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Alla vigilia, il 13 ottobre, dello sciopero (indetto dall'Unione degli studenti) della e sulla alternanza scuola/lavoro riprendiamo il tema con un articolo di Alba Sasso pubblicato su "il Manifesto" dell' 11 ottobre 2017

Spreco e confusione nell’alternanza scuola-lavoro
di Alba Sasso

McDonald e Zara i due grandi gruppi che si sono accordati con il ministero. Ma la scuola non ha mezzi per organizzarsi, e gli studenti finiscono in corsi sconnessi dallo studio

Quest’idea dell’alternanza scuola/lavoro, obbligatoria per tutta la scuola secondaria superiore, pezzo forte della legge 107, è cominciata nell’incertezza e sta finendo nel caos. Come ci riportano le cronache di questi ultimi giorni.
Ci ricordiamo bene Matteo Renzi che spiegava alla lavagna, come un ‘buon maestro’, la «buona scuola». E che con la bacchetta indicava il pezzo forte e qualificante della sua riforma, appunto l’alternanza scuola-lavoro: 200 ore nel triennio dei licei, 400 nel triennio di tecnici e professionali.
UNO STRUMENTO per rinnovare la scuola, con un’immersione nel mondo del lavoro, per formare al «senso di iniziativa e di imprenditorialità». Le cose devono cambiare: la scuola si deve aprire al futuro, alla capacità del fare, all’imparare «facendo».
Non solo, nell’epopea renziana l’alternanza è anche trampolino «verso una professione», nella speranza che gli stage possano permettere di abbassare quel 46% di disoccupazione giovanile, tarlo e remora per lo sviluppo del Paese.
Mai viste e sentite tante sciocchezze tutte insieme.

Eppure la scuola, quella buona davvero, si è rimboccata le maniche e ha avviato percorsi, progetti, a volte anche pregevoli, sempre tra mille difficoltà.
MA IL PROBLEMA sostanziale è che un’attività resa obbligatoria per tutti gli studenti per legge, in assenza di qualsiasi strumento offerto alle scuole per la sua organizzazione, finisce con il produrre approssimazione, spreco, confusione, se non peggio.
Un monitoraggio dell’Unione degli studenti sulle esperienze di 15.000 studentesse e studenti ci dice che oltre la metà degli intervistati dichiara di partecipare a percorsi non inerenti ai propri studi e che quattro studenti su dieci ammettono di non essere messi nelle condizioni di apprendere, nel percorso di alternanza.
E infatti, al di là degli slogan già ricordati, qual è il senso vero di questa operazione? Si impara un lavoro, si conosce un ambiente di lavoro, si riflette su una filosofia e un’organizzazione d’impresa? Da McDonald, da Zara?
(Sono, infatti, due grandi gruppi che hanno fatto un accordo con il Ministero.)

La scuola è stata lanciata in questa avventura, senza che venisse fatta chiarezza su obiettivi e strumenti. Senza predisporre una struttura organizzativa e normativa che renda possibili i percorsi e ne garantisca utilità ed efficacia. Alcuni esempi? La maggior parte dei luoghi di lavoro non è attrezzata per accogliere studentesse e studenti e non è stata ancora definita la Carta dei diritti e doveri dei soggetti in alternanza. E per di più i percorsi di alternanza spesso comportano costi per studenti e famiglie.
Nel 2016, il primo anno dell’applicazione della riforma, ha partecipato all’esperienza di alternanza uno studente su tre, il 60% nei professionali, il 20% nei licei.
In queste condizioni di assoluta difficoltà organizzativa non c’è da stupirsi se molte scuole finiscono col far svolgere l’alternanza (in realtà stage) nel periodo estivo, magari a piccoli gruppi che vanno a fare i camerieri in Italia o all’estero, per coprire le ore e poter poi fare gli esami finali. Ma con quali tutele e con quale efficacia formativa? Per non parlare di episodi vergognosi recentemente accaduti e denunciati, dalle molestie alle studentesse, al ricorso a studenti in alternanza per lavori, che non rientrano in nessun piano formativo, e che dovrebbero invece essere affidati a lavoratori regolarmente retribuiti.
E quante ore sono state sottratte all’apprendimento con questo modo di procedere?
L’ALTERNANZA SCUOLA lavoro non è una novità, era prevista già dalla legge 53 del 2003, meglio conosciuta come legge Moratti. Ma la obbligatorietà del percorso, imposta dalla «buona scuola», ha portato molte scuole a un’applicazione forzata della legge stessa per timore di non svolgere le ore previste, necessarie per sostenere gli esami finali, e a doversi inventare percorsi e soluzioni improvvisate.

Il rapporto scuola-mondo del lavoro è una cosa seria, se non è un obbligo ma un’opportunità, se rappresenta uno scambio di sapere e di esperienza, e se davvero riesce a far crescere e consolidare processi di apprendimento e di crescita, umana e civile.
Con un po’ di umiltà bisognerebbe davvero fermarsi per un bilancio di quel che sta accadendo, nel bene e nel male. E dovrebbe essere soprattutto il Ministero a farlo, smettendo di difendere l’indifendibile.

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Quarto polo. La tappa fiorentina del giro d'Italia di 'quelli del Brancaccio' e della Rete delle città in Comune, per una lista di sinistra nel segno dell'attuazione della Carta repubblicana: "Compreso il titolo III". Cioè il modello economico.

Al di là delle dichiarazioni ad effetto – “il nostro programma non è di stare al tavolo, ma di ribaltarlo” – che pure muovono l’applauso di Sant’Apollonia, è il filo del ragionamento di Tomaso Montanari che non mostra smagliature, almeno agli occhi di (quasi) tutta una platea fatta di attivisti di partiti, comitati e associazioni, e per fortuna anche di curiosi, compresi molti under 40. La tappa fiorentina del giro d’Italia “Cento piazze per il programma”, lanciato dall’ “Alleanza popolare per la democrazia e l’uguaglianza”, cioè ‘quelli del Brancaccio’, e dalle “Rete delle città in Comune”, non offre risposte definitive su un programma di sinistra che, appunto, è un work in progress. Ma segna comunque gli assi cartesiani di un rassemblement, non solo elettorale, “che intende ricostruire la sinistra con un percorso di partecipazione democratica dal basso, e che ci veda tutti sulla stessa rotta, nella stessa direzione”.
Quale direzione? La risposta dello storico dell’arte tiene insieme una provocazione e un giudizio politico: “Alla fine di questo percorso faremo una nuova assemblea a Roma, al Brancaccio. Io vorrei farla il 19 novembre, e non perché quel giorno c’è un’iniziativa politica che vuol fare D’Alema. Lo vorrei fare quel giorno perché, nel 1944, in quel teatro un discorso memorabile lo fece Emilio Lussu, sulla ricostruzione dello Stato dopo vent’anni di fascismo. E lo Stato, negli ultimi 25 anni, è stato di nuovo smontato, pezzo per pezzo”.
In realtà la futura assemblea novembrina del Brancaccio dovrebbe svolgersi una settimana più tardi. Anche per la sensibilità che si deve a chi sta organizzando un percorso politico parallelo. Difficilmente convergente però, se Montanari davanti alle telecamere di La7 osserva: “Le politiche di centrosinistra hanno provocato tanti disastri”. Parole che si accompagnano, pensando alla “sua” Toscana, all’invito rivolto ad Enrico Rossi in un auditorium che ben conosce, e denuncia, la reale natura delle scelte sanitarie e infrastrutturali della Regione: “Lo dico all’amico Rossi: va bene un percorso comune, ma solo se si cambia rotta sull’aeroporto di Firenze, sull’inceneritore, sul sottoattraversamento dell’alta velocità, sulle politiche sanitarie”.
Il diretto interessato si schernisce: “Questo progetto non ha un leader. Credo sia finito il tempo in cui le case si costruivano dai tetti”. Ma i riflettori sono comunque per lui, Tomaso Montanari. Eppure l’auditorium ascolta con attenzione, in sintetici interventi di cinque minuti scanditi da Giulia Princivalli e Alberto Mariani, le parole assai critiche – vedi nuova possibile legge elettorale – di Alberto Cacopardo dei comitati per il “No” al referendum del 4 dicembre. Poi Tommaso Fattori, di Sì Toscana a Sinistra, pronto a rilevare: “Occorre nettezza, radicalità, credibilità: appena un mese fa uno dei leader di Mdp (Pierluigi Bersani, ndr) ha preso pubblicamente le distanze da Jeremy Corbyn sulla rinazionalizzazione dei servizi pubblici. E non dimentichiamo che, senza interconnettersi con il ‘campo di gioco’ europeo, non saremo mai in grado di difendere le nostre scelte politiche dai diktat dell’Ue come il pareggio di bilancio. Dobbiamo imporre la nostra agenda e non inseguire quella degli altri, come abbiamo fatto con i referendum sull’acqua e i servizi pubblici”. Poi disattesi.
Ancora, Massimo Torelli dell’Altra Europa, con un secco intervento a colpi di tweet sul modello coniato da Pablo Iglesias di Podemos. E, fra Dimitri Palagi (Prc), Serena Pillozzi (Si), Serena Spinelli (Mdp) e Miriam Amato (Al), c’è il prof di liceo Andrea Bagni: “ Per chi ha meno di 30 anni, la dimensione della politica è stata terra bruciata fino al 4 dicembre scorso. Non deludiamoli di nuovo”. Chiude Montanari: “Ricordiamolo sempre, il governo è un servizio, non un fine: al governo ci andremo quando avremo la forza di imporre un progetto. Di attuazione della Costituzione, compreso il titolo III”. Il modello economico.

 

 

 

 

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Tre ottobre 2013, al largo dell’isola di Lampedusa morirono in un naufragio 368 persone.

Quella data, il 3 ottobre, è stata dichiarata, con una legge approvata dal Parlamento, Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’immigrazione.

Si trattò di una vera tragedia, documentata da immagini strazianti, come la lunga fila di bare nell’aeroporto dell’isola, che fece in pochi minuti il giro del mondo.

Il governo italiano dopo poche settimane attivò, per la prima volta, un programma pubblico di ricerca e salvataggio, Mare Nostrum, che consentì a decine di migliaia di persone di salvarsi.

Poi, come, sempre, le diffuse tendenze razziste del nostro Paese, e del vecchio continente, hanno avuto il sopravvento, nel dibattito pubblico e nell’orientamento dei governi.

Chiuso Mare Nostrum, prende definitivamente il sopravvento il punto di vista dei predicatori d’odio.

Ogni tanto qualche barlume di umanità davanti ai morti. Come davanti alle immagini del corpo del bambino siriano, Aylan, sulla spiaggia di Bodrum. Ma si tratta, quasi sempre, di parole e impegni di circostanza, di lacrime di coccodrillo.

Le politiche sull’immigrazione sono andate e continuano ad andare sempre nella stessa direzione: chiudere, fermare, controllare, respingere. La criminalizzazione dell’immigrazione e della solidarietà è proceduta a grandi passi, per dare solide basi di consenso alle scelte dei governi e dell’Ue.

In questi anni le frontiere sono state ulteriormente blindate. Sono andate avanti con grande impegno le iniziative volte a esternalizzare le frontiere, scaricando su altri governi e Paesi l’onere di fermare i flussi e di respingere.

Ricorrendo ad uso distorto e strumentale delle risorse per la cooperazione allo sviluppo. Prima la Turchia di Erdogan e poi la Libia di Serraj. Con grande dispiegamento di diplomazia e di denari pubblici.

La memoria delle vittime dell’immigrazione non sembra aver scalfito il cinismo di chi continua a considerare questo tema un’arma di distrazione di massa (le destre xenofobe e razziste) e di chi invece è convinto che per sottrarre un argomento alle destre bisogna giocare d’anticipo e, parafrasando il comico, non lasciare il razzismo ai razzisti.

Il 3 ottobre è una giornata di lutto.Per quei 368 esseri umani sterminati dalle politiche di gestione delle frontiere e per le migliaia che sono morte dopo quel giorno: 15.289 persone, secondo i dati ufficiali forniti dall’Unhcr. Più di 10 morti al giorno.

Gran parte di queste persone non ha un nome e mai avrà una degna sepoltura. I loro corpi non saranno restituiti alle famiglie. Una giornata nella quale non è accettabile esprimere solidarietà senza denunciare le politiche che hanno prodotto e continuano a produrre la strage che avviene davanti ai nostri occhi.

Non c’è spazio per una neutralità che non condanni le cause della strage.

Per fermarla bisogna far cambiare le politiche dell’Ue e dei governi europei, a partire dal nostro, e mettere in campo politiche e leggi alternative, che consentano alle persone che sono obbligate o vogliono partire di rivolgersi agli stati e non ai trafficanti

In Italia e in Europa c’è una parte consistente dell’opinione pubblica, non solo gli antirazzisti, che pensano che le vite delle persone e i loro diritti vengano prima degli interessi elettorali dei partiti.

Questa parte sana della società oggi non ha spazio e non le viene data, se non raramente, la parola.

Molto più spazio e visibilità è dato a chi predica l’odio, a chi criminalizza l’immigrazione e la solidarietà.

Il prossimo 21 ottobre è stata lanciata una manifestazione nazionale contro il razzismo. Una grande occasione per riprendersi le piazze e dar voce a chi non vuole arrendersi alle stragi e alla cancellazione dei diritti sanciti dalla nostra Costituzione.

* vicepresidente nazionale Arci 

 

 

 

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da RavennaeDintorni.it

Un’alternativa di sinistra al Pd: prove generali per l’Alleanza popolare

Manzoli, consigliere di Ravenna in Comune, alla vigilia della presentazione pubblica del progetto lanciato a Roma da Anna Falcone e Tomaso Montanari

Il 30 settembre alla sala D’Attorre di Ravenna alle 15.30 è convocata la prima riunione di presentazione (aperta a tutti) dell’Alleanza popolare per la democrazia e l’uguaglianza, ossia, si legge nel volantino, «un percorso partecipato fra cittadini, forze civiche e soggetti politici in adesione all’appello lanciato il 18 giugno al teatro Brancaccio da Anna Falcone e Tomaso Montanari per costruire sui territori una politica dal basso». Punti di riferimento, la Costituzione, temi sul tavolo: ambiente, lavoro e povertà. Nessun nome, nessun ordine dei lavori.

Manzoli

Massimo Manzoli (al centro) al presidio dei lavoratori Ferrari davanti allo stabilimento Marcegaglia a fine agosto

Ma ad aprire il pomeriggio ravennate sarà Massimo Manzoli, ingegnere, attivo nell’associazionismo per la lotta alla mafia, consigliere comunale con Ravenna in Comune, lista nata dall’unione di numerose forze a sinistra del Pd che candidò Raffaella Sutter a sindaco (Manzoli le è subentrato lo scorso giugno a palazzo Merlato come consigliere). Da lui quindi cerchiamo di capire di più di questa nuova realtà di sinistra che sta cercando di nascere.

Che cosa è Alleanza popolare? Un nuovo soggetto nato per unire la sinistra che finirà per dividerla ulteriormente?
«Alleanza popolare per la democrazia e l’uguaglianza è l’idea di una grande coalizione civica che possa unire (e non dividere) le varie anime della sinistra a tutte quelle realtà civiche che vivono nel nostro Paese. Il punto di partenza, se vogliamo, è il più semplice: attuare quanto scritto nella Costituzione e da lì ripartire per affrontare varie tematiche, anche quelle che difficilmente entrano nella discussione politica attuale».
Chi aderisce a questa Alleanza allo stato attuale?
«L’idea di Falcone e Montanari nasce come un tentativo nuovo di intendere la politica. Entrambi hanno più volte chiarito che l’obiettivo non è creare una lista elettorale, ma tentare di riunire tutte quelle voci che non trovano più rappresentanza nei vari partiti o movimenti a sinistra. E da questa base nasce anche a Ravenna la giornata del 30. Sarà la prima chiamata pubblica per ragionare di questa idea di politica. A livello nazionale è stata data ampia importanza alla rete delle città in Comune, cioè la rete di liste civiche di sinistra sorte in tutta Italia nell’ultimo anno. È una rete di cui RiC fa parte fin dall’inizio. Ma come noi ci sono altre realtà civiche, come quella faentina, che sono attive nell’organizzazione dell’incontro, che avrà un respiro provinciale».
Ma c’è l’idea di costruire qualcosa in vista delle elezioni del 2018? O quando tutte queste realtà andranno al voto politico saranno in ordine sparso?
«È una domanda che andrebbe fatta a ogni referente provinciale di ogni partito. Io seguo quello che accade a livello nazionale, e mi occupo della mia realtà comunale. Non ho mai avuto tessere di partito quindi difficilmente posso dare un parere sulle logiche che si creano all’interno in vista delle elezioni. Ovviamente non mi dispiacerebbe che questo progetto potesse avere una rappresentanza parlamentare nell’immediato futuro. Da “civico” trovo sia un bel tentativo e che sia giusto provarci. Tra qualche mese si tireranno le somme».
Cosa ci dovrebbe essere questa volta di diverso rispetto agli altri tentativi (fallimentari) di unire la sinistra?
«A mio avviso, la vera differenza è la non esasperata necessita di costruire nell’immediato una lista elettorale. Se il primo obiettivo fosse stato quello non sarei qui, quando il primo obiettivo diventerà quello probabilmente farò un passo indietro dedicandomi “solo” al mio comune. Ma sono convinto che per creare qualcosa di nuovo, che sia diverso dal passato, perché sappiamo tutti che quelle esperienze non hanno funzionato, potrebbe servire tempo. Poi se ci sarà l’occasione di presentarsi alle elezioni con un movimento orizzontale, il più ampio possibile, ben venga».
Si tratta di un movimento che si presenta come alternativo al Pd. Ma c’è uno spazio concreto per una sinistra senza i dem? O si rischia di restare mera testimonianza?
«Se non fossimo convinti che c’è lo spazio, anzi, che è necessario uno spazio alternativo e a sinistra del Pd, non staremmo mettendo in campo questa iniziativa. La dimostrazione è evidente anche nei pochissimi mesi in cui sono in consiglio a ravenna. Ci sono temi, legati al lavoro, che solo una lista a sinistra e alternativa al Pd ha sollevato e sostenuto. Parlo, ma sono solo due esempi, della situazione dei dipendenti Euro&Promos e della vertenza Ferrari».
Ma perché secondo lei in Italia non si è riusciti a fare un’operazione alla Corbyn? In Gran Bretagna molti giovani si sono iscritti allo storico partito dei Labour per poi eleggere un leader di sinistra…  
«È un’ottima domanda, molto complessa. Siamo in un periodo in cui la politica non è attrattiva, da anni c’è una totale disaffezione alla politica e ai partiti. Non serve ricordare le percentuali andate al voto alle ultime regionali. In questo contesto è molto più probabile che le persone fuggano e si allontino invece che avvicinarsi per cambiare le cose. E la fuga dal Pd degli ultimi 4-5 anni ne è un esempio».
Andrà a sentire Pisapia, Bersani ed Errani a Ravenna? Le interessa il progetto?
«Se l’idea è quella di costruire un centro-sinistra, stringendo alleanze col Pd, come sembra dalle dichiarazioni nazionali recenti, direi proprio di no. Mi stupisce anche la domanda, visto che viene fatta a un consigliere di lista di sinistra alternativa al Pd. È semplice coerenza».
Dentro RiC perà c’è chi sta lavorando a questo progetto…
«Ravenna In Comune per la pluralità di partiti e movimenti che tiene dentro è una realtà rara in Italia. Ci sono partiti con sensibilità molto vicini al Pd a livello nazionale che, però, hanno iniziato questo progetto con tutti noi. Non è né un segreto né una provocazione. E credo di avere e aver avuto con loro un rapporto sempre molto schietto e trasparente. In entrambe le direzioni intendo».

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Fra tavoli e piazze, dove nasce la nuova Sinistra?

da http://www.huffingtonpost.it/

Leggo oggi sul Corriere della sera che: "Fra un paio di giorni, quando sarà rientrato dalla Palestina, Roberto Speranza convocherà un tavolo con Sinistra Italiana, Pippo Civati e il movimento di Anna Falcone e Tomaso Montanari".

 

Mi sono sempre chiesto se non esista una relazione tra il fatto che la Sinistra sia ridotta ad un fantasma e il fatto che per materializzarla si usi un "tavolo". Ma di certo ogni elettore di buon senso che legga una frase come quella trascritta penserebbe di trovarsi di fronte a liturgie ermetiche e remote, e si allontanerebbe ancora un po' dalla "politica politicata".

 

Il paradosso di questi immaginari riti segreti è che essi nascondono, nel discorso giornalistico, la realtà concreta di un percorso pubblico, invece sistematicamente ignorato.

Qualcuno ha forse letto sul Corriere (o anche altrove, per carità) che migliaia di persone si stanno riunendo, in piazze e teatri di tutta Italia, per discutere di una sinistra che ancora non c'è, ma che sta lentamente prendendo forma? È il percorso partito il 18 giugno dal Teatro Brancaccio (che non è un movimento e non è di qualcuno), e che continua a snodarsi per l'Italia: in tutto ottobre ci saranno assemblee tematiche, e a novembre una grande assemblea romana che restituirà al paese un progetto di inclusione, eguaglianza, giustizia sociale. Un programma che suggerisca come si può attuare la Costituzione.

 

Chi partecipa a questo percorso? Cittadini senza tessere, singoli membri di associazioni, movimenti, sindacati (dall'Arci a Libera all'Anpi a Libertà e Giustizia alla Cgil e via elencando...), cattolici e laici, e anche ex elettori del Pd e dei Cinque stelle, o astenionisti impenitenti. E poi tanti iscritti (e dirigenti) di Sinistra Italiana, Possibile, Rifondazione, Mdp, l'Altra Europa, Diem e ancora altri partiti o movimenti.

 

Cosa unisce questo mondo variopinto, che nessun tavolo potrebbe per fortuna contenere? Due semplici cose: la consapevolezza che è necessario invertire drasticamente la rotta del paese; e la volontà di farlo costruendo una nuova sinistra, dal basso.

È di questo che si discute, in quelle piazze e in quei teatri, intrecciando il discorso sulle cose, al discorso sul metodo. Inevitabilmente: perché nessun modo vecchio può far nascere una nuova politica capace di rinnovare l'Italia.

È, con ogni evidenza, un percorso culturale e politico di lungo periodo. Ma tutti coloro che partecipano hanno ben chiaro il fatto che non possiamo permetterci che nel prossimo Parlamento tutto questo non sia rappresentato.

Si tratta dunque di provare a costruire anche una lista. E perché ci sia una possibilità di successo, ci vuole una lista unica a sinistra. Ma non una lista arcobaleno fatta sommando sigle a un tavolo, bensì una lista aperta, insieme poltica e civica: costruita un po' come quelle che si sono imposte in tante città italiane. E cioè nelle piazze, nella trasparenza, nella partecipazione.

Come si fa, in pratica? Per esempio con una grande assemblea nazionale, eletta (con un sistema proporzionale: lo stesso che vogliamo per le elezioni politiche) da tutti i cittadini (con tessera e senza tessera) che si riconoscano in questo orizzonte comune. E affidando a questa assemblea tutte le decisioni: programma, liste, nome, della lista, leadership (che io credo debba essere plurale). Senza alcuna imposizione, senza alcuna scelta presa a priori. Tutto il contrario di un tavolo (che infatti nessuno ha convocato, per giovedì o per altre date): il dialogo con Roberto Speranza esiste fin da prima del 18 giugno e prosegue, come quello con tutti i diversi attori di questo processo.

I nodi sono tutti ben noti (in sintesi estrema: sinistra o centrosinistra; Pisapia leader designato o elezione democratica di una leadership; modello coalizione con primarie o modello lista civica dal basso), ed è altrettanto noto che se non si sciolgono non è possibile fare una lista unitaria. Ed è per questo che il dialogo continua, e continuerà: ma senza "tavoli", "convocazioni" e altri riti del passato.

La domanda è una sola. Alle prossime elezioni ci sarà la Destra, il Movimento 5 stelle guidato da Di Maio, e il Pd di Renzi. Vogliamo o no che esista un quarto polo: la Sinistra? Non un "centrosinistra" che denunci fin da quella incomprensibile (quale sarebbe il centro?) etichetta una sua insufficienza, prima culturale e poi politica: ma una Sinistra, anzi la Sinistra, unita e determinata a cambiare il paese.

La risposta di tutti coloro che partecipano al percorso iniziato al Brancaccio è un forte sì. Forte come il no che ha bocciato la riforma costituzionale, riaprendo lo spazio del conflitto sociale, unico motore possibile del cambiamento.

Dunque, chi vuole capire se una nuova sinistra può nascere, deve andare nelle piazze, non aspettare tavoli e convocazioni. Perché, in una nuova politica, il discorso pubblico e il discorso privato sono identici. E perché questa nuova politica non può che nascere dal basso, non dall'alto. Come ha scritto Emilio Lussu: "La Costituzione è cosa morta, se non è animata dalla lotta. E anche quando siamo stanchi e vicini alla sfiducia, non c'è altro su cui fare affidamento. Rimettersi all'alto è capitolazione, sempre".

 

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di Francesco Vignarca da il manifesto del 26 . 09

Disarmo. La «Giornata internazionale per la totale eliminazione delle armi nucleari» turbata dal comportamento irresponsabile di Trump e Kim e dai toni duri della Nato sul Trattato di non proliferazione

Si celebra oggi nel mondo la «Giornata internazionale per la totale eliminazione delle armi nucleari», voluta 4 anni fa dall’Onu nella data in cui, nel 1983, Stanislav Petrov salvò il mondo. Chi era Stanislav Petrov, vissuto nell’anonimato e purtroppo scomparso da poco?

Era un Colonnello dell’Armata Rossa che in quella sera di autunno vide sugli schermi dei computer della sua stazione di comando una segnalazione di missili balistici provenienti dagli Stati uniti e pronti a impattare sul suolo sovietico. Al posto di far partire, come da procedure, una risposta missilistica nucleare decise di attendere e verificare. Sette minuti, quelli dei tempi di volo previsti per tali missili, divenuti lunghissimi e alla fine dei quali la segnalazione si rivela poi un falso allarme. Quella notte davvero Petrov ha salvato la vita di buona parte degli abitanti di questo pianeta.

La data e la celebrazione quest’anno assumono ancora più importanza perché cade in corrispondenza con le crescenti tensioni tra Stati uniti e Corea del Nord proprio su questioni legate allo sviluppo di arsenale nucleare messo in atto da Kim Jong-un. Secondo gli esperti la Corea del Nord dovrebbe avere materiale fissile per poter costruire tra le 30 e le 60 testate nucleari, mentre è ignota la presenza di vettori relativi. Di certo l’escalation militare potrebbe essere dietro l’angolo e il comportamento irresponsabile di Trump e Kim non fa che avvicinarla. Dimostrando come la deterrenza dell’armamento nucleare, tanto invocata e magnificata da chi non ne vuole la messa al bando, non funziona per prevenire una proliferazione pericolosa. Non resta dunque che sperare nella presenza futura di molti altri Stanislav Petrov, come antidoto a questa situazione.

La Giornata Internazionale assume grande rilevanza anche per l’apertura alla firma la scorsa settimana del Trattato sulla proibizione delle armi nucleari, votato a New York lo scorso 7 luglio e ora già firmato da oltre 50 Stati (3, tra cui Vaticano e Thailandia, hanno provveduto anche alla sua ratifica); il testo diventerà norma internazionale quando verrà ratificato dal almeno 50 paesi. Organizzazioni, associazioni, campagne hanno premuto affinché la comunità internazionale comprendesse che la grande distruttività e inumanità intrinseca delle armi nucleari è ormai da mettere fuori dalla storia. Un progetto che ovviamente sta vedendo l’opposizione delle potenze nucleari, e dai Paesi sotto il cosiddetto «ombrello nucleare», come evidenziato dal durissimo comunicato dell’Alleanza atlantica nel giorno dell’apertura alla firma del Trattato: «Finché esisteranno le armi nucleari, la Nato rimarrà un’alleanza nucleare. Facciamo presente ai nostri partner e a tutti gli Stati che stanno considerando di sostenere questo Trattato di riflettere seriamente sulle sue implicazioni per la pace e la sicurezza internazionali». Più minaccia che documento politico congiunto, con una chiusura netta e durissima: «Non accetteremo alcun tipo di argomento per cui questo Trattato possa in qualsiasi modo contribuire allo sviluppo di una legge internazionale vincolante». Parole che rendono difficile cambi nelle politiche anche del nostro Paese ma che evidenziano chiaramente un imbarazzo e una difficoltà non banali.

Anche la società civile italiana si è mobilitata in questi anni e oggi rilancia la campagna di pressione «Italia Ripensaci!» affinché il nostro Paese non si accodi alle false motivazioni delle potenze nucleari. Certamente il disarmo completo di tutti gli ordini atomici avverrà solo con i dovuti passi intermedi ma continuare a richiamare il Trattato di non proliferazione, utile a bloccare in qualche modo l’espansione degli arsenali ma ormai bloccato da 30 anni sulla questione del disarmo, non è certamente una scelta credibile. Se l’Italia non lo vuole fare da sola potrebbe tranquillamente far nascere un’iniziativa a livello europeo. Si è parlato di questi scenari lo scorso week-end nel XVII convegno di Castiglioncello promosso dall’Unione degli scienziati per il disarmo. Se ne parlerà ancora il 10 ottobre in occasione del Premio colombe d’oro per la Pace assegnato quest’anno da 

Archivio Disarmo proprio alla campagna internazionale Ican che ha seguito è supportato il percorso per arrivare al Trattato di messa al bando.

 

 

 

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