce? Ombrecorte, 2017); con la rivoluzione industriale nell’Ottocento; il 16 luglio 1945 con la detonazione del primo ordigno nucleare e il foll-out di radionuclei; nel maggio di quest’anno, con il picco record di 417 parti per milione di anidride carbonica (come 23 milioni di anno fa); il prossimo fine secolo con il raggiungimento del tetto di esseri umani (10 e più miliardi) e il contemporaneo limite più basso di biodiversità delle specie viventi presenti (“Sesta estinzione di massa”, la quinta interessò i dinosauri, 65 milioni di anni fa)?

Interrogativi con cui sarebbe interessante che la politica riuscisse a confrontarsi per non rimanere insignificante e per poter misurare le coerenze anche delle piccole e quotidiane scelte. Ad esempio, come spendere i denari del Recovery Fund, se vogliamo davvero servano a risanare il pianeta e a sostenere la vita delle Next Generation.

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