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È successo qualcosa, a Sinistra. Finalmente.
La nascita di "Liberi e uguali" è un sasso nello stagno. E davvero si deve guardare con enorme rispetto alla soddisfazione delle migliaia di compagne e compagni che hanno partecipato all'assemblea di Roma.
E c'è un "però". Non è possibile non chiedersi se i milioni che a quel processo non hanno partecipato – i cittadini di sinistra – saranno altrettanto soddisfatti di questa nascita. Al punto di votare in massa per la nuova lista.
Bisogna farlo con delicatezza, per quanto possibile. Perché in un momento così terribile nessuno ha il diritto di uccidere un entusiasmo, per quanto piccolo o magari mal fondato. E perché, è vero: non abbiamo più voglia di prendere atto di fallimenti e insuccessi. "Non facciamo troppo i difficili", pensano in molti: "prendiamo quel che si può, e tiriamo avanti". E poi, nell'Italia di Salvini, Berlusconi, Renzi, quale persona di buon senso e con un cuore normalmente a sinistra potrebbe dare la croce addosso a Civati, Fratoianni, Speranza, o all'ottimo Piero Grasso?
E però. E però non si può tacere. Perché se vogliamo che questa Italia non sia più appunto quella di Salvini, Berlusconi, Renzi, non possiamo continuare a fare quello che si è fatto ieri a Roma: continuare a perdere ogni occasione di svolta.
Perché il succo della vicenda è che tre partiti (due piccoli, uno minuscolo) hanno fatto una lista comune. Hanno costruito un'assemblea dividendosi le quote di delegati. Che sono tutti loro iscritti tranne un piccolissimo numero (meno del 3%, cioè circa 40 sui 1500, cui però si aggiungono altri "interni" al sistema, e cioè quasi 200 membri "di diritto": parlamentari, assessori, sindaci...). Niente di male: ma questa è la cucitura del vecchio, non c'è niente di nuovo. È un progetto fatto per chi è "dentro" la politica, non è un progetto capace

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Ieri il lavoro è tornato ad essere il protagonista in cinque piazze d’Italia. Il lavoro, non solo le pensioni che di una vita al e di lavoro sono il necessario e dovuto coronamento. Perché la Cgil non ha solo chiesto che si evitasse di andare in pensione a 67 anni, unici in Europa; che venissero rispettati gli accordi sottoscritti con il governo un anno fa, con nuove norme per le lavoratrici e per i giovani precari, per «rivedere», almeno, la legge Fornero. Non si è limitata ad aggiungere che bisogna cambiare la legge di bilancio, votata però già al Senato, perché essa elargisce solo sgravi e incentivi alle imprese, riservando bonus discrezionali al popolo, invece di delineare un nuovo tipo di sviluppo fondato sulla ricerca di una piena occupazione.

Ha voluto invece con una mobilitazione, geograficamente distribuita, ma sindacalmente compatta, porre davvero al centro dell’attenzione il tema lavoro, sviscerandolo e articolandolo in tutti i suoi aspetti. In particolare per quanto riguarda i giovani e le donne. Guardando alla qualità del lavoro, alle modalità e ai tempi della prestazione lavorativa, ai diritti offesi e violati ad essa connessi. Di questo hanno parlato le testimonianze e gli esempi riversati nelle piazze dai vari palchi. Il richiamo alla reintegrazione legislativa dell’articolo 18 – tutto intero, non frazioni del medesimo come qualche rappresentante di una incerta sinistra vorrebbe – ha avuto un significato tutt’altro che di routine, ma quello di riprendere in mano uno scudo contro licenziamenti ingiustificati, discriminatori e sempre più numerosi. Che peraltro, se combattuti con intelligenza e determinazione, già ora possono venire respinti da giudici capaci di trovare i sentieri stretti della giustizia in un campo pure dissestato dalla ferocia dell’offensiva neoliberista di questi anni.

Lo riconosceva ieri Maurizio Landini, proprio su questo giornale. La domanda che sorge nelle assemblee e nei cortei è una «Questa volta fate sul serio?». Una domanda semplice e terribile. Che interroga il sindacato, ma non solo. Troppi sono stati i fuochi di paglia. A volte solo flebili fiammelle immediatamente spente. La fiducia delle lavoratrici e dei lavoratori va riconquistata. E quando questa viene incrinata o persa, è cosa veramente dura. Chi ha frequentato i cortei di ieri lo ha visto e sentito. E ancor meglio nelle assemblee che li hanno preceduti. Negli sguardi attenti e preoccupati, ma mai smarriti. Nelle parole e nelle grida, determinate e ferme, ma illuminate da un senso critico che esigeva verifiche concrete. Dai palchi le e i dirigenti sindacali hanno parlato di un inizio di quella che sarà una grande vertenza. Hanno difeso l’autonomia del sindacato dai partiti e dal governo prossimo venturo, qualunque esso sia. In questo quadro acquista un senso non banale anche il tentativo ribadito di ritessere le fila con Cisl e Uil, malgrado il loro vassallaggio nei confronti dell’attuale governo.

Ma l’autonomia sarebbe parola rituale e quindi morta, se non significasse ripresa della conflittualità ad ogni livello. Nelle unità produttive, come nella logistica; sul territorio come nei vari punti che formano la catena del valore; a livello nazionale, quanto, almeno, europeo. Si tratta di ricomporre un mondo del lavoro mutato e frantumato. E il primo passo è conoscere la sua nuova morfologia. Nei nuovi processi di valorizzazione del capitale, il lavoro vivo da un lato viene mortificato nei suoi diritti o contrapposto al lavoro morto, quello incorporato nelle macchine, con cui «industria 4.0» vorrebbe sostituirlo. Dall’altro lato si annida ovunque, in ogni luogo e momento della vita quotidiana delle persone. Mai come in questa fase le paratie fra disoccupazione e occupazione, fra stabilità e precariato, fra età di lavoro e quella della pensione, sono così mobili e sottili da non essere percepibili. Su questo può basarsi la ricerca di una nuova confederalità e di una coalizione sociale che travalichi i confini organizzativi di un sindacato pur rinnovato.

Ma come non vedere come tutto ciò interroghi crudamente la politica. E come la risposta di quest’ultima più che insufficiente risulti squallida. Verrebbe quasi da dire, se non fosse per le argomentazioni appena richiamate, che l’autonomia del sindacato dai partiti è già garantita in negativo, per inconsistenza dei secondi non per succube acquiescenza del primo.

Ma allora questa mobilitazione di lavoratrici e di lavoratori, di giovani disoccupati e precari, di improbabili pensionandi e di pensionati è come un urlo che dovrebbe essere impossibile non udire. Non è solo dal sindacato che si attendono coerenti, combattive e continuative risposte. Ma dalla sinistra politica, quella che non c’è, ma di cui reclamano la ricostruzione le vene aperte di una condizione sociale abbruttita, ma non vinta, da anni di sconfitte e di crisi. Malgrado che il Censis con il suo immaginifico lessico intraveda «una vigorosa ripresa congiunturale»: un ossimoro, visto il senso negativo che solitamente viene dato a quell’ultimo aggettivo.

Ricostruire la sinistra a partire dal lavoro è impresa ancora più difficile, visto l’abisso da cui si parte. Ma è giusto pretendere almeno che alla sinistra del Pd nelle prossime imminenti elezioni si presenti una lista unitaria in totale discontinuità con le politiche degli ultimi governi, di centrodestra come di centrosinistra, denunciati ieri dalla Cgil. Il minimo sindacale, verrebbe da dire.

 

 

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 Sinistra. Il Brancaccio è sospeso e c’è il rischio di liste elettorali contrapposte. Ma dopo anni di divisioni ci sarà, il 3 dicembre, una occasione di aggregazione e ricomposizione

 Un'opera di Peter Demetz

È il 2008. Berlusconi ha vinto con uno scarto di 3 milioni e mezzo di voti. Due anni prima Prodi aveva prevalso per una manciata di voti, ma adesso il centro destra aveva messo insieme tutte le forze mentre il centro sinistra si era diviso. Veltroni aveva deciso di «andare da solo». per realizzare il suo sogno americano e le sinistre lo avevano assecondato: non dover più sostenere un governo che si era occupato solo di risanamento dei conti avrebbe permesso di ripartire dall’opposizione.

 

Uniti si può vincere – ma solo per poco e se il centro destra si divide – divisi si perde alla grande.

È IL 2018. Dieci anni dopo ci accingiamo a girare un film con un mix di satira e di horror. È cambiato il mondo e la globalizzazione ha fatto il giro di boa, virando per tornare indietro verso politiche nazionalistiche. Dal sogno del mondo che si apre alla circolazione delle merci e delle persone, siamo all’incubo del migrante, del vicino e del futuro. In mezzo a queste tragedie si recita l’ennesima commedia all’italiana e vecchi attori riguadagnano la scena. Alcuni con le rughe addolcite, ad ispirare la tenerezza della senilità, per cancellare i ricordi dei festini e riproporsi come guide affidabili e rinsavite, altri col volto deamicisiano del sempre buono, sempre pronto a salvare il paese e perciò a passare dal «si va da soli» al «ma anche tutti insieme» altrimenti vince la destra.

Uniti si potrebbe vincere, adesso si ripete. Un mantra senza convinzione e come se nulla nel frattempo fosse accaduto.

ED INVECE nel 2013 si era «quasi» vinto. Ma quel quasi è stato usato prima per fare governi tecnici, poi per fare, con un governo politico, sia le «riforme» che l’Europa chiedeva che la trasformazione definitiva di quel che restava del partito di massa della sinistra nel frutto geneticamente modificato del Pd. Così si è favorito il passaggio dal bipolarismo al tripolarismo e la crescita dell’astensionismo. Una crescita inarrestabile al punto che lo stesso Movimento che era nato per arginarlo mostra, oggi, di aver esaurito la sua capacità di attrarre i delusi. Primo nei sondaggi, ma di un corpo elettorale sempre più ridotto.

Quindi un crisi profonda del rapporto tra cittadini e politica ed una sinistra colpita e lacerata.

CI SI PUÒ UNIRE solo per vincere ed all’ultimo minuto dopo anni di rottamazioni, accuse, violenza verbale, ferite e lacerazioni? E, soprattutto, dopo la frattura sociale col popolo della sinistra e con le sue stesse rappresentanze sociali? No. Non farebbe guadagnare un voto oggi, non preparerebbe un futuro diverso e la svolta che serve. Il 2018 non è il 2008 e l’unico voto utile è quello ad un altro polo, ad una sinistra alternativa che possa promuovere una svolta radicale.

Avevamo sperato, a sinistra, che lo scossone del referendum potesse trasformare le macerie in una rigenerazione. Ma siamo in una fase storica con i caratteri straordinari prima accennati, dalla globalizzazione alla frantumazione sociale, etnica e generazionale. Ed in questo contesto produrre una svolta radicale capace di ridisegnare la relazione tra società civile e politica è obiettivo ambizioso e di dimensioni sovranazionali.

QUEL SOGNO, oggi, sembra svanire. Il Brancaccio è sospeso. Se ne riparla tra qualche mese. A sinistra potrebbero nascere due liste – una radicale ed una più radicale ancora – che naturalmente farebbero campagna elettorale l’una contro l’altra armata. Verrebbe da dire: coraggio compagni. Ci tocca vivere anche questa fase. Oppure…oppure invertire la rotta.
Per la prima volta dopo anni di lacerazioni e divisioni, nel processo di ristrutturazione delle forze politiche ci sarà, il 3 dicembre, una occasione di aggregazione e ricomposizione. Non avviene con l’entusiasmo che ci vorrebbe. Le ferite lontane e vicine sono tante e spesso ancora aperte. Ed i sospetti reciproci sono spesso più forti della fiducia. Anche per questo poteva essere utile l’apporto di uno spirito nuovo come quello del Brancaccio. Intendiamoci, la società civile non è altro da noi. Spesso si tratta della stesse persone che frequentano e praticano la politica. Ma lì si erano incontrate con un altro spirito, come parti di una comunità che aveva vinto la bella battaglia referendaria. Una comunità in cui per un momento il passato che aveva diviso veniva accantonato in nome di un futuro che poteva unire e cambiare la società ed anche i singoli.

SI FA ANCORA in tempo a recuperare quello spirito? Ci si può, anzi ci si deve provare. Quelli del Brancaccio debbono rielaborare le proposte programmatiche formulate dalle assemblee. La nuova forza che nascerà domenica 3 potrebbe – lo ha proposto Fratoianni – dare vita ad una due giorni sul programma a tutti i livelli territoriali. Potrebbe essere l’occasione per ricomporre metodo e merito – partecipazione e programmi – e passare ad una nuova fase: cominciare insieme una campagna elettorale ricostruttiva, di relazioni politiche ed umane e, soprattutto di rapporto tra società civile e politica. Proviamoci. Se non ora quando?

 

 

 

 

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Trecento persone all'Hotel Cube con Art. 1 MDP, SI e Possibile - Clima sereno e tanta voglia di lasciarsi alle spalle le divisioni del passato per costruire una nuova forza politica - Mancavano alcuni interlocutori.

Questa la sintesi di una cronaca fedele e dettagliata dell'affollata assemblea tenutasi domenica 26 novembre a Ravenna. La mattinata si è conclusa con l'approvazione dell'Appello nazionale per una Lista unitaria di sinistra e con l'elezione dei delegati per l'Assemblea nazionale che si terrà a Roma il prossimo 3 dicembre. A questo link l'intero articolo di RavennaNotizie.it.

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da "il Fatto Quotidiano" del 22/11/2017
Alfiero Grandi
(vicepresidente del Coordinamento per la Democrazia Costituzionale)

Il rischio è che ci sia assuefazione alla legge elettorale approvata con ben 8 voti di fiducia per impedire che i parlamentari si prendessero la libertà di avere un’opinione. Questa forzatura è servita a creare un fatto compiuto e nel nostro Paese questo spesso vuol dire assuefazione. Invece no, occorre contrastare la politica del fatto compiuto e dell’assuefazione facile. Questa legge elettorale probabilmente sarà quella con cui si voterà nelle prossime elezioni, se la Corte non accetterà prima del voto i rilievi di costituzionalità che sono stati presentati in diversi tribunali dagli avvocati del Comitato democrazia costituzionale. Dopo il voto solo un’iniziativa forte dei cittadini potrà sbloccare la situazione allucinante che questa legge provocherà.
Resta in parte un mistero perchè il Pd abbia voluto questa legge fino a spingere il governo a mettere voti di fiducia a ripetizione. Si intuisce che è una legge studiata per fermare i 5 Stelle e stroncare sul nascere la sinistra che ha rotto con il Pd. Ma proprio al Pd questa legge non porterà benefici, anche moltiplicando le liste civetta, perchè il problema del Pd non è aumentare i richiami ma le elettrici e gli elettori che non perdonano scelte politiche sbagliate. Invece il centro destra avrà benefici importanti, al punto che anzichè un nuovo patto del Nazareno potrebbe ricomparire in grande spolvero un nuovo palazzo Grazioli.
Comunque sia è evidente che la maggioranza dei partiti che occuperanno le Camere con i loro parlamentari nominati non rimetteranno in discussione questa legge elettorale. È già accaduto con il “Porcellum” voluto dal centrodestra e che il centrosinistra non ha cambiato quando avrebbe potuto e dovuto, perchè la tentazione di decidere chi verrà eletto in Parlamento per i capi partito è troppo forte, inarrestabile. La questione di chi elegge i rappresentanti non è un’astratta questione di principio ma un concreto problema costituzionale. La nostra è una Repubblica parlamentare, così afferma con forza la nostra Costituzione. Se il parlamento viene ridotto a mero votificio, viene intaccato un caposaldo del nostro assetto costituzionale. Da questa atrofizzazione del ruolo del Parlamento è inevitabile che si arrivi a un accentramento del potere in poche mani, a una democrazia sbrigativa e decisionista. In sostanza si finirebbe con lo scivolare, prima o poi, verso qualche forma di presidenzialismo, come del resto era già implicito nelle modifiche costituzionali di Renzi, per fortuna bocciate il 4 dicembre 2016.
Può essere che il colpo di mano dei voti di fiducia a raffica impedisca di votare tra pochi mesi con una legge elettorale degna di questo nome, ma non deve accadere che ci teniamo questo infernale meccanismo elettorale per sempre. Non sarà dal Parlamento che verranno modifiche positive. Ancora una volta sarà solo dalla volontà attiva dei cittadini che potrà venire la spallata per cambiare, completando il percorso iniziato con il referendum costituzionale. È opportuno provare a smuovere la Corte costituzionale con le iniziative degli avvocati. Ci sono punti su cui è possibile ottenere risposte, ad esempio sul voto per i candidati nei collegi uninominali della Camera e del Senato che portano con sé l’elezione conseguente di altri parlamentari e potrebbero perfino aiutare l’elezione di candidati in aree molto lontane. La costrizione creata dal voto unico crea un problema di libertà del voto dell’elettore.
Anche se le istanze degli avvocati trovassero ascolto presso la Corte, come è auspicabile, ci sono aspetti della legge elettorale che per questa via difficilmente verrebbero risolti perché richiedono scelte politiche più impegnative. Quindi è inevitabile che per modificare la legge elettorale si arrivi a porsi il problema di usare lo strumento del referendum abrogativo. I cittadini debbono rialzare la testa e, come nei momenti decisivi della nostra storia, debbono porsi il problema di modificare la legge elettorale per riportare i parlamentari a un rapporto diretto con gli elettori e non ad una sorta di carriera per cooptazione dall’alto.
Non ci sono alternative. Se non vogliamo tenerci questa schifezza occorre spiegare, mobilitare, arrivare ad una prova di forza referendaria che obblighi a cambiare. La qualità del parlamento è decisiva per le scelte concrete che ci aspettano. Fateci eleggere i nostri rappresentanti, questa era la sintesi della nostra critica alla legge elettorale e resta la parola d’ordine fondamentale. Senza trascurare che questa legge elettorale potrebbe rivelarsi una pentola diabolica ma senza coperchio e quindi la prossima legislatura potrebbe non avere vita lunga e un’iniziativa referendaria che inizia il suo percorso dopo il voto potrebbe rivelarsi provvidenziale. È aperta una grande questione democratica, la risposta deve essere una risposta di massa.

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da "Rassegna.it"
L'ultima proposta di Gentiloni viene bocciata dalla Cgil che la definisce "insufficiente", proclamando una mobilitazione generale territoriale. Camusso: "La vertenza è aperta, lo ribadiremo con grande forza". Chiesto incontro urgente a gruppi parlamentari. 
L'ultima proposta avanzata dal premier Gentiloni al tavolo sulle pensioni è stata bocciata dalla Cgil che l'ha definita "insufficiente", proclamando una mobilitazione generale territoriale per il prossimo 2 dicembre. Confermato dunque il giudizio “di grande insufficienza” del nuovo testo presentato oggi, 21 novembre, nel nuovo incontro coi sindacati. 
Il primo elemento di critica che ribadiamo è la scarsità di risorse nella Legge di bilancio. È  una scelta politica – ha detto la segretaria del sindacato di Corso d'Italia Susanna Camusso in conferenza stampa –. La vertenza previdenziale è aperta, lo ribadiremo con grande forza, e per sostenerla la Cgil indice per il 2 dicembre una prima mobilitazione, a sostegno di cambiamenti universali del sistema previdenziale e di una maggiore attenzione di governo e Parlamento ai temi del lavoro". 
"Il governo presenterà al Parlamento le proposte formulate oggi – ha continuato Camusso –. Il Parlamento può ancora intervenire e dare sostanza alle tante dichiarazioni di questi giorni dando risposte al mondo del lavoro. Questo rafforza le ragioni della mobilitazione". "La distanza tra le proposte fatte e gli impegni che erano stati assunti dal governo col documento del 2016 è significativa – conclude Camusso –. Non ci sono risposte sufficienti sulla pensione dei giovani, sulle donne, sul sistema previdenziale legato all'aspettativa di vita. Poca, troppo poca attenzione ai temi del lavoro". 
Camusso ha inoltre inviato una lettera a tutti i presidenti dei gruppi parlamentari, per richiedere un incontro urgente. “In vista del prossimo avvio dei lavori parlamentari sulla legge di bilancio - si legge nella missiva - siamo a richiedere un incontro urgente per poter esporre le nostre considerazioni e le nostre proposte in particolare sulle norme che riguardano il lavoro e la previdenza”. 
Stamani Gentiloni si era presentato con un pacchetto, chiedendo a Cgil, Cisl e Uil di siglarlo facendosi in cambio garante del fatto che sarà introdotto subito in Parlamento, blindandolo di fatto rispetto alle mire di modifica dei partiti. L'esecutivo ha quindi presentato il documento di sintesi delle proposte, che i sindacati hanno esaminato "nel dettaglio". 
Quanto ai contenuti tecnici della proposta, che risparmia i lavori gravosi dall'aumento dei requisiti per la pensione che scatteranno per tutti dal 2019, nelle 15 categorie di lavori gravosi vengono considerati anche i lavoratori siderurgici "di prima fusione", oltre a quelli "di seconda fusione e del vetro addetti ai lavori ad alte temperature non già ricompresi tra gli usuranti". Si prevede dunque l'immediata esenzione dall'innalzamento previsto per il 2019 del requisito anagrafico per la pensione di vecchiaia e del requisito contributivo per la pensione anticipata per le 11 categorie già individuate ai fini dell'Ape sociale e 4 categorie aggiuntive: operai e braccianti agricoli, marittimi, addetti alla pesca, siderurgici di prima e seconda fusione e lavoratori del vetro addetti ad alte temperature. 
Il testo precisa, però, che l'esenzione è condizionata allo svolgimento di attività gravose da almeno 7 anni nei 10 precedenti il pensionamento, nonché, al fine degli effetti per il requisito anagrafico, al possesso di un'anzianità contributiva pari ad almeno 30 anni. Inoltre si sancisce la partecipazione certa delle parti sociali alle Commissioni sulle aspettative di vita e sulla separazione assistenza-previdenza.
foto di Marco Merlini

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