Diritto alla città. Il sindaco Merola: «Non c’entro, è un'iniziativa dei magistrati. Ora soluzione alternativa». I movimenti: «Dov’è stato fino a ora? Ha avuto quattro anni per trovare una soluzione». La Fiom: «Gli sgomberi sono una vigliaccata». Davanti all'ex caserma Masini cariche violente contro gli attivisti. Corteo nazionale il 9 settembre
Doppio sgombero ieri mattina a Bologna. Ad essere chiusi i centri sociali Làbas e Crash. Il primo occupato dal 2012 quando alcuni attivisti riaprirono una caserma abbandonata da tempo in centro città e di proprietà di Cassa depositi e prestiti. Il secondo, alla periferia nord di Bologna, era attivo dal 2009 quando fu occupato uno stabile attualmente di proprietà di un fondo immobiliare.
L’OPERAZIONE ha messo in contemporanea i sigilli su due centri sociali che negli ultimi anni sono stati protagonisti, in città e non solo. Crash ha appoggiato i grandi scioperi dei facchini Si-Cobas in Emilia e nel 2014 è stato il regista delle occupazioni abitative che hanno fatto esplodere a Bologna la discussione sulle soluzioni da dare a chi finiva travolto dalla crisi. Làbas invece, oltre a intrecciare le proprie attività col tessuto cittadino diventando un punto di riferimento per moltissimi abitanti della zona, è stato uno dei cuori pulsanti dell’esperienza di Coalizione civica, rete della sinistra cittadina che ha sfidato il sindaco Pd Virgilio Merola alle ultime amministrative e ha portato in Consiglio comunale due eletti.
UN DOPPIO SGOMBERO che è piombato su una città mezza vuota per le ferie agostane, e che ha sorpreso molti. Sicuramente gli attivisti di Crash che a luglio avevano concordato con l’ufficiale giudiziario un rinvio dello sfratto a settembre, e che invece hanno scoperto con l’arrivo della celere che venerdì scorso era stato emanato un decreto di sequestro urgente. «Non ho potuto vedere il provvedimento ma potrebbe essere stato emesso in assenza dei presupposti di legge, quindi arbitrariamente» commenta la legale Marina Prosperi.
GLI ATTIVISTI DI LÀBAS sapevano dello sgombero in arrivo, e due sere fa hanno lanciato l’allarme con una catena di sms. Ieri mattina si sono fatti trovare di fronte al cancello dell’ex caserma: sono stati trascinati via a forza dagli agenti e manganellati. Nella mischia oggetti di ogni tipo sono stati lanciati contro le forze dell’ordine e una balla di fieno usata come barricata ha preso fuoco forse a causa di un petardo. La questura ha lamentato sei feriti, una decina invece i manifestanti. Contro lo sgombero si sono espressi Cgil, Fiom (che ha parlato di «vigliaccata»), Arci, Legambiente, Sinistra Italiana con i deputati Nicola Fratoianni e Giovanni Paglia, Possibile con l’europarlamentare Elly Schlein. Che fine faranno i due stabili sgomberati? Sono destinati alla «valorizzazione». L’ex Crash è di proprietà del fondo immobiliare Prelios, Làbas di un fondo controllato da Cdp che annuncia per l’ex caserma la «realizzazione di un complesso con prevalente funzione residenziale».
È PROPRIO SU LÀBAS che si gioca una partita politica importante. Più volte il sindaco Merola ha espresso apprezzamento per le attività del centro sociale, e da anni era in corso una trattativa per trovare uno spazio alternativo visto che la proprietà dell’ex caserma aveva più volte fatto capire che ad un certo punto sarebbe rientrata in possesso del suo stabile, su cui per altro pendeva un decreto di sequestro disposto dalla procura. Così è successo, lo sgombero è arrivato e nella polemica è finito Merola, colpevole per molti (e anche per alcuni consiglieri della sua maggioranza Pd) di non avere trovato per tempo una via d’uscita. Il primo cittadino ha spiegato che il doppio sgombero è stato attivato da «un’autonoma attività della magistratura» sulla quale «non ho titolo per interferire». Poi l’apertura: «Auspico che si riesca ad avviare un percorso per trovare una soluzione alternativa».
A RILANCIARE LA SFIDA gli stessi attivisti di Làbas, che per il 9 settembre annunciano un corteo per riaprire la caserma sgomberata a meno che non si trovino prima «soluzioni anche alternative ma concrete e all’altezza». Una trattativa informale tra le parti negli ultimi anni c’è sempre stata e almeno una proposta è stata scartata, tutto questo però senza mai portare a soluzioni tangibili o a rotture. Si vedrà se Merola riuscirà in un mese a tirare fuori dal cilindro quello che non si è mai visto in due anni.
DOPO AVER FESTEGGIATO il doppio sgombero la destra si prepara ad ogni evenienza. «Se Merola troverà spazi pubblici per queste persone mi rivolgerò alla Corte dei Conti e depositerò un esposto in Procura» ha detto la consigliera comunale della Lega Lucia Borgonzoni. Quella dell’esposto è una strategia classica, che non sempre ha pagato ma che è riuscita a portare Merola a chiedere lo sgombero del centro sociale Atlantide nel 2015.
L’EFFETTO IMMEDIATO dello sgombero è stato l’interruzione di tutte le attività di Làbas, compreso il dormitorio che dava un tetto a 20 persone. «Bologna si ritrova più povera – attacca Federico Martelloni di Coalizione Civica – lo dicono le migliaia di persone che hanno frequentato Làbas. E mentre succede vedo un Pd che discute del suo congresso, marziani che non si accorgono di quel che capita. Questo sindaco mi sembra estremamente fragile di fronte agli altri poteri cittadini».
GLI ATTIVISTI DI CRASH fanno sapere che rioccuperanno. «Sgombero dopo sgombero, scontro su scontro, abbiamo sempre continuato ad occupare spazi abbandonati sia pubblici che privati mettendoli a servizio di un laboratorio di politica antagonista, di culture radicali e alternative, di aggregazione giovanile e non solo. E così faremo in assenza di risposte al forte bisogno che esprime il nostro territorio di spazi legati alla pratica dell’auto-gestione e dell’auto-organizzazione».
(da Rassegna.it) Record negativo nell'indagine 2017 sull'occupazione e sugli sviluppi sociali della Commissione Ue. I giovani che non hanno e non cercano lavoro toccano quota 19,9% (la media europea è 11,5%). Boom dei contratti atipici
Neet, l’Italia è maglia nera in Europa - Rassegna
In Italia i giovani che non hanno un lavoro e non lo cercano sono più del doppio della media europea. È poco lusinghiero il record affibbiato al nostro paese dall'indagine 2017 sull'occupazione e sugli sviluppi sociali in Europa (Esde).
La fotografia dell'Italia offerta e pubblicata oggi, 17 luglio, dalla Commissione europea delinea infatti un Paese dove il numero di lavoratori autonomi è fra i più alti d'Europa (più del 22,6%), e i giovani fra 15 e 24 anni che non hanno e non cercano lavoro (i cosiddetti neet) toccano il record Ue del 19,9% (la media europea è 11,5%).
Ma c’è di più. La differenza fra uomini e donne che lavorano è al 20,1%, il numero di persone che vivono in condizioni di povertà estrema (11,9%) è aumentato fra 2015 e 2016, e siamo l’unico caso in Ue con Estonia e Romania.
Chi riesce a trovare un lavoro in Italia, tra l’atro, in più del 15% dei casi ha contratti atipici (fra i 25 e i 39 anni, nel Regno Unito è meno del 5%, dati 2014), è "considerevolmente più a rischio precarietà", e se ha meno di 30 anni guadagna in media meno del 60% di un lavoratore ultrasessantenne. Ne consegue che i giovani italiani escono dal nido familiare e fanno figli fra i 31 e i 32 anni, più tardi rispetto a una decina di anni fa e molto dopo la media Ue, che si arresta intorno ai 26 anni.
Eppure, l’analisi ci racconta un’Europa con più di 234 milioni di lavoratori, in cui il tasso di occupazione non è mai stato così elevato nell'Ue e la disoccupazione è al livello più basso dal dicembre 2008.
Il problema generazionale, però, non riguarda solo in Italia. Anche gli altri giovani europei hanno sempre più difficoltà nell'entrare nel mercato del lavoro e, quando ci riescono, si trovano spesso in forme di occupazione atipiche e precari, che possono comportare una minore copertura previdenziale. Di conseguenza, le nuove generazioni percepiranno "con tutta probabilità" pensioni più basse in rapporto alla loro remunerazione.
Il rapporto prevede infine un calo dello 0,3% annuo della popolazione in età lavorativa da qui al 2060. Ciò significa che in futuro una forza lavoro ridotta dovrà fare in modo di garantire il mantenimento dell'attuale tendenza alla crescita e pagare la pensione di un numero sempre maggiore di anziani.
Come riportano i quotidiani Il Mattino e Il Piccolo, l'ANAC di Cantone avrebbe evidenziato criticità sulle attività contrattuali di Hera. "Violazioni del Codice dei contratti, con affidamenti «non improntati» ai principi di libera concorrenza, non discriminazione e trasparenza, ma anche un prolungarsi del regime di "prorogatio" delle convenzioni di affidamento. Sono alcune delle «molteplici criticità» evidenziate dall'analisi dell'Autorità nazionale anticorruzione sulle attività contrattuali di Hera e Herambiente, contenute nelle conclusioni della delibera 626 del consiglio di Anac, firmata dal presidente Raffaele Cantone e pubblicata sul sito dell'Autorità" così riporta Il Mattino di Padova.
L'atto dell'ANAC arriva dopo l'ispezione sui contratti dell'ultimo triennio per la gestione del servizio integrato dei rifiuti e segue la relazione dell'ufficio ispettivo, le controdeduzioni delle società e documentazione dell'Agenzia territoriale dell'Emilia-Romagna per i servizi idrici e i rifiuti (Atersir). L'ANAC ha deciso poi l'invio della delibera anche alla Procura di Bologna e alla Procura regionale della Corte dei Conti «per gli aspetti di rispettiva competenza». La delibera viene inviata anche al presidente e all'ad di Hera e Herambiente, ai vertici di Atersir e al presidente della Regione Emilia-Romagna perché «possa espletare le funzioni di regolazione e vigilanza di competenza».
Secondo quanto riportano i quotidiani, l'indagine ANAC si sarebbe concentrata sull'analisi di un campione di 48 affidamenti di Hera e 133 di Herambiente da cui erano emerse criticità e le conseguenti contestazioni della relazione ispettiva. L'Autorità Anti Corruzione ha deliberato che l'analisi su Hera Spa e sulla sua controllata, ha evidenziato «molteplici criticità», riassunte in 12 punti. Il primo è «il prolungarsi del regime di "prorogatio” delle convenzioni di affidamento del servizio di gestione dei rifiuti urbani ad Hera spa, determinato da una complessa e rallentata gestione delle fasi propedeutiche alle gare» che concretizza «un improprio vantaggio per la società affidataria, la violazione dei principi di efficacia e speditezza dell'azione amministrativa» e «la sottrazione di significative risorse al mercato di riferimento».
Rispetto ai rinnovi, Anac sottolinea che hanno violato la normativa vigente i rinnovi contrattuali fatti da Hera «senza che l'opzione di rinnovo, ancorché la previsione del rinnovo fosse prevista nei documenti di gara, fosse accompagnata da adeguate e analitiche motivazioni che giustificassero il ricorso al rinnovo, strumento alternativo al principio generale del ricorso della gara». Per l'Autorità hanno violato il Codice dei contratti, invece, quelli fatti «senza che il valore del rinnovo fosse calcolato ai fini della determinazione delle modalità di affidamento». Avrebbe poi violato la libera concorrenza «la richiesta ai concorrenti di requisiti discriminanti quali quelli che pongono limitazioni territoriali ai fini della partecipazione alla gara».
In una nota sempre riportata dai quotidiani in questione il gruppo Hera afferma: «Non possiamo che ribadire che l'azienda ha sempre assicurato il miglior rispetto delle disposizioni in materia di contratti, come testimoniato dalle numerose sentenze favorevoli dei giudici amministrativi. Nel riservarsi ogni opportuna iniziativa - prosegue il gruppo - si ricorda che Hera ha comunque collaborato e collaborerà con Anac, con l'obiettivo di chiarire che l'azienda ha sempre agito nel rispetto delle disposizioni pertinenti, anche in un contesto normativo in continua evoluzione e non sempre puntualmente definito».
«L’architetto Piero Cavalcoli, sentito oggi in commissione Seta, esprime le critiche di Articolo 1 alla legge voluta da Bonaccini». LaPressa, 6 luglio 2017 (m.c.g.)
Si è tenuta oggi l'audizione degli esperti in commissione consiliare Seta del Comune di Modena sulla legge urbanistica in fase di discussione in Regione. Per ArticoloUNO-MDP è intervenuto l’architetto Piero Paolo Cavalcoli. Secondo i bersaniani la nuova Legge regionale va cambiata radicalmente a partire dal ripristino della pianificazione e della potestà reale dei Consigli comunali su questa materia.
«Come Articolo UNO-MDP Modena, assieme ai consiglieri presenti nei comuni della Regione, siamo convinti che la nuova Legge urbanistica inciderà e influenzerà parecchio il futuro dello sviluppo del territorio dei comuni emiliano romagnoli e per questo chiediamo con forza che i Consigli comunali possano ricoprire un ruolo determinante nella stesura definitiva e nel potere decisionale sugli Accordi Operativi che giungeranno in discussione nei Consigli comunali. Fra i punti richiesti ci sono: il ripristino di un vero ruolo centrale dei Consigli comunali sulla pianificazione urbanistica e non uno svilimento con inserimento della negoziazione diretta con i privati tramite Accordi Operativi; l’acquisizione preventiva, da parte della Regione, dei pareri di tutti i Consigli comunali della Regione; la riduzione delle troppe deroghe che di fatto concedono altro consumo di suolo ; una rigenerazione urbana meno occasionale e più mirata; limitare gli espropri solo nei casi di aree con progetti di destinazione pubblica; ruolo attivo dei cittadini e dei Consigli comunali sulla pianificazione del territorio, inteso come prezioso bene comune» -ha detto Vincenzo Walter Stella a nome del gruppo.
«Se si è d’accordo sull’individuazione dei problemi, non lo si è affatto sulle proposte di soluzione. Il disegno di legge non mantiene l’equilibrio tra i quattro temi che disciplina: i provvedimenti predisposti per la semplificazione rendono inoperanti quelli della difesa dell’ambiente, mentre quelli dello sviluppo economico e della riqualificazione urbana tendono a comprimere quelli necessari per garantire la legalità e il controllo. In questo senso ci sentiamo di affermare che l’impianto riflette in gran parte il punto di vista dei costruttori» - ha affermato l’architetto Piero Paolo Cavalcoli.
«Il “telaio” a cui riferire gli emendamenti che si vogliono proporre, costruito sui quattro punti citati, rappresenta una soglia “di minima” al di sotto della quale ogni modifica risulterebbe poco significativa ed in definitiva finirebbe col confermare un punto di vista che non può più appartenere alla disciplina e al suo carattere di pubblico interesse». Secondo Cavalcoli, quello proposto è dunque un insieme di modifiche che ha senso se viene discusso ed accettato nel suo insieme:
1. Sul tema dell’ambiente e del consumo del suolo è necessario portare a coerenza la proposta formulata dal progetto di legge innanzitutto cancellando le numerose limitazioni disposte (deroghe riguardanti interventi da sottrarre al calcolo), contrastando la vaghezza degli strumenti di verifica e di controllo ad essa collegati, ed infine, proponendo meccanismi di distribuzione delle quote concesse, sia sotto il profilo delle loro relazioni con le differenti caratteristiche dei luoghi (da disciplinare attraverso un consolidamento della pianificazione territoriale di area vasta) sia sotto il profilo dei tempi della loro attuazione (da programmare in funzione dell’obiettivo 2050), i soli strumenti che possono garantire un’ordinata e documentata applicazione dei dispositivi di limitazione del consumo di suolo. Ulteriori misure vanno poi proposte a rafforzamento delle procedure di verifica della sostenibilità degli interventi di trasformazione territoriale (VALSAT), in particolare riferimento all’esigenza, indispensabile per l’esercizio di questi strumenti di valutazione, di definire quantità e qualità delle previsioni
2. Sul tema della semplificazione e del contenuto dei piani comunali sembra necessario tornare a condizionare l’attività di negoziazione pubblico/privato alla definizione, pubblica e preventiva, del progetto di città che si vuole perseguire, da ottenere mediante definizione inequivoca delle quantità e delle destinazioni d’uso previste sia all’interno che all’esterno del TU. In questo quadro è necessario ripristinare le regole del dovuto rispetto dei centri storici e dei beni da tutelare nell’ambito del costruito e nel contempo eliminare ogni possibile contraddizione con i principi della legge nazionale, sia per quanto riguarda le necessarie dotazioni di spazi pubblici sia per quanto riguarda i parametri minimi di definizione dell’”ingombro” delle previsioni
3. Sul tema della legalità e delle procedure di approvazione e di controllo è necessario affiancare alle misure di adeguamento dei dispositivi di legge ai recenti indirizzi dell’ANAC un robusto rafforzamento del ruolo dei processi partecipativi alle decisioni di pianificazione e di attuazione, anche in attuazione della L.R 9 febbraio 2010, n.3, a partire dalle procedure di accordo previste per la maggioranza delle pratiche di attuazione dei piani, che vanno sottratte alla vaghezza delle prescrizioni dei PUG ed alla contemporanea responsabilità affidata prevalentemente agli organi tecnici comunali. Ulteriori misure vanno peraltro proposte per le procedure di controllo sugli effetti delle decisioni assunte nell’ambito degli accordi, introducendo clausole di dissolvenza in caso di mancato rispetto degli impegni o in caso di effetti negativi sotto il profilo ambientale o sociale valutati dopo l’esecuzione delle opere
4. Sul tema dello sviluppo economico e della rigenerazione urbana va decisamente contrastata la convinzione degli estensori del progetto di legge che la prospettiva di ripresa del settore edilizio sia esclusivamente fondata sugli interventi di“sostituzione e densificazione”, convinzione che esclude dagli incentivi il territorio urbano “consolidato” che è viceversa la parte più bisognosa di alleggerimento sul terreno delle pratiche burocratiche nonché bisognosa di strategie di riqualificazione dotate di qualità sia nella progettazione che nella esecuzione delle opere. Per quanto riguarda la parte “non consolidata” va viceversa riaffermata la necessità che essa sia prevalentemente dedicata al recupero delle dotazioni ambientali e di pubblico servizio della cui carenza soffre la maggioranza dei territori urbanizzati.
ll forum con D'Alema, Fratoianni, Falcone, Acerbo, Asor Rosa e Villone. Identità, programma, unità. Per parlare a chi resta a casa e a chi ha cambiato partito. In questa delicata fase che precede le prossime tempeste elettorali, cerchiamo di capire se le iniziative al Brancaccio e a piazza Santi Apostoli abbiano isolato i protagonisti o al contrario abbiano mescolato le carte
Il manifesto lavora, non da oggi, per la costruzione di un processo unitario della sinistra, a volte anche spingendo il cuore oltre l’ostacolo. Lo abbiamo fatto avventurandoci in un dibattito, largo e partecipato, dal titolo «C’è vita a sinistra», per contrastare la penosa coazione del «pochi ma buoni», quella sindrome tafazziana che spinge la sinistra a riprodursi per scissioni infliggendosi una sconfitta dopo l’altra.
A volte ci sembra di combattere una battaglia donchisciottesca perché di fronte alle nostre divisioni, da un lato c’è una destra aggressiva e dall’altro un partito renziano neocentrista: liberale sui diritti civili, liberista sui diritti sociali.
In questa delicata fase che precede le prossime tempeste elettorali, cerchiamo di capire se le recenti iniziative – l’assemblea del Brancaccio e la manifestazione di piazza Santi Apostoli – abbiano avuto l’effetto di recintare e isolare i protagonisti in campo, o al contrario siano stati positivi tentativi di mescolare il panorama e allargare l’orizzonte. (Norma Rangeri)
Sinistra. E la legge elettorale aiuta a scansare il rischio di essere minoritari o integrati. Parlare di centrosinistra crea solo disorientamento. Non c’è più alcun «campo» che possa definirsi così perché Renzi ha privato il Pd di qualsiasi sistema di alleanze. D'altra parte si deve dichiarare da subito la totale disponibilità a mettersi in gioco, dopo le elezioni, per contrattare il possibile programma di governo. Per rispondere a chi teme una deriva minoritaria
Dopo il Brancaccio e Santi Apostoli, sono aumentate o stanno diminuendo le possibilità che, alle prossime elezioni, si possa presentare una lista unitaria di sinistra sorretta da un progetto credibile?
Non bisogna nascondersi la realtà: molti non ci credono, e non pochi lavorano perché queste possibilità svaniscano. L’idea che si fa strada – un po’ per rassegnazione, un po’ per convinzione – è che sia inevitabile una divisione: tra una sinistra-sinistra, da una parte, e una sorta di neo-ulivismo, dall’altra.
Pesa anche l’incertezza circa le regole elettorali con cui andremo al voto: e forse qualcuno accarezza l’idea che una soglia al 3% possa facilitare questa sorta di divisione del lavoro. Ma è una illusione che tutti rischiano di pagare caro. Vediamo i termini essenziali della questione.
È CONVINZIONE comune che una prospettiva unitaria si possa fondare solo una piattaforma programmatica condivisa. Bene. I richiami ascoltati al Brancaccio sulla Costituzione come asse politico-culturale e programmatico della sinistra, i discorsi di piazza Santi Apostoli (soprattutto quello di Bersani) sulla radicale discontinuità con le politiche seguite dal Pd renziano, sono una buona base di partenza: lotte alla diseguaglianze, diritti e dignità del lavoro, politiche economiche neo-keynesiane, difesa dell’universalismo dei diritti alla salute e all’istruzione, valorizzazione dei beni comuni.
Ciò che crea divisioni sono i discorsi sulle prospettive politiche e di schieramento. Ma su questo punto, oltre a differenze reali, ci sono anche molte ambiguità che è possibile eliminare. Qualcuno – nell’area Pisapia e Mdp tende ancora a parlare di «centrosinistra»: ma cosa intende? Una qualche coalizione preventiva? A parte il fatto che la legge elettorale probabilmente non imporrà nulla in questo senso, è evidente come questa prospettiva sia sempre meno credibile e sostenibile.
Troppo stridente il contrasto con i giudizi sulle politiche del Pd renziano e con la discontinuità che pure viene evocata. Si ha l’impressione che questo richiamo (peraltro, in sé, sempre meno attrattivo e mobilitante) sottenda la preoccupazione di non appiattire la nuova offerta politica entro i confini ristretti delle forze che tradizionalmente si sono collocate a sinistra del Pd. Preoccupazione sacrosanta, che però non viene fugata dalla genericità di un richiamo ad un «centrosinistra» che, oggi, non esiste; non esiste alcun «campo» pre-definito che si possa definire tale.
E non esiste perché radicale è stata la rottura maturata in questi anni tra le scelte di governo, e prima ancora la cultura politica, del Pd renziano, e tutto ciò che può essere ricondotto ad una qualche idea di sinistra. Radicale è stato anche il distacco dai mondi sociali che della sinistra dovrebbero costituire il naturale punto di riferimento.
ESISTE UN ELETTORATO di sinistra disperso e silenzioso, che avrebbe bisogno di trovare nuovi punti di riferimento e nuovi motivazioni, anche solo per tornare a votare. Ed esiste un partito di centro, il Pd, che il suo leader megalomane ha privato di un qualsiasi sistema di alleanza, e che tende a guardare a destra. In queste condizioni, parlare ancora di centrosinistra crea solo incertezza e disorientamento. E del resto (come ha fatto notare giustamente D’Alema all’assemblea romana di Mdp), che senso avrebbe avuto una scissione, se si pensa di ritrovare una base politica comune? Le prossime elezioni saranno un terreno di scontro molto aspro: solo dopo, a conti fatti, si potrà vedere se e come saranno possibili accordi e mediazioni.
A questo punto, qualcuno obietta: si rischia una sinistra di testimonianza, minoritaria, destinata all’irrilevanza. È un rischio, certo, ma può essere scongiurato. Una lista unitaria della sinistra si deve caratterizzare per un suo orizzonte ideale e per un suo programma di governo; ma anche per una precisa opzione politica: dichiarare apertamente la piena disponibilità a mettere in gioco la forza che gli elettori le vorranno dare per contrattare un possibile programma di governo (qualora, ovviamente, ce ne siano le condizioni numeriche). Questa disponibilità non deriva solo dalla probabilità che un nuovo governo possa formarsi solo sulla base di accordi in parlamento: è una strategia politica che si rivolge agli elettori del Pd e del M5S per incalzare queste forze politiche e metterne a nudo le ambiguità. Ed è un atteggiamento politico in grado di esprimere una proiezione egemonica, evitando il pericolo di un auto-confinamento in una posizione minoritaria e ininfluente.
MOLTI SI RICHIAMANO all’esempio positivo di Padova. Ma, appunto, è un caso che dimostra come la famosa «doppia cifra» si può raggiungere a due condizioni, una proposta autonoma e originale e un messaggio forte agli elettori: ci siamo, vogliamo governare, e non abbiamo timore di mediare e contrattare con altre forze (come dimostra l’alta partecipazione al voto e l’esito del ballottaggio, l’elettorato che si è riconosciuto nella coalizione civica padovana non ha per nulla esitato nell’esprimersi a favore di una coalizione, costruita dopo il primo turno).
Il sistema politico italiano sta cambiando rapidamente. È saltato lo schema che voleva ingabbiare tutto in un astratto e artificioso bipolarismo. Le culture politiche degli italiani si esprimono già attraverso una più articolata distribuzione lungo l’asse destra-sinistra: una destra xenofoba e nazionalista, una destra conservatrice, un’area centrista moderata (forse), un partito di centro (il Pd), una (potenziale) area di sinistra. E poi, naturalmente, il M5S: una forza politica che finora ha goduto di una comoda rendita di posizione, catalizzando le più svariate ragioni di risentimento sociale, ma che – in un diverso scenario competitivo – non è detto riesca a mantenere queste caratteristiche.
In tale contesto, attardarsi a parlare di coalizioni preventive non ha senso. Ancor meno senso ha, come ha fatto Prodi, invocare sistemi elettorali che le prevedano, per evitare la «frammentazione», come se non fossero stati proprio i sistemi maggioritari a esaltare il potere di veto dei piccoli gruppi (e Prodi dovrebbe saperlo!). No, è tempo di tornare ad offrire agli elettori proposte politiche chiare, con una loro identità e autonomia. Una lista unitaria non è un escamotage per aggirare le soglie: è una precondizione, necessaria anche se non sufficiente, perché l’elettorato di sinistra possa tornare a sperare di avere una voce.