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Antirazzismo. Presentata la campagna di 42 associazioni

Alle 10.59 di un giovedì mattina qualsiasi, nella centralissima piazza di Spagna il via vai sembra quello di sempre. Le castagne vendute nonostante il sole estivo, i selfie scattati senza sosta, lo shopping di lusso nei negozi di via dei Condotti. Uno sguardo attento, però, potrebbe notare che le persone sedute sulla celebre scalinata di Trinità dei Monti non sono i soliti turisti. Sui gradini si aggirano, alcuni nascosti sotto anonimi cappelli, noti attivisti antirazzisti della capitale, membri di associazioni di migranti, studenti universitari e qualche rappresentante sindacale.

I VIGILI sono troppo impegnati a preservare il decoro del monumento per rendersene conto. Mentre fischiano e si sbracciano contro una famiglia inglese che mangia un panino sulle scale (è vietato), non si accorgono che circa 300 persone tirano fuori improvvisamente delle coperte termiche. E ci si avvolgono dentro. In alto, intanto, viene srotolato un grande striscione che dice: #IoAccolgo. Il flashmob si svolge in un silenzio rotto solo dagli applausi finali e serve a lanciare la campagna promossa da 42 realtà sociali italiane e internazionali. Tra loro ci sono i giuristi di Asgi e A Buon Diritto, organizzazioni religiose come Centro Astalli e Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, gli studenti di Rete della Conoscenza e Unione degli universitari, i volontari della Casa dei Diritti Sociali e varie Ong: ActionAid, Oxfam, Intersos, Medici Senza Frontiere. Ci sono anche Cgil e Uil. Insieme ad altri soggetti che rappresentano mondi variegati. Tanti e diversi.

«NON VOGLIAMO arrenderci a un paese che lascia morire la gente in mare o in Libia – afferma Filippo Miraglia, dirigente nazionale Arci, aprendo la successiva conferenza stampa – Nella rappresentazione pubblica prevale l’odio, ma c’è un’Italia che accoglie». Al microfono si alternano realtà associative e sindacali, esperienze di buona accoglienza e reti di solidarietà. «Abbiamo scelto di ospitare Ibrahim nella nostra casa perché abbiamo a cuore il futuro di nostro figlio – racconta Elena, della Rete Refugees Welcome – Sono coetanei e solo insieme non saranno costretti a vivere in un paese triste e desolato». Intervengono numerosi migranti e rifugiati. Lo stesso Ibrahim, «finalmente sono uscito dal centro dove sopravvivevo con altre 500 persone e ho un posto da chiamare casa», o Jerry, «ho studiato, sono diventato mediatore culturale ma il decreto sicurezza mi ha buttato per strada perché avevo la protezione umanitaria». Parla poi una rifugiata siriana giunta in Italia in aereo, con i corridoi umanitari, che racconta la sua esperienza di integrazione.

#IOACCOLGO vuole dare visibilità «a quella parte di paese che non si arrende alla barbarie di un mondo fondato sull’odio e sulla paura, che crede nei principi della Costituzione, dei diritti uguali per tutti», è scritto nel comunicato di lancio della campagna. Oltre agli strumenti per agire sul senso comune, sono state individuate delle rivendicazioni puntuali, che riguardano diversi ambiti del fenomeno delle migrazioni internazionali.
Si parte dal mare – con le richieste di programmi efficaci di ricerca e soccorso, porti aperti, stop ai respingimenti in Libia e canali di ingresso regolari e sicuri – per arrivare alla terraferma – con l’esigenza di un’accoglienza dignitosa, percorsi di inclusione reali, garanzia dei diritti sociali e ius soli.

IL FILO COMUNE tra le diverse questioni è l’opposizione alle politiche del governo di Lega e Movimento 5 Stelle e alle misure razziste e liberticide che ha introdotto in questi mesi. L’attenzione si concentra soprattutto sui provvedimenti bandiera del ministro dell’Interno Matteo Salvini: il decreto sicurezza, trasformato in legge a dicembre scorso, e il decreto sicurezza-bis, approvato due giorni fa dal consiglio dei ministri. Contro queste misure che colpiscono migranti e italiani, basti pensare ai 5mila lavoratori dell’accoglienza rimasti disoccupati dall’introduzione del decreto Salvini che potrebbero triplicare entro la fine dell’anno, la campagna promette di dare battaglia con vertenze e mobilitazioni.

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Ci sono voluti quasi sedici mesi per intervenire con nuove norme dopo la  Sentenza del Consiglio di Stato del 28 febbraio 2018 che, riscontrando una carenza legislativa in materia, aveva bloccato sia i rinnovi sia le nuove autorizzazioni, da parte delle Regioni, per il riciclo di rifiuti non regolato da regolamenti europei o da decreti nazionali: un blocco che ha recato gravi danni al settore coinvolgendo quasi tutte le attività innovative di riciclo. Si poteva e si doveva quindi intervenire con urgenza.

Abbiamo dovuto invece aspettare un lungo periodo di discussioni e tentativi andati a vuoto, per arrivare ad avere le nuove norme in materia, inserite nella legge di conversione del decreto “Sblocca cantieri”, che non risolvono un bel niente. In attesa dei decreti ministeriali – ne sono stati pubblicati solo due e altri sono attesi da anni – la nuova norma approvata al Senato stabilisce, infatti, che continuano ad essere utilizzati come decreti per la cessazione della qualifica di rifiuto (End of waste) il DM 5 febbraio 199 e successivi, compresi i loro allegati che definiscono “tipologia, provenienza e caratteristiche dei rifiuti, attività di recupero e caratteristiche di quanto ottenuto da tale attività”. Queste disposizioni non consentono di riciclare:

  • tipologie di rifiuti con provenienze o con caratteristiche non previste dal DM (decreto ministeriale) 5 febbraio 1998: per esempio rifiuti da spazzamento stradale che oggi potrebbero essere recuperati con produzione di ghiaia e sabbia, rifiuti in vetroresina da demolizione delle barche e pale eoliche ecc.
  • con attività di recupero non previste dal citato DM: per esempio attività di produzione di biometano da rifiuti organici, attività di trattamento di rifiuti di plastiche miste per ottenere prodotti non conformi ai prodotti in plastica usualmente commercializzati, alcuni trattamenti innovativi dei RAEE (Rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche) ecc.
  • ottenendo prodotti non previsti dal citato DM: per esempio con il riciclo dei rifiuti inerti da costruzione e demolizione non è prevista la produzione di aggregati riciclati, con gli PFU (pneumatici fuori uso) non è previsto di fare granulo per i campi da calcio ecc.

Il DM del 5 febbraio del 1998, venti anni fa, ha dato un grande contributo allo sviluppo del riciclo dei rifiuti, speciali e urbani, in Italia. Avrebbe però dovuto essere aggiornato ai nuovi rifiuti, alle nuove tecniche e ai nuovi prodotti che, via via, si sono sviluppati. In 20 anni, con grave sottovalutazione, questo aggiornamento non è stato fatto, lasciandolo fare alle autorizzazioni delle Regioni, fino alla sentenza del Consiglio di Stato che le ha bloccate.

L’emendamento del Senato ha quindi ingessato il riciclo dei rifiuti, fermandolo alle tipologie, tecnologie e prodotti del 1998, ignorando il grande progresso che c’è stato e che continua con grande rapidità e numerose innovazioni che non possono aspettare i tempi lunghi – di anni – dei decreti nazionali. Colpisce come in un decreto che punta a sbloccare i cantieri, si sia dimostrata una così scarsa conoscenza di un settore strategico come quello del riciclo dei rifiuti, approvando norme che bloccano lo sviluppo di nuovi impianti e nuove attività industriali che sono pronte a partire e che porterebbero vantaggi ambientali, occupazionali ed economici.

Per superare questa situazione ed eliminare il pasticcio combinato al Senato, basterebbe, come insieme ad un vasto schieramento andiamo sostenendo da mesi, recepire con urgenza l’art.6 della nuova Direttiva 2018/851 che prevede condizioni e criteri specifici, unitari e validi per tutto il territorio nazionale, che consentirebbero di superare la sentenza del Consiglio di Stato e di affidare alle Regioni, in mancanza di decreti nazionali e di regolamenti europei, di autorizzare, caso per caso, attività di riciclo completo, con la cessazione della qualifica di rifiuto del prodotto ottenuto.

 

* Presidente Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile

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Richiedenti asilo. Davanti al centro regionale di smistamento, per ore centinaia di volontari, avvocati e traduttori hanno aiutato gli stranieri ad orientarsi e a cercare un tetto per la notte. La città solidale e accogliente si è mobilitata per aiutare gli stranieri a rimanere

Il centro regionale di smistamento per richiedenti asilo

 

Il centro regionale di smistamento per richiedenti asilo © Ansa

«C’è qualcuno che parla il tamil?». Alle tre del pomeriggio è ormai da ore che Marta fa domande del genere, e che mette in collegamento migranti con interpreti e avvocati, col sole che picchia forte sull’asfalto del piazzale davanti all’hub di Bologna, il centro regionale di smistamento dei richiedenti asilo. Accanto a lei, operatrice sociale dell’accoglienza di una delle tante coop bolognesi del settore, sono arrivati anche avvocati, militanti dei centri sociali, sindacalisti di Usb, Adl Cobas e Cgil, sindaci con la fascia tricolore da tutta la provincia, consiglieri comunali.

È la pancia della Bologna accogliente e solidale che ieri ha portato 400 persone ad occupare per ore la strada di fronte al centro di accoglienza cittadino, in protesta contro la decisione della Prefettura – su indicazioni del Ministero dell’Interno – di chiudere tutto praticamente da un giorno all’altro.

Una comunicazione venerdì scorso ai gestori (il consorzio di cooperative l’Arcolaio), un’intervista sulla stampa locale il mattino successivo, la chiusura totale di fronte alle controproposte delle coop che puntavano a salvare lavoro e progetti di accoglienza, ed ecco materializzarsi i fatidici sette giorni ad un centro aperto da anni che ha visto transitare dalle sue mura 30 mila migranti, e per giunta senza un solo borbottio dal quartiere. Sette giorni che poi sono diventati ore, visto che ieri sono stati inviati i bus per svuotare lo stabile e portare tutti i 150 migranti nel cuore della Sicilia, a Caltanissetta. Un blitz. Con buona pace dei percorsi di integrazione che quasi tutti avevano avviato a Bologna, della domanda di asilo di fronte alle commissioni territoriali, dei lavori – chi in regola, chi meno – che alcuni erano addirittura riusciti a trovare. Con tanti saluti anche ai 35 operatori che nell’hub lavoravano, 54 i lavoratori complessivamente coinvolti nella struttura.

«È la campagna elettorale di Matteo Salvini che non si ferma – tuona il segretario regionale della Cgil, Luigi Giove – Dopo aver vinto a Ferrara, la Lega ha deciso di colpire la buona accoglienza bolognese». «Un fatto grave e violento», dichiara il Pd locale. «Tutto sarà fatto ricadere sulla spalle del Comune», ragionano gli uffici del sindaco Merola. Alla fine della giornata i quattro bus che il Ministero ha inviato per il trasferimento dei migranti – una «deportazione», per i manifestanti – sono ripartiti verso sud con solo una trentina di passeggeri sui 150 previsti. Tutti gli altri hanno deciso di restare a Bologna. Merito degli operatori sociali che lunedì notte hanno fatto le ore piccole per raccontare loro la situazione in una grande assemblea convocata all’ultimo momento, degli avvocati che ieri hanno spiegato in strada a tutti i loro diritti, dei traduttori che hanno speso ore e ore per raccontare a tutti i 150, in inglese, francese, tamil, urdu e arabo, che salire sui bus non era un obbligo nonostante la presenza della celere, e che il non salire non avrebbe comportato necessariamente la cessazione del diritto all’accoglienza.

Quella di Bologna è stata una protesta all’incontrario, dove la città si è mobilitata a favore dei migranti, e per permettere loro di restare sul territorio. Così il quasi picchetto del mattino che si prefiggeva di bloccare «i bus di Salvini» di fronte ai cancelli, si è trasformato in un laborioso presidio per dare assistenza e cercare un tetto a tutti per la prima notte, in attesa di un passo deciso da parte del Comune di Bologna, più preoccupato di evitare lo scontro frontale col Ministro dell’Interno e perimetrare le rispettive responsabilità, che di risolvere il problema mettendoci risorse proprie.

A lavorare sulla situazione tre assessori della giunta Merola. Due i fronti: i posti di lavoro da salvaguardare e i migranti che non sono voluti andare in Sicilia a cui dare un tetto, vista la chiusura del centro accoglienza. Al momento della chiusura di questo pezzo importante del sistema di accoglienza, nessuna soluzione concreta è stata trovata. Nel pomeriggio di ieri però sono stati 30 i posti letto messi a disposizione dalla cittadinanza, in attesa delle istituzioni.

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Ballottaggi. La Lega si prende la città dopo 74 anni di governo della sinistra. Ma i vertici del Partito continuano a guardare al centro.

Si narra che anche sul comizio finale di Zingaretti a Ferrara il Pd si sia diviso, da una parte quel pezzo di partito che voleva tenere il segretario in un luogo chiuso per paura di confronti numerici con le adunate di Salvini, dall’altra chi voleva portare Zingaretti in mezzo ai ferraresi. Alla fine hanno prevalso i secondi e il bagno di folla c’è stato, ma anche su questo – un comizio a poche ore dal voto decisivo – il partito, già in depressione per la sconfitta annunciata, ha faticato a trovare la quadra. Come si è spaccato tempo fa sulla scelta del candidato sindaco che avrebbe dovuto affrontare la sempre più rampante Lega. «Che errore scegliere lui», ha dichiarato a marzo il deputato renzianissimo Luigi Marattin in riferimento all’appena incoronato candidato Aldo Modenesi. Fuoco amico, ma anche una critica ad una scelta di continuità assoluta col passato (Modonesi è stato assessore negli ultimi 20 anni) che si è disastrosamente schiantata contro la voglia di cambiamento che tutti a Ferrara percepivano da tempo. Come risultato è arrivata una sconfitta storica per tutto il centro sinistra: la coalizione di Modonesi si è fermata al secondo turno al 32% e il leghista Alan Fabbri sarà il nuovo sindaco. Una svolta per una città da sempre di sinistra.

ORA IL CAMBIO di guardia con tutte le conseguenze politiche del caso: le dimissioni della segretaria del Pd ferrarese Ilaria Baraldi, l’incontenibile gioia leghista che ha dato vita nella notte tra domenica e lunedì ad un festa con sfottò agli sconfitti e, nel palazzo municipale, una bandiera della Lega che è andata a coprire lo striscione «Verità per Giulio Regeni». «Il Pd ha perso perché è stato arrogante», ha rincarato la dose il segretario locale del Carroccio Nicola Lodi. Guai ai vinti. «Eccola l’onda nera», ha commentato mesto Flavio Romani, ferrarese d’adozione ed ex presidente dell’Arcigay nazionale.
Assieme ad Alan Fabbri sindaco entrerà in consiglio, tra le fila della nuova maggioranza, il consigliere comunale Solaroli, famoso per il video in cui si mostrava con una pistola. Ed entrerà tutta l’ultra destra, quella di Fratelli d’Italia e quella che in tempi utili è transitata nel partito di Matteo Salvini. Che ora punta alla regionali di inizio 2020, quando l’obiettivo non sarà questa o quella città, ma direttamente tutta l’Emilia-Romagna.

PER INTANTO la Lega può festeggiare Ferrara e Forlì, altra città caduta più per responsabilità del Pd che per merito dei suoi avversari. A vincere Gian Luca Zattini, democristiano dichiarato fin nel dna.«Abbiamo dichiarato di essere il cambiamento e la gente ci ha votato. I forlivesi hanno voluto vedere cosa c’era oltre la porta». A uscire sconfitto Giorgio Calderoni, magistrato in pensione che i dem hanno schierato per esaurimento interno. Il risultato è stato un candidato che da moderato si è battuto come un leone, ma che nel 2013 aveva votato per Monti e l’anno successivo, vivendo all’epoca nello stesso comune del suo avversario (Meldola, paese confinante con Forlì), ha votato addirittura per lo stesso Zattini. Calderoni in tutto il suo candore lo ha addirittura dichiarato nella sua prima uscita pubblica. «Ha uno stile tutto suo», dicevano. Per lui una sconfitta onorevole (46,9%) ma pur sempre una sconfitta.

IN EMILIA-ROMAGNA il Pd può consolarsi con la vittoria di Reggio-Emilia e con quella di Cesena, a cui bisogna aggiungere Modena già al primo turno. Ma per un partito che in regione era quello di governo per antonomasia non sono le vittorie a contare. Le batoste di Ferrara e Forlì, a cui si aggiunge la modenese Mirandola e Copparo nel ferrarese, pesano più di tutto il resto. Poi c’è un dato oggettivo da cui partire: la Lega è risultato il primo partito alle europee, e se si votasse domani l’alleanza Lega-FdI-Forza Italia conquisterebbe la regione. Per non perdere l’Emilia-Romagna il Pd avrà qualche mese di tempo per riorganizzarsi e trovare una proposta capace di entusiasmare gli elettori, visto che domenica il classico cavallo di battaglia – la «buona amministrazione emiliana» – ha dato dopo decenni i primi segni di inadeguatezza. A Forlì e sopratutto a Ferrara invece si tratta già di ricostruire sulle macerie e pensare alla prossima sfida del 2024. Qualche dirigente dem inizia a ammetterlo: «Abbiamo fatto campagna elettorale guardando al centro quando invece, per sperare di vincere, bisognava cercare i voti a sinistra». In Regione però, al momento, si fanno sentire le sirene centriste. «Se il Pd coltiva l’illusione dell’autosufficienza sbaglia clamorosamente», dice l’ex Dc Pierferdinando Casini.

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Domenica, maledetta domenica. Quando si è votato per il parlamento europeo, quando 22 milioni e mezzo (45,72%) di aventi diritto non sono andati alle urne, rasentando il 50%, in netto aumento rispetto alle elezioni politiche del 2018 e maglia nera continentale.

Il non voto è ormai la normale e fisiologica dimensione reale della principale scadenza della vita democratica. Se non si squarcia il muro della fuga consapevole e carica di significati dall’esercizio di un diritto fondamentale, non si capisce dove e come ricominciare.

GLI ELEMENTI salienti emersi lo scorso 26 maggio sono chiari e si evincono dall’analisi dell’esperto di sistemi politici Franco Astengo: rilevantissima avanzata della destra leghista e – in misura minore- di quella di Fratelli d’Italia; decisa flessione del M5S; limitata ripresa del Partito democratico; sconfitta senza attenuanti de La Sinistra. Il Pd, ancorché il suo risultato sia stato accompagnato da un’ingiustificata enfasi, ha perso 111.545 voti rispetto al 2018. Lasciamo stare ogni raffronto con l’omologa scadenza del 2014, tuttavia il quadro non è confortante. La Sinistra si ferma a 465.092 voti, mentre i Verdi arrivano a 609.678 suffragi. C’è, poi, il simbolo di Marco Rizzo che tocca 234.232 voti.

Solo nel 2018 LiberieUguali aveva ottenuto 1.114.799 consensi, e Potere al popolo 372.179. La Lista comunista 106.816 voti e Per una sinistra rivoluzionaria 29.364. Nel 2008 La Sinistra arcobaleno aveva preso più o meno lo stesso. Discorso a parte merita il caso del 2013, quando Sinistra, ecologia e libertà si collegò elettoralmente al Pd diretto da Pier Luigi Bersani.

È DA AGGIUNGERE che, dall’analisi della società Swg tra chi aveva votato M5S nel 2018, il 38% è rimasto pentastellato, un identico 38% si è astenuto, il 14% è andato alla Lega e solo il 4% Pd. A sinistra pressoché nulla.

Non solo. Mentre i 5Stelle non hanno soverchie differenze tra le percentuali raggiunte nei capoluoghi o nelle province, Partito democratico, +Europa e La Sinistra hanno qualche successo nelle aree urbane e assai meno nelle periferie o nei piccoli centri. Il contrario della Lega. Si è consumato definitivamente, quindi, il rovesciamento della e nella rappresentanza. Le anime progressiste sono state abbandonate (per loro chiare colpe) dai ceti insieme più poveri ed estranei ai flussi globali. E’ l’esito negativo del riformismo “debole”, che ha segnato gli anni ottanta e novanta. Per l’incapacità di fronteggiare tre fenomeni tra loro connessi: la caduta delle certezze del Muro di Berlino (criticato e odiato, ma rassicurante), la globalizzazione liberista, la rivoluzione tecnologica assolutamente sottovalutata se non incompresa. Tutto cambiava, nei modelli produttivi, di consumo, nelle culture di massa.

LA PIRAMIDE sociale si incupiva e cresceva, gli universi attraversati dalla crisi o devastati dall’antico colonialismo perdevano ogni fiducia in una politica lontana e vissuta come privilegio. Il bandolo non è stato ripreso, e lingua e sintassi della sinistra si sono spente.
Si tratta di chiudere definitivamente un lungo ciclo. E di riaprirlo con idee, stili e volti diversi. Ambientalisti e digitali. Capaci, senza opportunismi o retoriche, di seguire la lezione dei femminismi.

Che fare è difficilissimo solo capire. Tuttavia, viene in soccorso un’ipotesi che lanciò all’epoca il compianto Lucio Magri: un Epinay delle sinistre, vale a dire il riferimento al congresso tenutosi nel 1971 nella cittadina francese in cui Mitterrand lanciò il percorso ricostituente dei socialisti francesi, divisi in rivoli e tribù disgregate. Il rilancio avvenne su basi culturali, prima ancora che politiche. E nacque la “forza tranquilla”.

Forse, qualcosa che assomigli a quello spirito, ibridato – per venire ai giorni nostri- con il fantasma dell’assemblea del 2017 al teatro Brancaccio di Roma. Con una proposta, però, che abbia il coraggio di varcare i soliti confini, interpellando con il megafono anche il Pd e i 5Stelle. Difficile immaginare l’esito, ma già il proporre significa selezionare domande e risposte. Ed è essenziale mettersi in un simile ordine degli addendi, naturalmente con giudizio e senza pasticci. Ma pure senza “continuismi”. Del resto, la situazione è grave e si avvicinano probabilmente elezioni anticipate.

È FANTASCIENZA? Chissà, ma, prima di arrendersi all’ondata sovranista, pop-autoritaria, persino neo-razzista, la fantasia deve cimentarsi contro la pura logica autoreferenziale. L’Associazione per il rinnovamento della sinistra, che è nata proprio per tenere vivo il dialogo al di là delle mere appartenenze, intende rendersi disponibile a fare la sua parte. C’è da augurarsi che le numerose e valide strutture di analisi e di ricerca vogliano finalmente coordinarsi. Sena nuova teoria non c’è nuova politica. E nessuno si salva da solo, com’è noto.

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