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Economia. Ai tempi del piano Marshall vinse chi puntava sullo sviluppo naturale dei mercati, ciò non toglie che oggi il tema della programmazione va riproposto con forza

Disegno di Pedro Scassa

 

Non sarà una Nadef qualunque, o quantomeno non dovrebbe esserlo. Non solo perché presenta un orizzonte ben più esteso di quello solito, spingendosi fino al 2026, ma perché ha a che fare, per usare le parole del ministro Gualtieri (nella sostanza ribadite nell’audizione parlamentare), con “la peggiore caduta del Pil della storia repubblicana”, e perché si misura con l’utilizzo delle risorse messe a disposizione dalla Ue. Non è la prima volta che una Nota assume più importanza dei documenti cui si riferisce.

Basta ricordare la centralità che assunse nel dibattito politico-economico di allora la celebre Nota aggiuntiva del maggio del 1962 di Ugo La Malfa. Solo che qui la qualità è assai differente. Non c’è quindi da stupirsi se malgrado le critiche che il Presidente della Confindustria ha rivolto al governo, il suo incontro con Gualtieri alla recente presentazione del Rapporto del Centro studi Confindustria non sia finito in baruffa. Anzi il ministro ha sottolineato la sintonia del Rapporto con il quadro tracciato nella Nadef e gli indirizzi da dare al Recovery Plan. In realtà il testo confindustriale contiene previsioni più pessimistiche di quelle esposte lungo le 134 pagine della Nota di Aggiornamento.

PER CONFINDUSTRIA il calo del Pil nel 2020 sarà pari a -10% (per la Nadef -9%, mentre Bankitalia sta nel mezzo: -9,5%). Il Fondo monetario internazionale, nel suo recentissimo rapporto, ha stimato per l’Italia una contrazione del 10,6%, meglio del precedente -12,8%. Il governo assicura un rimbalzo del 6% nel 2021, per Confindustria solo un +4,8%.

Il che comporta 410mila occupati in meno quest’anno che nel 2021 non verranno recuperati (-230mila occupati), mentre Gualtieri, nella Nota, legge quei dati in modo capovolto: “a fronte di un crollo del Pil stimato al 9% nel 2020 l’occupazione è prevista ridursi di meno del 2%”. Peccato che fosse già bassa prima, ma al Governo interessa magnificare le misure introdotte che avrebbero “limitato l’aumento della povertà e delle diseguaglianze” cosa di cui è difficile convincersi.

MA SIA IL GOVERNO che Confindustria concordano sulla necessità di cambiare “paradigma”. Termine quanto mai abusato. Thomas Kuhn lo definiva una “costellazione di credenze, di valori, di tecniche e di impegni collettivi condivisi… fondata in particolare su un insieme di modelli di assiomi e di esempi comuni”. Non a caso parlava di rivoluzioni, anche se scientifiche.

Al contrario Confindustria vuole tornare a peggio di prima, svilendo i contratti nazionali di lavoro, sostenendo che gli aumenti salariali non possono superare un’inflazione quasi assente (per la Nadef nel 2020 si attesterà allo 0,8% e scenderà allo 0,5% nel 2021) e puntando sulla precarietà del lavoro. Il governo intende muoversi, per l’utilizzo dei fondi dell’Unione europea, lungo sei direttrici: digitalizzazione, transizione ecologica, mobilità sul territorio, istruzione, equità sociale, salute.

COME SI VEDE siamo nell’ovvio per un verso e per un altro si rilanciano progetti di vecchia data, appena adattati alle nuove linee guida. Mentre la riforma fiscale è rimandata a una legge delega e sarebbe auspicabile si ascoltasse lo stesso Fondo Monetario Internazionale che raccomanda di alzare in maniera progressiva le tasse “sugli individui più ricchi”. Il cambio di paradigma può venire solo da un radicale mutamento dei fondamenti economici, quelli delle teorie del “Nuovo Consenso”, per cui è il mercato l’elemento equilibratore non la politica economica. Si fa spesso il paragone con il dopoguerra.

Ebbene in quegli anni si accese un dibattito sul concetto di programmazione proprio per utilizzare i fondi del piano Marshall. Vinse la posizione che puntava sullo sviluppo naturale dei mercati, come ricordò Pasquale Saraceno. Ma ciò non toglie che il tema della programmazione va riproposto con forza. Certo non costruita a tavolino ma mettendo in moto centri intellettuali e parti sociali, il sindacato in primo luogo, senza scambiare ciò con il soffocamento del conflitto che invece è proprio una molla di una innovazione che risponda ai nuovi bisogni. Non se ne esce senza un intervento pubblico diretto in economia, su cui si esprime favorevolmente anche il Fmi.

DAL CANTO SUO Fabrizio Palermo, l’Ad della Cassa Depositi e Prestiti sostiene che basta un “capitalismo paziente”: una contraddizione in termini. Il Sud, non solo le coste ma le zone interne, è un problema europeo e quindi il primo destinatario dei fondi dell’Unione europea, come insiste Adriano Giannola presidente della Svimez.

Il tutto in un quadro europeo. Quindi il patto di stabilità e tutti i suoi derivati sono da cancellare, non solo da sospendere (come si limita a suggerire il Fondo Monetario Internazionale). L’obiettivo deve essere la piena occupazione, tutt’altro che incompatibile con un reddito di cittadinanza, e non il tasso di inflazione, come oramai ci insegna anche la Federal Reserve.

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Fridays For Future. A Milano in piazza anche il primo funzionario sindacale che viene dal movimento: per combattere la crisi climatica serve giustizia sociale

Andrea Torti e Roberta Turi della Fiom a Fridays for future a Milano

 

«Per combattere la crisi climatica serve farlo con giustizia sociale. Per farlo con giustizia sociale bisogna unire la maggior parte della popolazione possibile, a partire dai lavoratori».

Ieri mattina in piazza a Milano «da via Cairoli a piazza Duomo tenendo un lunghissimo nastro verde che ci ha aiutato a rispettare strettamente il distanziamento e dimostrando che anche nel bel mezzo della pandemia si può manifestare in sicurezza» c’era come sempre Andrea Torti, 27enne attivista del movimento per il clima.

Per la prima volta Andrea c’era anche in una seconda veste: da luglio è un funzionario della Fiom di Milano dove segue in prima persona già parecchie aziende e fabbriche metalmeccaniche.

Il primo esperimento di osmosi tra il movimento dei giovani e il sindacato, «il primo con Fridays for future perché in Fiom da Genova in poi in tanti sono arrivati dai movimenti», sottolinea la segretaria milanese Roberta Turi, «ed è figlio di un contatto con il movimento studentesco – io stessa provengo dal movimento pacifista – il tema dell’ambiente e della compatibilità ambientale, un tema che affrontiamo con tanta ricerca da anni, anche se non è semplice, servono competenze, come quelle di Andrea».
«Io rimango un attivista per il clima e vengo già da una esperienza sindacale come rappresentante degli studenti al Link – si schermisce Andrea – . Per me le due lotte vanno di pari passo: il fuoco che brucia i diritti dei lavoratori è lo stesso che brucia il pianeta e proviene dalla sete di potere di pochi».

Dall’Ilva alle raffinerie, dai centri di stoccaggio di CO2 al metanodotto in Sardegna, ambiente e sindacato però rischiano di entrare in conflitto.

«Ed è una sconfitta per tutti che va evitata con il dialogo, il confronto e la conoscenza – risponde Andrea -. I costi della necessaria transizione climatica verso produzioni sostenibili non può ricadere sui lavoratori, questo il movimento lo ha ben chiaro e lo chiede dal principio. Il terreno comune tra movimento e sindacato c’è ed è una prateria da percorrere assieme».

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Ambiente. Oggi tornano in piazza in Italia gli studenti di Fridays for future. Da ieri decine di attivisti di Extinction Rebellion bloccano l'ingresso della sede romana di Eni

La protesta di XR a Roma davanti alla sede dell'Eni

 

Torna oggi nelle piazze lo sciopero per il clima dei Fridays for Future (Fff). In Italia la mobilitazione arriva con due settimane di ritardo rispetto alla data globale del 25 settembre scorso. Gli attivisti hanno scelto di posticipare l’appuntamento per evitare che fosse troppo a ridosso della riapertura delle scuole dopo la lunga sospensione della didattica causata dal Covid-19.

La ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina ha invitato a discutere di cambiamento climatico durante le lezioni ma ha fatto sorridere i Fff chiedendo di spostare la protesta al pomeriggio. «Come se uno sciopero scolastico si facesse di domenica o in orario non scolastico – scrive Fff Italia sulla sua pagina Facebook – In questo momento il governo dovrebbe impegnarsi a tutelare tutti e tutte, ma ecco di cosa si preoccupa: il problema è saltare le lezioni».

Sono oltre 120 gli appuntamenti di protesta organizzati nelle città e nei piccoli centri lungo tutta la penisola e sulle isole.

La partecipazione sarà verosimilmente più bassa rispetto ai cinque scioperi precedenti e la giornata costituirà un banco di prova per il movimento ecologista.

Il Covid-19 e le misure di distanziamento sociale a esso collegate hanno colpito duramente la capacità di organizzazione dei movimenti sociali che stanno provando a immaginare forme nuove di aggregazione e mobilitazione.

Roma l’appuntamento è alle 8.30 a Garbatella per una critical mass diretta a piazza del Popolo.

Torino concentramento alle 9.30 a piazza Castello.

Milano stesso orario in Largo Cairoli.

Napoli ci sarà un presidio tematico in piazza municipio a partire dalle 16.

Palermo dalle 17 in piazza Pretoria.

Sui canali social i Fridays invitano chi parteciperà alle manifestazioni a indossare la mascherina e osservare le necessarie norme anti-contagio.

«Le misure per la ripartenza sono l’occasione irripetibile per avviare la riconversione ecologica, risolvendo i problemi sociali del nostro paese», scrivono nel comunicato di lancio.

Gli attivisti climatici sanno che la partita sulla gestione dei soldi del Recovery Fund è decisiva per provare a invertire la rotta.

Insieme a organizzazioni e reti attive sui temi ambientali da più tempo – Greenpeace, Wwf, Legambiente, Terra! e Stop Ttip Italia – hanno elaborato il programma «Ritorno al futuro» che si compone di sette punti:

  1. rilanciare l’economia investendo nella riconversione ecologica;
  2. riaffermare il ruolo pubblico nell’economia;
  3. realizzare la giustizia climatica e sociale;
  4. ripensare il sistema agroalimentare;
  5. tutelare salute, territorio e comunità;
  6. promuovere democrazia, istruzione e ricerca;
  7. costruire l’Europa della riconversione e dei popoli.

Da ieri invece diverse decine di attivisti di Extinction Rebellion (Xr) stanno protestando davanti alla sede romana dell’Eni, vicino al laghetto del quartiere Eur. Mentre un gruppo tentava di tuffarsi in acqua e simulare uno sversamento di petrolio, un altro si posizionava davanti all’ingresso principale degli uffici. Qui un ragazzo si è arrampicato su una struttura di ferro costruita al momento e in due si sono incatenati.

La protesta di Xr denuncia le strategie di greenwashing di Eni, definita «una delle aziende più inquinanti al mondo», ma chiama soprattutto in causa il governo italiano e in particolare il ministro dello sviluppo economico Stefano Patuanelli.

«I nostri interlocutori non sono le aziende, che perseguono inevitabilmente un interesse privato a breve termine, ma coloro che si propongono di guidare la nostra società verso decisioni lungimiranti atte a garantire il benessere della cittadinanza», scrive Xr in una lettera indirizzata al ministro per chiedere un incontro.

Da Patuanelli non è arrivato nessun segnale e così gli attivisti hanno deciso di mantenere il blocco anche durante la notte. «Da qui non ce ne andiamo, rimarremmo a oltranza finché non otterremo l’incontro», dicono in serata.

Tra le azioni più urgenti che Extinction Rebellion chiede di intraprendere per impedire la catastrofe climatica c’è il ritiro immediato delle sovvenzioni pubbliche alle compagnie che estraggono combustibili fossili.

Se queste dovessero accedere ai fondi per la transizione ecologica previsti dal Next Generation Eu gli effetti negativi sul clima si moltiplicherebbero, indebitando le generazioni future proprio mentre si mette in pericolo il loro diritto a esistere.

La mobilitazione si svolge secondo le pratiche abituali di Xr improntate alla strategia della disobbedienza civile non violenta.

Tante bandiere e striscioni, performance artistiche, interventi al megafono, canti e danze animano la piazza. La protesta non era stata autorizzata e ha beffato le forze dell’ordine, inizialmente schierate dall’altro lato dell’edificio.

Nonostante il sit-in fosse pacifico, gli agenti della digos hanno identificato i manifestanti. Ieri pomeriggio due sono stati portati in questura e denunciati: un ragazzo che si era incatenato è stato accusato di possesso di arma illecita (la catena) e un altro per manifestazione non autorizzata. Da agosto nella capitale si è insediato un nuovo prefetto: Matteo Piantedosi, ex capo di gabinetto di Matteo Salvini. Pochi giorni fa ha dichiarato: «La proprietà privata è sacra», promettendo nuovi sgomberi.

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Rinnovo dei Contratti. Fim, Fiom e Uilm decidono per 6 ore. Oggi la protesta dell’industria alimentare mentre Assica disattende il niet di Bonomi e aderisce all'accordo contestato

 

 Uno sciopero spontaneo in una fabbrica metalmeccanica

Mancava solo la data. Per lo sciopero dei metalmeccanici Fim, Fiom e Uilm hanno scelto giovedì 5 novembre: un anno esatto dall’inizio della trattativa per il rinnovo del contratto nazionale. Un contratto che si è arenato sull’aumento salariale che, seguendo la linea Bonomi, Federmeccanica non vuole portare oltre al recupero dell’inflazione: 40 euro contro i 145 chiesti dai sindacati confederali.

La modalità è inedita ed è frutto di un compromesso: quattro ore a cui in quasi tutta Italia si uniranno due ore di assemblea-sciopero per spiegare ai lavoratori le ragioni della rottura con Federmeccanica e Assistal.
Come e più di mercoledì, ieri si sono tenuti molti scioperi spontanei in circa un centinaio di fabbriche grandi e piccole del Piemonte, del Veneto, dell’Emilia-Romagna.

La decisione sullo sciopero è arrivata di prima mattina dalle segreterie unitarie. «L’adeguamento del salario per i lavoratori serve anche per la ripresa del paese e noi facciamo questo sciopero per riaprire la trattativa perché vogliamo rinnovare il contratto – ha spiegato la segretaria generale della Fiom Francesca Re David – . La posizione di Federmeccanica sul blocco dei salari è molto precedente al Covid. Per noi è inaccettabile: i metalmeccanici hanno scioperato per mettere in sicurezza il paese e le aziende, hanno vissuto e stanno vivendo mesi di cassa integrazione e ora vivono il rischio dei licenziamenti. Hanno dunque il diritto di vedersi rinnovato il loro contratto».

«Siamo convinti che la linea di Confindustria sia una linea suicida», ha ribadito il segretario generale della Uilm, Rocco Palombella. «Una linea che sta già mettendo in discussione la stessa tenuta di Confindustria». «Tutte le categorie sindacali – ha sottolineato Palombella – sono unite in questa partita, il nostro è un obiettivo comune, come dimostra la linea rigida delle altre confederazioni nei confronti di Bonomi e di Confindustria».

Parole a cui hanno fatto eco quelle del segretario generale della Fim Cisl Roberto Benaglia, che blocca sul nascere qualsiasi polemica contro un sindacato fuori dalla realtà: «Guai a pensare che c’è un sindacato che viaggia nei suoi riti. Siamo perfettamente consapevoli di cosa significhi fare impresa nell’incertezza e per i lavoratori avere posti sicuri. La nostra piattaforma unitaria tiene conto del fatto che molte aziende non hanno rispettato il contratto precedente, che prevedeva l’allargamento della contrattazione di secondo livello e 24 ore di formazione. Questi impegni non sono stati attuati».

Chiudendo il seguente Comitato centrale della Fiom Francesca Re David ha chiarito: «Non esiste un piano B: ora al lavoro e alla lotta».

Fim, Fiom e Uilm hanno chiesto alla politica di schierarsi. In mattinata, la ministra del Lavoro Nunzia Catalfo ha esortato le parti a non fermare le contrattazioni sul rinnovo dei contratti, sottolineando come negli ultimi decenni in Italia si è avuta una «stagnazione salariale» e ribadendo l’intenzione da parte del governo di detassare gli aumenti salariali, storica richiesta di Fiom e Cgil.

OGGI SI TIENE INVECE lo sciopero di 4 ore dei lavoratori dell’industria alimentare con presidi sotto aziende, sedi locali di Confindustria e a Roma sotto Federalimentare. I sindacati Flai Cgil, Fai Cisl e Uila Uil mettono in atto la protesta annunciata per rivendicare il contratto firmato il 31 luglio con Unionfood, Assobirra e Ancit come «l’unico contratto nazionale». Lo hanno ribadito ieri i segretari generali Giovanni Mininni (Flai Cgil), Onofrio Rota (Fai Cisl) e Stefano Mantegazza (Uila) annunciando già un nuovo sciopero il 9 novembre qualora «non ci fossero le adesione necessarie al contratto con manifestazioni in 20 piazze».
Ma proprio ieri Assica-Confindustria, l’associazione industriali della carni e dei salumi, ha dato la sua adesione all’accordo del 31 luglio per il rinnovo del contratto. Un duro colpo per Carlo Bonomi che aveva invece cercato inutilmente di convincere Union Food e le grandi aziende a ritirare la firma dal contratto che prevede 115 euro di aumetno. Assica infligge una batosta a Bonomi e certifica come Confindustria sia tutt’altro che compatta sulla linea del no agli aumenti oltre l’inflazione.

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Referendum. Dopo il voto, il nodo resta come restituire vitalità alla democrazia rappresentativa. Quale che sia il numero dei suoi membri: il Parlamento è ormai zerbino del Governo

 Il prossimo referendum costituzionale, quale ne sarà l’esito, ha già prodotto un danno: la divisione di quel pensiero critico che aveva in passato condotto battaglie comuni in nome della democrazia costituzionale. Basta leggere gli interventi che si susseguono sulla stampa e le prese di posizione individuali, oltre a quelle collettive, per rendersi conto della divisione e del rimescolamento di carte.

Divisione tanto più incomprensibile visto che tutti coloro che si battono da anni contro la perdita di centralità del Parlamento e la crisi della rappresentanza politica sanno meglio di ogni altro che non si tratta di una questione di numeri. Abbiamo spiegato per anni, tutti assieme, che il principale problema democratico era quello della progressiva marginalizzazione del Parlamento. E della perdita di rappresentatività dei suoi membri.

Ci siamo opposti con tutte le nostre forze ai molteplici tentativi finalizzati a rendere il nostro sistema parlamentare ancor più confuso. È per questo che abbiamo contrastato le «riduzioni» scellerate promosse dalle due riforme del centrodestra nel 2005 e del centrosinistra nel 2016. Una grande battaglia di democrazia che dovremmo tornare a proporre.

Ora, invece, si discute solo di numeri: chi con un improvvisato ottimismo (la riduzione come leva per riforme auspicate da anni e mai realizzate), chi con una sproporzionata drammatizzazione (la riduzione come causa della crisi della rappresentanza che non nasce da oggi).

Purtroppo, la crisi del parlamentarismo e della rappresentanza sono ben più serie di quanto non si voglia dire, indotti in errore dal pathos polemico di questa brutta campagna referendaria che sembra voler tutto ridurre ad una scelta tra coloro che sono a favore di questo Parlamento, quotidianamente umiliato, e coloro che vogliono ridurlo ancor peggio. Una «trappola» cui dovremmo sottrarci rilanciando le nostre più meditate convinzioni.

È per questo che dopo il referendum, qualunque sia l’esito, dobbiamo ripartire. Sarà necessario rimboccarci le maniche, per riparare i guasti e indicare i rimedi, per rilanciare con consapevolezza e con una lucidità oggi smarrita la battaglia per una democrazia costituzionale pluralista e conflittuale, che ponga al centro del sistema l’organo della rappresentanza politica e i soggetti del pluralismo.

Cambiare registro non sarà facile perché le illusioni e le delusioni saranno profonde, così come le incomprensioni e le fratture saranno accentuate. Non sarà facile cambiare verso e contrastare la cultura del regresso che si pone alle origini, non tanto di questa riforma, quanto della lunga stagione dell’improvvido revisionismo costituzionale non ancora conclusa. Ma proprio per questo è ancor più urgente riaprire un dibattito pubblico. Avviare una nuova riflessione sul ruolo e le funzioni del Parlamento, denunciando ancora le ininterrotte tendenze ad accentrare i poteri, contrastando la riduzione della democrazia a governabilità.

Dopo il referendum, sarà ancor più urgente interrogarsi su come restituire vitalità alla democrazia rappresentativa. Quale che sia il numero dei suoi membri rimarranno inevase le grandi e reali questioni che hanno ridotto il Parlamento a zerbino del Governo. Tutti concordano sulla necessità di modificare i Regolamenti parlamentari, che si imporrà qualora dovesse essere confermata la scelta della riduzione dei componenti le due Camere.

Nessuno però riflette sul senso e il verso di questa riforma necessaria, che viene proposta come un semplice passaggio tecnico di natura puramente organizzativa per permettere al Parlamento di funzionare «comunque» Una tale riforma non sarebbe in grado di cambiare in meglio, semmai preserverebbe il peggio. La reale questione da porre sin d’ora è quella di una modifica dei Regolamenti in grado di assicurare un vero dibattito tra le forze politiche presenti in Parlamento e garantire un’effettiva autonomia dell’attività parlamentare dal Governo.

Ma questo vuol dire rimettere in discussione vent’anni di «democrazia governante» che ha imposto dentro al Parlamento regole che sono corresponsabili del degrado: misure a tutti note, ma che nessuno discute più. Si tratta di ripensare il contingentamento dei tempi, il ruolo delle commissioni parlamentari, l’ammissibilità degli emendamenti dei singoli parlamentari eccessivamente irreggimentata e ridotta ai minimi termini a fronte della possibilità data ad libitum al governo di presentazione di maxiemendamenti sostitutivi, su cui chiedere la fiducia. Sono solo degli esempi – forse i più evidenti – che dimostrano dove si celino i veri problemi della crisi del Parlamento.

Anche la discussione attuale sulla rappresentanza politica e la legge elettorale appare falsata. È certo un bene che dopo anni di infatuazione maggioritaria si prenda atto del fallimento delle distorsioni create che hanno portato a far dichiarare incostituzionali le norme adottate nel mito – in verità ancor duro a morire – della governabilità. Ma non vorremmo che ora si utilizzasse come falso schermo il principio proporzionale. L’adozione di sistemi proporzionali con alte soglie in collegi assai ampli e con scarsa distribuzione dei seggi, non sarebbe altro che un sistema maggioritario mascherato.

Il principio proporzionale nella sua essenza di valore è quello che assicura il pluralismo politico, ovvero la rappresentanza a secondo del suffragio ottenuto di tutte le forze in campo, con particolare attenzione alla non esclusione delle voci e forze minoritarie. Non basta dunque una legge elettorale proporzionale «purchessia», si tratta di ricominciare a riflettere sul come assicurare una rappresentanza plurale. Il che ci dovrebbe portare ad affrontare due temi scomodi e irresponsabilmente pretermessi nella discussione pubblica.

Dovremmo ricordare, in primo luogo, che le garanzie di rappresentanza non riguardano tanto le attuali forze politiche, non servono per assicurare il permanere di piccole rendite di posizione per gli attuali attori che fissano le soglie di sbarramento a seconda dei sondaggi che li riguardano. Il pluralismo politico da assicurare è principalmente quello di chi oggi non trova rappresentanza alcuna, né nelle istituzioni né nelle formazioni politiche. Tutti quei cittadini – singoli, ma anche movimenti, associazioni, formazioni sociali, culture – che non riescono più a partecipare per concorrere a determinare la politica nazionale.

E questo si lega all’altro aspetto colpevolmente tralasciato nel dibattito politico attuale, ma che risulta essere il più importante per chi vuole affrontare i problemi reali della crisi della rappresentanza: il crollo della capacità rappresentativa dei partiti politici. Sono i partiti, infatti, i mezzi principali, se non esclusivi, che la nostra Costituzione ha individuato per assicurare partecipazione e rappresentanza. Dovremmo provare a rompere il complice silenzio sul ruolo dei partiti, richiamando l’attenzione di tutti, in primo luogo delle stesse forze politiche, alla necessità di ritrovare il compito che la Costituzione assegna loro. Sarebbe essenziale ricordare che, tanto i singoli esponenti politici quanto le forza organizzate, devono vivere per la politica costituzionale e non di politica autoreferenziale.

I temi indicati, le prospettive evocate sono un patrimonio comune di chi tante battaglie ha intrapreso in passato in nome di una democrazia costituzionale pluralista e conflittuale. Il referendum costituzionale su cui siamo chiamati a decidere il 20 e 21 settembre parla d’altro. Per una volta l’accusa di «benaltrismo», che tanto spesso ci è stata rivolta quando abbiamo rilevato la complessità dei problemi, ci sentiamo di rivolgerla a chi oggi pensa che la crisi della democrazia parlamentare sia riducibile ad una questione di numeri e non invece agli squilibri reali della nostra forma di Stato e governo. A fronte di questa dimensione dei problemi ci si parla di «ben altro», distogliendo lo sguardo da ciò che è in gioco.

Dopo il referendum, abbassata la polvere, dovremmo tornare a parlarci e a guardare lontano. È per tutto ciò che a nome delle tre organizzazioni culturali che rappresentiamo ci impegniamo sin d’ora a promuovere una vasta discussione sui temi della democrazia parlamentare e della rappresentanza politica. All’inizio del mese di ottobre organizzeremo una prima pubblica discussione, speriamo non sia che l’inizio di una ripresa che possa coinvolgere – in forme e modi diversi – tutti coloro che non pensano di potersi fermare difronte alla vittoria ovvero alla sconfitta di un giorno.

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Recovery fund. Secondo l’Ispra, il 70% delle emissioni di gas serra italiane sono generati da settori che hanno anche impatti relativi limitati sull’occupazione

 

Tra circa un mese il governo italiano dovrà sottoporre alla Commissione europea il nostro Recovery Plan, ovvero il piano dei progetti che l’Italia intende finanziare con i 208 miliardi stanziati a nostro favore dall’Unione Europea per i prossimi tre anni. Non dubitiamo che all’interno dei diversi Ministeri coinvolti decine di tecnici siano al lavoro per mettere insieme un piano credibile. Sebbene fiduciosi, il governo dovrebbe avere alcune consapevolezze. Tra queste l’efficacia degli stimoli fiscali.

Perché per alcuni settori dipende dalla rilevanza e dalla capacità di reazione del settore stesso, e dalla possibilità di trasmettere tale stimolo al resto del sistema. La struttura economica del Paese condiziona l’efficacia delle misure con una lentezza nella trasmissione degli stimoli settoriali all’interno del sistema produttivo, sia in termini di scambi economici e sia in termini di trasmissione di tecnologia, innovazione e competitività (Istat, audizione Commissione Bilancio, 2 settembre).

Sembra si sia persa la cognizione che i finanziamenti del Recovery Fund saranno strettamente condizionali alle priorità dell’agenda europea, la quale, da mesi, ha già dettato linee guida molto chiare, focalizzate soprattutto su riconversione verde e sull’infrastrutturazione digitale. A livello europeo, gli obiettivi sono infatti principalmente due: abbattere a zero, in soli due decenni, le emissioni climalteranti di CO2 e sostenere crescita ed occupazione con un gigantesco sforzo di ammodernamento tecnologico.

Conciliare queste macro-priorità non è semplice. Analizzando gli investimenti e gli impatti previsti dal Pniec, cioè dal Piano Nazionale per l’energia ed il clima di fine 2019 (che dovrebbe essere un punto di partenza imprescindibile anche per l’elaborazione del Recovery Plan italiano), è possibile mostrare che gestire i potenziali trade-off tra obiettivi ambientali e occupazionali è una sfida complessa: i settori economici che hanno maggiore rilevanza ai fini dell’abbattimento delle emissioni non coincidono necessariamente con quelli che presentano i moltiplicatori maggiori su crescita ed occupazione.

Secondo l’Ispra, il 70% delle emissioni di gas serra italiane (24,5 % trasporti, 24% settore elettrico, 17,6% termico residenziale e 4% gestione dei rifiuti) sono generati da settori che, secondo le simulazioni del Pniec, hanno anche impatti relativi limitati sull’occupazione. Coerentemente con la priorità europea di riduzione delle emissioni di CO2, il Pniec destina comunque oltre tre quarti degli investimenti pubblici annui previsti da qui al 2030 proprio a residenziale, trasporti e settore elettrico, che sono i settori di competenza dei governi nazionali e dove l’intervento pubblico appare più necessario e urgente.

Le politiche sul settore energetico e sui settori industriali energivori (chimica, farmaceutica, gomma, acciaio ecc.) come anche sull’aviazione civile, sono infatti di competenza prevalentemente europea (soggetti alla c.d. Direttiva Ets) e non vengono conteggiate nei piani nazionali. Negli ultimi trent’anni, i settori sottoposti alla regolamentazione europea sono quelli che hanno dato il contributo più rilevante alla riduzione delle emissioni. Tra il 1990 ed il 2018, l’industria ha quasi dimezzato i gas climalteranti, per merito quasi esclusivo dei settori soggetti a regolamentazione europea (energetico, chimica/farmaceutica, gomma/materie plastiche e metallurgia) mentre i principali settori di competenza nazionale (residenziale, trasporti e rifiuti) le hanno invece aumentate.

E’ giusto quindi che siano questi i settori posti al centro delle politiche di riconversione energetica. Il problema è che gli altri settori di attività economica (quelli che non rientrano né nella sfera di competenza europea, né tra le priorità nazionali), anche se contano meno in termini di emissioni, pesano invece moltissimo in termini di valore aggiunto e di occupazione.

Cumulativamente, questi settori (dall’agricoltura al turismo, dal tessile alla meccanica, dall’informatica alla finanza, dalle attività immobiliari al commercio ecc.) rappresentano infatti più dell’80% del valore aggiunto del paese, e ad essi andrebbe dedicata grandissima attenzione sull’altro versante del Recovery Plan (quello della modernizzazione produttiva); questi settori sono, piaccia o no, la spina dorsale del paese. Cambiare il motore della macchina senza fermarla (R. Lombardi) è la sfida di struttura che ci attende.

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