Al referendum del 12 e 13 giugno 2011, 26 milioni di cittadini italiani sancirono che sull’acqua non si sarebbe potuto più fare profitto. E con quel “Sì” tracciato sulla scheda -si trattava del secondo di quattro quesiti su servizio idrico, nucleare e legittimo impedimento- decisero di abrogare (parzialmente) una norma relativa alla tariffa dell’acqua che prevedeva l’“adeguata remunerazione del capitale investito”. Togliere quel passaggio comportava niente più margini, finanza speculativa o business, semmai un servizio efficiente a fronte di investimenti sulla rete tangibili, ad esempio per ridurre le perdite. In forza del fatto che “il diritto all’acqua potabile e sicura ed ai servizi igienici” -come sancito dalla risoluzione delle Nazioni Unite del 26 luglio 2010- è “un diritto umano essenziale al pieno godimento della vita e di tutti i diritti umani”.
A otto anni di distanza da quella marea blu è tempo di fare un bilancio. Perché la promessa “nessun profitto” non solo non sarebbe stata mantenuta, ma secondo chi ha studiato i conti economici dei gestori del servizio, i piani d’Ambito, le tariffe applicate negli ultimi anni in Italia e pagate dai cittadini per utilizzare l’acqua del rubinetto, sarebbe stata addirittura tradita. In un quadro dove l’attore pubblico -in veste di ente locale, azionista delle società o ente regolatore- continua a indossare gli abiti (e i comportamenti) del privato.
Ne è convinto Paolo Carsetti, anima del Forum italiano dei movimenti per l’acqua (acquabenecomune.org), che per dimostrare la contraddizione referendaria cita alcune “prove”: “Negli ultimi dieci anni le tariffe del servizio idrico sono aumentate di oltre il 90% a fronte di un incremento del costo della vita del 15%, dati della CGIA di Mestre alla mano”. E ancora: “Se analizziamo i bilanci delle quattro grandi multiutility quotate in Borsa che gestiscono anche l’acqua -A2a, Acea, Hera e Iren- rileviamo come tra il 2010 e il 2016 si è passati dal 58% dell’impatto degli investimenti sul margine operativo lordo al 40%. Evidentemente l’aumento degli investimenti assicurato non c’è stato. E di tutti gli utili prodotti da queste quattro società, oltre il 91% sono stati distribuiti come dividendi”.
A questa prima valutazione, si aggiunge la fotografia scattata dall’Istat sullo stato delle perdite idriche delle reti comunali di distribuzione dell’acqua potabile. “Il rapporto percentuale tra il volume totale disperso e il volume complessivamente immesso nella rete -ha ricordato l’Istituto a fine 2018- è l’indicatore più frequentemente utilizzato per la misura delle perdite di una rete di distribuzione”. Risultato: “Nel 2015 questo valore è pari al 41,4% (ovvero 3,4 miliardi di metri cubi, ndr), in aumento di quattro punti percentuali rispetto al 2012, anno in cui le perdite totali erano al 37,4%, confermando lo stato di inadeguatezza in cui versa l’infrastruttura idrica e gli scarsi investimenti in termini di manutenzione e sviluppo”.
Il quadro potrebbe essere ribaltato da una proposta di legge nata su iniziativa popolare ormai 12 anni fa e oggi finalmente in discussione in Parlamento. L’obiettivo principale del testo è la “ripubblicizzazione” del servizio, un fenomeno che negli ultimi 15 anni ha fatto segnare oltre 235 esperienze in 37 Paesi del mondo, in buona parte europei, come dimostrano i casi censiti da Emanuele Lobina, ricercatore presso il Public Service International Research Unit dell’Università di Greewich (Psiru, psiru.org). Un’autentica rivoluzione che interessa da vicino anche il nostro Paese.
Per comprendere il “bilancio idrico” italiano a otto anni dal referendum è necessario aver chiaro il quadro precedente al giugno 2011. A partire dal metodo tariffario. “Prima della consultazione -come ricorda il Dipartimento Ambiente del Servizio Studi della Camera dei Deputati- la norma stabiliva che la tariffa fosse calcolata prevedendo la remunerazione per il capitale investito dal gestore”. Si trattava del cosiddetto “metodo normalizzato”, disciplinato dal 1996, in base al quale sul capitale investito si applicava un “tasso di remunerazione” fissato al 7%. Era puro profitto. Con il voto referendario cambia tutto. La “nuova” tariffa -ovvero il corrispettivo del servizio idrico integrato- si sarebbe dovuta determinare tenendo conto della “qualità della risorsa idrica e del servizio fornito, delle opere e degli adeguamenti necessari” e “dell’entità dei costi”, in modo che venisse assicurata la copertura integrale dei costi di investimento e di esercizio secondo il principio del recupero dei costi e del “chi inquina paga”. Nessuna “remunerazione”, dunque, ma solo la “copertura integrale dei costi” (o principio del “Full cost recovery”).
Ad applicare e riscuotere la tariffa è il gestore del servizio, tenuto per legge (“Codice dell’ambiente” 152/2006) a farlo nel rispetto della convenzione che ne regola il rapporto con l’Ente di governo dell’Ambito territoriale ottimale (EGATO). Gli “Ambiti” (ATO) sono l’“organizzazione territoriale” del servizio idrico e vengono disegnati dalle Regioni, in alcuni casi intorno a specifici bacini idrografici. Spetta quindi agli enti locali -e in primo luogo ai Comuni- occuparsi delle risorse idriche, a partire dalla programmazione delle infrastrutture.
90% l’incremento delle tariffe del servizio idrico in 10 anni
Accanto agli ATO e ai gestori -a partire proprio dal 2011- si è aggiunto un altro soggetto (pubblico), responsabile sia della regolazione e controllo dei servizi idrici sia della predisposizione del metodo tariffario. Si tratta dell’Autorità di regolazione per energia reti e ambiente (ARERA, un tempo Autorità per l’energia elettrica, il gas e il sistema idrico). Chi la presiede è Stefano Besseghini, nominato con decreto del presidente della Repubblica nell’agosto 2018 così come il resto dell’attuale Collegio, e in carica per 7 anni (gli altri componenti sono Gianni Castelli, Andrea Guerrini, Clara Poletti e Stefano Saglia).
ATO, gestori e Autorità fanno parte di un’orchestra. I primi (attraverso gli enti di governo) predispongono il Piano economico finanziario (Pef) per tutta la durata residua della concessione dei secondi (i gestori), a partire proprio dallo schema tariffario di ARERA. Quello in vigore si chiama “MTI 2” e vale per il periodo 2016-2019. I bilanci dei gestori, quindi, dovrebbero “rispecchiare” le previsioni del piano economico finanziario e, in caso contrario, procedere con i conguagli. Ma non è sempre così.
Paola Ceretto e Remo Valsecchi, rispettivamente parte del Comitato Acqua pubblica di Torino, di Lecco e del Forum nazionale, revisore dei conti e commercialista, sono abituati ad avere a che fare con numeri, formule e conti economici. Ed è questa “passione” che li ha spinti a fare un lavoro di ricerca approfondito sui bilanci di alcuni dei principali gestori dell’acqua in Italia, confrontandoli anno per anno con le “previsioni” dei “Pef” messi a punto dagli Ambiti.
Dalle loro analisi sarebbero emerse “paradossali incongruenze”. Valsecchi sintetizza il risultato: “Nella quasi generalità dei casi abbiamo rilevato ricavi più bassi e costi più alti nei piani d’Ambito rispetto ai bilanci dei gestori, con conseguenti utili più elevati a favore di questi ultimi e tariffe inutilmente più ‘care’ per gli utenti”.
MTI-2: Il metodo tariffario predisposto da Arera attualmente in vigore è il “MTI-2”, giunto dopo il “transitorio” 2012-2013 e quello relativo al cosiddetto “primo periodo regolatorio” 2012-2015. Si articola in 74 (complicatissime) pagine.
Non solo. In quei “costi” che la “nuova” tariffa avrebbe dovuto coprire “integralmente” ce ne sarebbero alcuni addebitati “impropriamente”. Ceretto e Valsecchi li hanno messi fila e si sono posti un obiettivo: verificare se, eliminate quelle voci “irreali”, fosse possibile coprire tutti i costi di gestione e di investimento, misurandone poi gli effetti sulle tariffe. “Ci siamo resi conto che togliendo costi inesistenti ‘creati’ dal metodo tariffario di ARERA, è possibile ridurre la tariffa del 25-30% e coprire tutti i costi e tutti gli investimenti -spiega Valsecchi-. Perché quel margine del 25-30% non è altro che gli utili e i profitti che hanno una destinazione e finalità diverse dalla gestione del servizio”.
Ma il referendum non aveva “cancellato” la remunerazione del capitale? “Esatto -sottolinea Ceretto-. Il punto però è che ARERA ha sostituito la ‘remunerazione del capitale investito’ con gli ‘oneri finanziari del gestore’. Che sono finiti nella tariffa”.
“Onere finanziario”, quindi, e non più “remunerazione”. “In teoria dovrebbe trattarsi del costo del denaro che il gestore mette a disposizione per la società -chiarisce Remo Valsecchi-. Ma tale non è perché nel conto economico delle società non appare. Lo ritroviamo semmai nel risultato finale, che poi è l’utile d’esercizio. Quindi siamo di fronte a una ristabilita remunerazione tout court”. Stiamo parlando di cifre rilevantissime, come dimostrano i bilanci di tre grandi società che svolgono la sola attività di gestione del servizio idrico e per un solo ambito. Valsecchi ha esaminato i casi di Acea Ato 2 (controllata dalla holding Acea, quotata in Borsa, nel bacino di Roma), A2a ciclo idrico Spa (controllata da A2a e operante a Brescia) e Smat Spa (con il Comune di Torino socio di maggioranza per oltre il 65% pur rappresentando il 39% dei cittadini serviti). Prendiamo il caso di Acea Ato 2, operante in un bacino di 2,9 milioni di abitanti dove rientra anche il Comune di Roma. Analizzando i bilanci di “Ato 2”, un gigante da 590,5 milioni di euro di fatturato nel solo 2017 (2,1 miliardi tra 2014 e 2017), Valsecchi ha quantificato l’ammontare degli “oneri finanziari” previsti nelle tariffe nei quattro anni 2014-2017. Risultato: 602,2 milioni di euro. L’ha fatto anche per l’ambito di Brescia (A2a ciclo irico, 307,1 milioni di euro di ricavi tra 2014-2017): 105 milioni di euro. E pure per Smat (Torino, 1,4 miliardi di ricavi circa nel 2014-2017): 301,5 milioni di euro. Il tutto mentre le tre società considerate hanno distribuito ai propri azionisti dividendi nei quattro esercizi esaminati: Acea Ato 2 per 301 milioni di euro, A2a ciclo idrico per 35 milioni, Smat per 38 milioni. “Sono risorse con una destinazione diversa dalla gestione del servizio idrico ma che gli utenti pagano, come costo del servizio, attraverso una tariffa che dovrebbe solo coprire i costi della gestione e degli investimenti”, fa notare Valsecchi.
Ma c’è di più. “Dal metodo 2014-2015, la tariffa dell’acqua copre anche i cosiddetti ‘costi di morosità’”, spiega Ceretto. Di che si tratta? “Ipotizziamo di dare vita a un’impresa che vende software. C’è il rischio che qualche cliente fallisca o non ci paghi, giusto? Questo è il rischio di non incassare crediti, ovvero il rischio di morosità. ARERA però ha stabilito che il gestore del servizio idrico, in condizione di monopolio naturale, debba essere coperto comunque da eventuali ‘rischi’ di perdere quel tipo di credito e lo fa pagare in tariffa, applicando determinate percentuali al fatturato annuo del gestore che variano a seconda dell’area del Paese: più bassa al Nord e più alta al Sud”. Valsecchi la definisce come “l’evidente distorsione di un sistema finalizzato unicamente a garantire il gestore creando costi inesistenti”. Perché? “La morosità non è propriamente un ‘costo’ -spiega- ma un ritardo nel pagamento. L’unico costo, se vogliamo, potrebbe essere quello degli interessi passivi che il gestore deve sostenere per la necessità di finanziare la mancata riscossione. Ma il gestore non ha costi perché addebita gli interessi di mora all’utente in ritardo”. Valsecchi ha confrontato il “costo della morosità” previsto dal gestore e pagato in tariffa con la “perdita su crediti” reale emersa dai bilanci delle tre società. Lo scostamento è impressionante. Tra 2014 e 2017, la tariffa di Smat di Torino ha riportato tra i costi ben 29,9 milioni di euro alla voce “morosità”. Che sono andati al gestore (legittimamente, perché è il metodo a funzionare così) nonostante le perdite reali siano state molto più contenute: 10,2 milioni. Stesso discorso per A2a ciclo idrico: 6,3 milioni di costi in tariffa per morosità a fronte di 1,3 milioni di perdite “effettive”. O il caso di Acea Ato 2: 78,6 milioni di euro contro i 13,3 reali. Queste (enormi) differenze le hanno “pagate” i cittadini in tariffa.
Oltre agli “oneri finanziari” e alla “morosità” c’è poi il “conguaglio”. “La tariffa -continua Ceretto- comprende la ‘componente conguaglio’, che può essere positiva o negativa per l’utente, calcolata sui bilanci consuntivi del gestore dei due anni precedenti l’anno di riferimento della tariffa. Il punto però è che riguarda solo alcune componenti dei costi sostenuti dal gestore, quali ad esempio i costi per acquisto di energia elettrica, i costi per acquisto di acqua all’ingrosso, i costi ‘ambientali’, i tributi locali, i contributi alle comunità montane, alle autorità d’Ambito, ad Arera e così via. E comprende pure la variazione dei volumi d’acqua fatturata. Attenzione: quest’ultima non è un costo ma la differenza tra quanto preventivato dal piano economico finanziario predisposto dall’Ato e quanto fatturato a consuntivo dal gestore. Cioè quanto consumato. Questa differenza la ritrovo in tariffa. Vi sembra normale?”. A Torino -“dove negli ultimi sei anni la tariffa è cresciuta del 28,5% e gli utili di Smat del 160%”, dice Ceretto- il Comitato ha fatto i calcoli sugli anni 2014-2017 e ricavato un “costo improprio” eccedente al principio del “Full cost recovery” in tariffa pari a 108,8 milioni di euro. Solo per la componente “conguaglio”.
“Dal quando è entrata in Borsa (2008) al 2017, A2a ha perso un terzo del patrimonio netto (da 3,6 miliardi a 2,4). Perché li ha distribuiti in dividendi” – Remo Valsecchi
Valsecchi ha fatto un passo ulteriore. Incrociando tariffa e bilanci ha calcolato l’ammontare di tutte le voci di costi “eccedenti” rispetto al principio di “full cost recovery”. Ha sommato cioè la “morosità”, i “conguagli”, i margini operativi e le voci di “gestione finanziaria”. Nel caso di quest’ultima categoria “si va da una svalutazione delle partecipazioni per 23 milioni di euro di Smat agli oneri finanziari che Acea Ato 2 corrisponde alla sua capogruppo, Acea Spa (Comune di Roma socio di maggioranza al 51%), per 132 milioni di euro dopo che la stessa capogruppo ha prelevato, attraverso i dividendi, quasi tutti gli utili e ha utilizzato gli stessi per finanziare la Ato 2”. Risultato finale? “Solo per le tre società su Torino, Brescia e Roma stiamo parlando di 1,2 miliardi di euro di ‘costi eccedenti’ finiti in tariffa tra 2014 e 2017”. E pagati dai cittadini.
Con un “dettaglio” in più che ha a che fare con l’equità. Valsecchi ha preso infatti le tariffe 2017 applicate nei tre Ato di Brescia, Torino e Roma e ipotizzato il consumo medio per singola persona a partire dai dati Istat. “Per non essere discriminatorio -spiega- il costo del servizio, a parità di consumo per persona, dovrebbe essere lo stesso, indipendentemente dalla condizione personale o familiare”. Ma quel che esce dall’elaborazione è diverso rispetto alla teoria. “Prendendo a base un nucleo medio di 3 persone (corrispondente alla media nazionale di 2,41 persone per nucleo arrotondato all’unità superiore), si rileva che i nuclei con meno componenti di 3 hanno un costo pro-capite inferiore, mentre quelli superiori a 3, hanno un costo pro-capite superiore. Queste differenze determinano una differenza ‘discriminatoria’ a danno delle famiglie più numerose, generalmente le più bisognose”. Possibile che ARERA non abbia riscontrato questa disparità? “Nel settembre 2018 -continua Valsecchi- l’Autorità ha provveduto a ‘sistemare’, a suo dire, questa situazione stabilendo un periodo transitorio sino al 31 dicembre 2021, necessario per la raccolta dei dati relativi alla composizione dei nuclei familiari con una articolazione pro-capite basata su un ‘pro-capite standard’ di tre componenti. È una magia: il significato universale di pro-capite, da singola persona, è diventato di tre”.
“Di chi è la responsabilità di questa situazione?”, si chiede Valsecchi, che all’inizio del 2019 è stato audito -insieme al Forum dei movimenti per l’acqua- dalla commissione Ambiente della Camera al lavoro sulla proposta di legge “AC 52 (“Disposizioni in materia di gestione pubblica e partecipativa del ciclo integrale delle acque”, prima firmataria l’on. Daga). “È responsabilità degli Uffici d’Ambito, impreparati o condizionati dalla politica o dai gestori? O del metodo tariffario di Arera? O della rilevanza economica che si è voluto attribuire al servizio idrico, contraria alla sua stessa natura? Il metodo di ARERA potrebbe essere considerato tecnicamente corretto se applicato a un sistema industriale privato dove la ‘concorrenza e il mercato’ intervengono a modificare l’effetto finale, costringendo alla riduzione dei prezzi di vendita e senza possibilità di conguagli successivi. Ma così com’è congegnato, nella gestione del servizio idrico, cioè in regime di monopolio naturale, l’unico ad essere garantito è il gestore”, conclude Valsecchi. Qualche speranza, forse, c’è. Che i Comuni si occupino della questione (nel Consiglio comunale di Torino la consigliera Eleonora Artesio insiste con interpellanze in merito) e che la Camera dei Deputati concluda presto la discussione della “Legge Daga”, erede della proposta di iniziativa popolare (oltre 400.000 firme) presentata a più riprese dal 2007. Il 30 gennaio 2019 la commissione Ambiente l’ha adottata come testo base. Una scelta che il Forum ha salutato con favore: “Auspichiamo che questo voto costituisca un’assunzione di responsabilità, a partire dalla maggioranza di governo, rispetto all’urgenza di dotare il nostro Paese di un quadro legislativo unitario rispetto all’acqua come bene comune, introducendo modelli di gestione pubblica e partecipativa del servizio idrico, procedendo da subito alla ripubblicizzazione, oltre a sottrarre le relative competenze ad ARERA, che in questi anni ha dimostrato di tutelare gli interessi delle aziende e non degli utenti”. Perché come recita il motto della giornata mondiale dell’acqua fissata dalle Nazioni Unite il 22 marzo 2019, “Chiunque tu sia, ovunque tu sia, l’acqua è un tuo diritto umano”. Un diritto umano, non un dividendo.
in dettaglio
AUTORITÀ DI REGOLAZIONE, PER IL FORUM VA SOPPRESSA
Il Forum dei movimenti per l’acqua ha curato un dossier sull’Autorità di regolazione energia reti e ambiente (ARERA) a partire dai suoi bilanci. I “paradossi” non mancano. Al 31 dicembre 2017, infatti, ARERA aveva un “deposito bancario” di 80,7 milioni di euro, che per il Forum rappresenta uno “schiaffo morale nei confronti dei cittadini che vivono in stato indigenza”. Sarebbero stati addirittura 120 milioni se non fossero stati acquistati nel 2015 nuovi immobili da destinare a uffici. Non solo. Ciascun componente del collegio -nel 2017- ha percepito all’anno un compenso di 240mila euro (rimborsi spese esclusi) e ciascun lavoratore dell’Autorità (220 in pianta organica a fine 2017) “costerebbe” oltre 154mila euro. Anche per questa sua “struttura”, il Forum ne chiede la soppressione con trasferimento delle funzioni al ministero dell’Ambiente.
Quanto “costa” la ripubblicizzazione del servizio? Secondo Utilitalia (l’associazione dei gestori) almeno 15 miliardi di euro, derivanti dalla riacquisizione delle quote oggi detenute da soggetti privati e per ripagare lo stock di debito, contratto con banche e cittadini. Il Forum ha smentito questa tesi. “Il costo una tantum è solo quello relativo alla riacquisizione delle quote societarie detenute da soggetti privati. Il rimborso dell’attuale stock di debito e la rinegoziazione dei finanziamenti già contratti non hanno alcuna ragione di essere per una semplice modifica delle forme di gestione”. Stesso discorso per il presunto “indennizzo” ai gestori: “Si passerebbe per la riacquisizione ai prezzi di mercato delle quote di proprietà in mano ai privati”. Secondo il Forum l’esborso sarebbe intorno ai 2 miliardi. “Aggredibile”, anche tramite il ruolo attivo di Cassa depositi e prestiti.
GLI AZIONISTI DI A2A, ACEA E SMAT
A2a ciclo idrico Spa è controllata da A2a Spa, dove i principali azionisti sono i Comuni di Milano e Brescia. Acea ATO 2 fa riferimento ad ACEA (anch’essa quotata), della quale il Comune di Roma detiene il 51% del capitale. Smat Spa (Torino) è un caso particolare. Il Comune di Torino partecipa a dividendi e incrementi del patrimonio per oltre il 69% ma rappresenta solo il 39% dei cittadini utenti. il 53% circa della popolazione servita detiene il 9,39%.