Salute. Gli esiti devastanti del regionalismo differenziato chiesto dal Veneto, dalla Lombardia e dall’Emilia Romagna. Cioè dalla Lega e dal Pd.
Il M5s, attraverso il suo ministro della salute, Giulia Grillo, ha accettato, sulla sanità, senza condizioni, il regionalismo differenziato chiesto dal Veneto dalla Lombardia dall’Emilia Romagna. Cioè dalla lega e dal Pd.
LE REGIONI, per gentile concessione del M5s, cioè di coloro che si sono sempre dichiarati grandi difensori della sanità pubblica, avranno i poteri esclusivi dello Stato su: personale, farmaci, governance, fondi integrativi, tariffe, servizi, formazione. Lo Stato quindi su queste fondamentali materie non avrà più voce in capitolo.
Ogni regione se la suonerà e se la canterà come vuole, potrà privatizzare i suoi servizi, potrà fare contratti ad hoc per i propri operatori, potrà dare di più o di meno, potrà gestire la sanità con aziende uniche, centralizzate, o altro, potrà avere propri operatori specifici, potrà formare perfino i medici come vuole, potrà curare la gente a modo suo, potrà ovviamente mettere le tasse che servono sui propri cittadini, perché l’unica condizione posta a questa follia contro-riformatrice è che tutto avvenga per lo Stato a «costo zero» cioè che le regioni si paghino le spese. Un costo zero che sarà pagato a caro prezzo dal nostro paese.
MUORE COSÌ, nel quarantennale della sua nascita, il servizio sanitario nazionale. Con esso muore: la solidarietà tra le persone, quella che finanzia attraverso il fisco in modo giusto i bisogni di salute dei poveri e dei
Leggi tutto: In morte del servizio sanitario nazionale - di Ivan Cavicchi
Commenta (0 Commenti)Solo fino a pochi mesi fa pareva impossibile. Maurizio Landini oggi sarà eletto segretario generale della Cgil. L’ultimo a fare il passaggio dalla Fiom alla confederazione fu Bruno Trentin nel 1988 e basterebbe questo a farlo entrare nella storia di questo sindacato.
Nelle settimane che sono passate fra la proposta di Susanna Camusso e ieri, l’accusa che gli è stata più rivolta è quella di essere «un movimentista» vicino al M5S. A smentirla basterebbe il fatto che Landini non ha mai avuto alcun rapporto con qualsivoglia esponente cinquestelle e i suoi giudizi sul governo sono stati duri fin dal principio: «Per la prima volta abbiamo un governo che è basato su un contratto privato e non discute con nessuno».
I preconcetti di tanti suoi detrattori sono già stati spazzati via nell’anno e mezzo passato in segreteria confederale. Chiamato da Camusso dopo la firma del contratto dei metalmeccanici su richiesta di quei pensionati dello Spi che ora capeggiavano i riformisti contrari alla sua successione, Landini ha subito conquistato la stima di tutti i componenti della segreteria per capacità di lavoro comune, rispetto delle competenze e collegialità.
Ha lavorato su deleghe simili e comuni con il suo avversario fino a ieri notte, Vincenzo Colla, avendo uffici vicini a Corso d’Italia. Si conoscono da tanti anni, entrambi sono emiliani ma con storie differenti. Se Colla, piacentino, è sempre stato vicino al Pd, Landini, reggiano testardo, non ha tessere di partito dai tempi del Pci: «In tasca ho solo quella della Cgil e dell’Anpi», ricorda sempre.
La battaglia per i diritti partita a Pomigliano nel 2010 e vinta in Corte costituzionale nel 2015 contro la Fca di Marchionne lo ha fatto diventare un personaggio e il simbolo del riscatto dei deboli. Ai tempi della fallita Coalizione sociale tutti pensavano puntasse a diventare un leader politico – lo pensò soprattutto il Fatto – e invece fin da quel giorno il suo obiettivo era prettamente sindacale: diventare segretario della Cgil per cambiarla e avvicinarla ai giovani e ai lavoratori autonomi.
Recentemente applaudito fino a spellarsi le mani dai delegati Cisl e Uil a un attivo della Ricerca, ieri Landini ha fatto le prime foto da segretario coi suoi compagni della Fiom. A Ivano e Angelo che scherzosamente gli dicevano: «Goditi oggi perché da domani ti attacchiamo», ha risposto: «Sì, sì, sì: voi dovete fare la Fiom».
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Le società occidentali stanno attraversando un periodo buio della propria storia. Il divario tra ricchi e poveri si allarga in modo pauroso, pochissime persone detengono capitali enormi mentre fasce di popolazione sempre più consistenti sopravvivono al limite della soglia di povertà.
I cambiamenti climatici determinati dall’inquinamento globale causano sconvolgimenti e condizioni sempre più estreme, destinati a colpire tutto il Pianeta. I flussi migratori non governati hanno creato chiusure, paure, intolleranza, razzismo, egoismo o, per dirla più semplicemente, aridità dei cuori.
Di fronte a questi scenari, in Europa hanno clamorosamente fallito le terapie di austerità, ma appaiono pericolose le derive sovraniste e nazionaliste, che sconfinano nel fascismo e nel razzismo. Anche i Valori ed i Princìpi fondamentali enunciati nelle Carte costituzionali e ribadite dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, a cui in tanti facciamo riferimento, vivono senza un comune sentire.
Ora più che mai occorre una risposta Alta ed Altra. Occorre ridare valore e centralità alle persone, ai popoli.
Si rende necessario un nuovo protagonismo in cui ogni persona sostenga con forza l’esigenza di ricreare comunità solidali ed accoglienti, dove a prevalere siano la giustizia sociale, i diritti, la dignità delle donne e degli uomini. E’ necessario che la politica e la società tornino ad impegnarsi per la pace ed il bene comune.
In Italia appare insufficiente la capacità di risposte adeguate da parte delle molteplici sigle di partito che, a vario titolo, si richiamano (spesso senza coerenza) ai valori della solidarietà, della pace, dell’ecologia, della giustizia sociale, dei diritti civili.
Si assiste ad una eccessiva frammentazione, a personalismi, ripicche, tentativi di tutelare rendite di posizioni di nomenclature ormai non più rappresentative. Di contro, vi sono straordinarie esperienze sui territori, portate avanti con generosità, passione, idealità dal mondo del volontariato e da Comuni lungimiranti.
Tra queste una menzione particolare la merita Riace, modello di accoglienza e di integrazione di migranti universalmente conosciuto, studiato ed apprezzato.
Questa piccola comunità della Calabria, dove hanno prevalso i valori dell’umanità, dell’inclusione, dell’accoglienza nei confronti di tutti coloro che sono alla ricerca di una vita migliore, oggi è diventata il simbolo di una speranza coltivata con tenacia, coerenza, generosità ed altruismo da Mimì Lucano, «anima» dell’esperienza Riace.
Mimì ha fatto della politica e del servizio la sua ragione di vita, ha interpretato il suo ruolo con abnegazione e spirito missionario.
Per queste ragioni gli chiediamo di rendersi disponibile per dare il proprio contributo in una dimensione più ampia, facendosi promotore di una forte iniziativa che metta insieme cattolicesimo democratico, volontariato ed associazionismo e che spinga all’unità le varie sigle partitiche, superando steccati, campanilismi, miopie e cura del proprio orticello.
Lo chiede il particolare momento storico, lo chiede il pericolo di una forte avanzata leghista in tutte le aree del Paese, lo chiede la necessità di portare in Europa narrazioni che riescano a scaldare i cuori e riescano a contrapporsi al pensiero unico dominante.
In una prospettiva UNITARIA (e solo a queste condizioni) la candidatura alle elezioni europee di Mimì Lucano porterebbe un grande valore aggiunto, in grado di riportare all’impegno ed alla mobilitazione migliaia e migliaia di donne e di uomini ormai alquanto delusi, soprattutto coloro i quali, pur credendo e vivendo fermamente i Valori della Costituzione repubblicana, da tempo, fanno fatica a riconoscersi nella rappresentanza politica, sempre più vuota di contenuti e tronfia di propaganda.
Abiusi Pio, attivista di base, Matera; Albanese Gianluca, giornalista – Siderno (Rc); Albanese Sasà già dirigente Verdi – Siderno (RC); Altimari Francesco docente università della Calabria – Cosenza; Amato Rina, regista ed attivista politica – Roma; Ariganello Vito, ingegnere ed intellettuale – Budapest; Associazione Cittadini del Mondo – Ferrara; Baffari Paolo, architetto ecologista – Potenza; Barillaro Gildo, imprenditore – Ardore (Rc); Belisario Felice, avvocato – Potenza; Becagli Dino, regista – Potenza; Bitonte Fabiano, attivista – Montalbano (Matera);Broccolo Angelo, segretario regionale Sinistra Italiana – Corigliano-Rossano (Cosenza); Carrano Luigi, attivista diritti umani – Faenza (Ravenna); Centonze Michele, attivista politico – Atella (Pz);Cirella Laura, attivista politica – Reggio Calabria; Cantore Renato, giornalista – Potenza; Costa Enrico, docente emerito di urbanistica – Reggio Calabria; Coviello Peppino, preside – Avigliano (Potenza); Crucitti Nadia, scrittrice – Reggio Calabria; D’Agostino Maria Francesca, docente Università della Calabria; Dal Fovo Arrigo, Centro Turistico Acli – Trento; De Flores Walter, attivista politico – Bovalino; De Lisa Antonio, docente – Potenza; De Luca Stefano, avvocato – Milano; Delfino Demetrio, presidente del Consiglio comunale di Reggio Calabria;Dentamaro Gaetano, medico – Matera; Di Bernardo Giuseppe, attivista politico – Ferrara; Di Giulio Patrizia, docente, coordinatore regionale Ecodem – Pignola (Potenza); Di Leo Angela, insegnante – Rocca Imperiale (Crotone); Di Michele Grazia, cantante – Roma; Di Siena Piero, giornalista – Roma; Donato Salvatore , docente -Avigliano (Potenza); Elliott Claudio, scrittore – Napoli; Ferro Raffaella, operatrice culturale – Potenza; Filizzola Giovanni, attivista politico – Rivello (Potenza); Fontanari Marta, Centro Turistico Acli – Trento; Frascà Silvio, portavoce Possibile Costa dei Gelsomini – Siderno (Rc); Gallo Carla, fisica ed attivista – Vibo Valentia; Gallucci Luigi, giornalista – Potenza; Gambello Elisabetta, insegnante – Reggio Calabria; Gianforme Carla, docente – Palermo; Greco Silvio, biologo marino – Vibo Valentia; Guarino Liliana, sindacalista – Potenza; Ieraci Enzo, attivista politico – Siderno (Rc); Infantino Enzo, scrittore ed attivista diritti umani – Palmi (Rc); Insetti Maria Italia, architetto-progettista – Matera; Iovine Nuccio, già senatore della Repubblica – Roma; Laganà Massimo, giornalista/blogger – Milano;Lanorte Antonio, attivista di base – Potenza; Larotonda Angelo Lucano, docente – Potenza;Lavorato Peppino, già deputato al Parlamento – Rosarno (Rc); Lentini Enzo, attivista politico – Verzino (Crotone); Lepora Michele, operatore sociale – Torino; Leporace Paride, operatore culturale – Potenza; Loiero Valentina, giornalista – Roma; Lombardo Franco, insegnante ed attivista politico – Siderno (Rc); Longaretti Veronica, insegnante, – Rocca Imperiale (Cosenza);Macrì Annarosa, giornalista – Cosenza; Mallamaci Nino avvocato ed attivista – Reggio Calabria;Manco Palmiro, attivista politico – Scalea (Cosenza); Maraini Dacia, scrittrice; Martino Franco, ingegnere ed attivista ambientalista – Siderno (Rc); Mazzei Titta, operatore sociale, Bernalda (Matera); Melia Pietro, giornalista – Soverato (Catanzaro); Melillo Giuseppe, ricercatore – Bernalda (Matera); Mesiti Vincenzo, ingegnere ed attivista politico – Siderno (Rc); Messina Pinuccio, attivista di base – Potenza; Murace Turi, attivista politico – Bivongi (Rc); Navarra Sergio, attivista di base – Potenza; Nicolò Domenico, docente universitario – Reggio Calabria;Orenga Paola, operatrice culturale – Rivello (Potenza); Orlando Pasquale, Acli Napoli – Benevento; Pace Vito, quadro specializzato – Potenza; Pantano Agostino, giornalista – San Ferdinando (Rc); Paolino Tania, imprenditrice e scrittrice – S. Maria del Cedro (Cosenza); Parri Ferruccio, avvocato; Pascale Michele, attivista politico – Sasso di Castalda (Matera); Pascale Nicola, operatore culturale – Satriano di Lucania (Potenza); Pavia Laura, docente – Matera;Pesacane Paolo, Arci Basilicata; Pignatari Angela, avvocato – Potenza; Praticò Alessio, attore cinematografico – Reggio Calabria; Petraroia Michele, sindacalista – Campobasso; Praticò Mariateresa, avvocato – Reggio Calabria; Primi Fiorello, operatore culturale – Castiglione del Lago (Perugia); Puerstl Maximilian, docente – Rotondella (Matera); Pugliese Filippo, Centro Turistico Acli – Potenza; Quaranta Nino artista ed attivista Sos Rosarno – Laureana di Borrello (Rc);Racco Nino, cantastorie – Bovalino (Rc); Restaino Lucia, attivista di base – Potenza; Restuccia Paolo, regista programma Il ruggito del coniglio – Roma; Rinaldi Patrizia, scrittrice – Napoli;Rocca Arturo associazione Osservatorio Ambientale Locride – Locri (Rc); Ruggieri Michele, sacerdote e attivista di base – Potenza; Russo Antonio, Acli Nazionali – Foggia; Sabia Franco, operatore culturale – Avigliano (Potenza); Saccomanno Francesco, Rifondazione Comunista Calabria – Cosenza; Sabato Cataldo, docente – Bella (Potenza); Savino Nicola, dirigente scolastico – Pignola (Potenza); Scaglione Luigi, giornalista – Potenza; Scalamandrè Silvestro, Anpi Vibo Valentia; Sciarra Graziano, Acli Roma; Scutari Piero, operatore sociale – Roma; Sgambellone Giuseppe, avvocato ed attivista politico – Siderno(Rc); Sindona Antonello, docente di fisica all’Università della Calabria; Somma Mirko, attivista di base – Potenza; Stabile Biagio, Anpi Potenza – Tito (Potenza); Suppa Lele, dirigente scolastico – Sant’Onofrio (Vibo Valentia); Summa Angelo, sindacalista – Potenza; Suraci Paola, giornalista – Reggio Calabria; Tallura Antonio, attore – Locri (Rc); Telesca Vito, operatore culturale – Potenza; Tonini Norberto, operatore culturale – Udine; Toscano Peppe, sindacalista Usb – Reggio Calabria; Tramutoli Alfredo, attivista di base – Potenza; Tramutoli Valerio, docente – Potenza; Tufaro Filomena, docente archeologa – Nova Siri (Potenza); Umbaca Enzo, artista – Milano; Valerio Maria, montatrice cinematografica – Roma; Villano Franco, editore – Potenza; Ziparo Alberto, docente universitario urbanistica;Zavaglia Maurizio, cooperatore sociale e consigliere comunale – Gioiosa Ionica (Rc).
Intervista. Il sociologo Andrea Membretti, fra gli autori del libro «Montanari per forza», uno studio che si è concentrato sul fenomeno dei richiedenti asilo distribuiti in territori normalmente dimenticati
Macedoni e albanesi che praticano la transumanza sull’appennino centrale, manovali cinesi che portano avanti l’edilizia rurale nel cuneense, rumeni che nel Friuli gestiscono lo sfalcio dei boschi. E’ da circa vent’anni che cittadini stranieri hanno cominciato a insediarsi nelle cosiddette terre alte, andando ad occupare nicchie economiche ed abitative abbandonate dalla popolazione originaria. Sono il prodotto di un flusso migratorio partito inzialmente dai balcani, ma che ha poi interessato il Nord Africa e tutti quei paesi con una forte necessità migratoria. Un fenomeno consistente, che per esempio vede insediati ufficialmente sull’arco alpino 350 mila residenti stranieri, e che in moltissimi casi ha contribuito a contrastare lo spopolamento e mantenere, quando non a rilanciare, le economie delle aree di montagna alpine ed appenniniche.
Ciononostante di cosa è successo in questi luoghi che sono in qualche modo rinati o non sono morti grazie all’arrivo degli stranieri, si parla poco: pionieristico in questo senso è stato il lavoro dell’associazione «Dislivelli», network di ricercatori universitari, giornalisti ed operatori specializzati nel capo delle alpi e della montagna, che ha cominciato ad interessarsi al ruolo nello sviluppo locale dell’immigrazione straniera nelle Alpi e negli Appennini. Ma mentre i ricercatori erano ancora nel pieno di questa riflessione sui nuovi rapporti socio-economici venutisi a creare, ecco che questi territori vedono l’arrivo di un altro tipo di migranti: i richiedenti asilo, persone non approdate alla ricerca di un’opportunità in risposta a un richiamo locale, ma collocate in base a un sistema di accoglienza, quello messo in campo dal precedente governo che cercava di diluirne il più possibile l’impatto distribuendo i migranti nelle aree interne (sistema che poi sarebbe diventato il modello SPRAR e dei CAS).
Ecco quindi sorgere un’altra categoria di migranti e altre dinamiche che un libro appena uscito, Montanari per forza (Franco Angeli Editore) cerca di inquadrare. Fra gli autori il sociologo Andrea Membretti, che fin da subito ha dovuto confrontarsi con questo fenomeno e la nuova attenzione mediatica e politica che esso suscitava su territori normalmente dimenticati da tutti.
Quando sono cominciate le vostre osservazioni?
Abbiamo cominciato a studiare il tema dell’immigrazione straniera nelle aree di montagna circa tre anni fa, quindi possiamo dire che stiamo osservando l’arrivo dei richiedenti asilo fin dall’inizio. Gruppi che vanno dalle 20 alle 50 persone, in gran parte africani, per i quali sono stati utilizzati spazi di risulta: alberghi abbandonati, caserme dismesse, rifugi; mandati lì non perché qualcuno li volesse, ma solo perché costava meno, e dove a causa della rarefazione sociale i contrasti con la popolazione locale erano ridotti.
Come si è sovrapposto questo fenomeno ai rapporti economico-sociali che già stavate studiando?
Per noi è stato un punto di svolta perché ci siamo resi conto che il modello SPRAR ha dato la possibilità ad alcuni comuni di inventarsi dei progetti di accoglienza che contemporaneamente potevano rivitalizzare il territorio. In questo senso l’esperienza di Mimmo Lucano a Riace non è stata l’unica: i sindaci di molti piccoli comuni di montagna hanno capito che potevano drenare le risorse pubbliche dal sistema di accoglienza verso il territorio favorendo occupazione e sviluppo locali: processi di integrazione, corsi di formazione , cooperative di lavoro, filiere a km zero : il tutto con numeri limitati ma comunque significativi per le economie di queste terre lasciate ai margini dalle politiche nazionali.
I fattori che determinano il funzionamento di questi esperimenti sono sicuramente molti e diversificati, ma è possibile individuare alcune direttrici comuni?
Sicuramente un ruolo fondamentale lo giocano la capacità e il coraggio delle amministrazioni locali, nel momento in cui hanno l’intelligenza di capire la correlazione fra immigrazione, anche temporanea, e sviluppo locale. E’ importante anche la presenza di una società civile: spesso questi territori sono depauperati, la popolazione è per la maggior parte anziana e sparpagliata nelle frazioni, mentre per far funzionare queste sperimentazioni serve la sopravvivenza di un tessuto sociale minimo e coeso. Inoltre sono favorevoli i numeri bassi, proporzionati con la popolazione locale. Non ultima, la capacità di fare alleanza con altri comuni arrivando a costituire una rete di soggetti che si supportano reciprocamente.
Quali sono invece i loro limiti?
Per prima cosa la dipendenza dai finanziamenti: la maggior parte di questi progetti non ha ancora raggiunto un’autonomia finanziaria; anche se in alcuni casi producono beni e servizi, le entrate non compensano le uscite. Sono da considerarsi delle forme di mercato protetto, delle economie sociali ibride, che hanno ancora bisogno di un accompagnamento. Dal nostro punto di vista rappresentano delle innovazioni economiche e sociali e bisognerebbe andare nella direzione di un loro sostegno anziché in quella di un taglio indiscriminato come quello previsto dal Decreto Sicurezza: in questo senso la riduzione da 35 a 20 euro dei fondi destinati all’accoglienza rischia di far morire anche queste esperienze virtuose. Un altro limite è costituito dalla provvisorietà della permanenza: diversamente dai migranti economici, la maggior parte dei richiedenti asilo nel momento in cui gli viene riconosciuta una forma di protezione lasciano questi territori per raggiungere le città dove hanno più relazioni, mentre nei piccoli comuni montani non trovano una comunità pre-esistente della loro nazionalità. E questo è un peccato nel momento in cui l’Italia è uno dei pochi paesi che consente ai richiedenti asilo di lavorare dopo soli due mesi dalla richiesta. Se con l’accoglienza si riescono ad innescare dei percorsi che prevedono anche uno sbocco lavorativo si consente a queste persone di fermarsi, di creare nuove comunità anziché affollarsi nelle grandi città. Per esempio, a Berceto, sull’appennino tosco-emiliano, è stata aperta una cooperativa per il taglio dei boschi e la vendita della legna: ora chissà cosa succederà in seguito alla riduzione dei fondi.
Quanti sono i richiedenti asilo ospitati nei comuni di montagna?
I dati relativi alla fine 2016 inizio 2017 mostrano che su un totale di circa 130 mila richiedenti asilo, quelli inseriti negli SPRAR e CAS dei comuni considerati di montagna, ovvero al di sopra dei 600 metri, sono il 40 % . Stiamo parlando di un fenomeno di tutto rispetto che oltre ad essere sottovalutato non è stato tematizzato. Da parte del governo precedente non c’è stata la capacità di capire e raccontare quello che stava succedendo in questi territori, ha prevalso la narrazione sul richiedente asilo urbano e la gara di prese di posizione sul terreno della sicurezza. Il messaggio che cerchiamo di far passare noi è che i migranti non ci impongono solo un imperativo solidale, ma rappresentano anche un’opportunità di sviluppo economico e tenuta demografica molto importante. Il governo attuale sembra andare in tutt’altra direzione, infatti i sindaci di molti di questi piccoli comuni sono molto preoccupati.
Commenta (0 Commenti)Gaetano Azzariti (costituzionalista, presidente di "Salviamo la Costituzione ..")
da "il Manifesto" del 2 gennaio 2019
Fa piacere vedere la maggioranza di ieri, passata all’opposizione, riscoprire il valore della Costituzione. Lo diciamo senza ironia, sperando che non sia solo una ragione tattica, ma l’inizio di un nuovo corso.
Così come – con altrettanto candore d’animo – non riusciamo a trattenere un moto di sconforto quando assistiamo alle giravolte di chi abbiamo avuto sino a ieri al nostro fianco per difendere la Costituzione aggredita in modo selvaggio dai governanti ora sconfitti.
In ogni caso, per non passare troppo da ingenui, chiediamo coerenza ad entrambi. Ai nuovi partigiani della Costituzione domandiamo di fare i conti con la propria esperienza, poiché è dal disinvolto comportamento da loro tenuto in passato che si legittimano i peggiori strappi di oggi. La nuova maggioranza, invece, abbia almeno il pudore di confessare di aver abbandonato gli ideali che li aveva spinti a sostenere la lotta per la Costituzione.
UN’OPERAZIONE di pulizia intellettuale (di «onestà» si sarebbe urlato nelle piazze di ieri) necessaria per poter dare credibilità alle attuali proposte. Ciò richiede una chiara discontinuità e una sincera autocritica. La nuova opposizione anziché rivendicare i successi dei propri Governi e delle azioni sin qui compiute reclami la necessità di una svolta. Se si vuole dare fondamento alla denuncia delle enormità delle violazioni compiute nella vergognosa ultima vicenda della legge di bilancio, si rimetta in discussione una prassi pluriennale che ha teso ad emarginare il Parlamento da tutte le principali
Leggi tutto: L’ultimo strappo contro il Parlamento - di Gaetano Azzariti
Commenta (0 Commenti)Decreto Salvini. Ciò che ora occorre è una mobilitazione di massa a loro sostegno e a salvaguardia, di nuovo, della Costituzione della Repubblica, già difesa dal 60% degli elettori nel referendum costituzionale di poco più di un anno fa e oggi tradita dai nuovi governanti
Luigi Ferraioli su "il Manifesto" del 6 gennaio 2019
Il rifiuto dei sindaci di applicare il decreto Salvini è un atto ammirevole di disobbedienza civile e di obiezione di coscienza e vale a svelarne il carattere «disumano e criminogeno», secondo le parole del sindaco Orlando. E rappresenta una forte presa di posizione istituzionale in difesa dei diritti umani dei migranti. Aggiungo, per chi non condivide statalismo etico e gius-positivismo ideologico, cioè la confusione autoritaria tra diritto e morale e l’appiattimento della morale sul diritto quale che sia, che la disobbedienza civile alla legge palesemente ingiusta è un dovere morale.
Ovviamente, al prezzo delle conseguenze giuridiche alle quali si espongono i disobbedienti. Ma qui non siamo di fronte a un semplice atto morale di obiezione di coscienza. L’obiezione, in questo caso, è motivata dalla convinzione del carattere incostituzionale del decreto perché lesivo dei diritti fondamentali delle persone. Naturalmente i sindaci non possono disapplicare la legge e neppure promuovere essi stessi la questione di illegittimità di fronte alla Corte costituzionale. L’accesso alla Corte per ottenere una pronuncia di illegittimità della legge è tuttavia possibile.
Esso è previsto nel corso di un giudizio, qualora il giudice ritenga la questione non manifestamente infondata e, inoltre, su iniziativa di una Regione, qualora essa ritenga che la legge statale o una sua parte invada la sfera delle sue competenze. Ci sono pertanto tre strumenti di tutela dei diritti fondamentali che potranno essere utilizzati contro l’applicazione di questa legge disumana e immorale. Il primo è affidato all’iniziativa degli stessi migranti, i cui diritti sono dalla legge vistosamente lesi. Consiste nell’attivazione della procedura d’urgenza prevista dall’articolo 700 del codice di procedura civile, secondo il quale «chi ha fondato motivo di temere che durante il tempo occorrente per far valere il suo diritto in via ordinaria questo sia minacciato da un pregiudizio imminente e irreparabile, può chiedere con ricorso al giudice i provvedimenti d’urgenza che appaiono, secondo le circostanze, più idonei ad assicurare provvisoriamente gli effetti della decisione sul merito».
In questo caso il «provvedimento d’urgenza» che i migranti possono chiedere al giudice per opporsi alla minaccia di «un pregiudizio imminente e irreparabile» ai loro diritti fondamentali è precisamente l’eccezione di incostituzionalità che lo stesso giudice ha il potere di promuovere davanti alla Corte Costituzionale contro le norme del decreto che ledono o minacciano tali diritti, tutti costituzionalmente stabiliti. Il secondo strumento è affidato all’iniziativa delle Regioni e richiede la deliberazione delle rispettive giunte regionali. È infatti indubbio che il decreto cosiddetto «sicurezza», sopprimendo il permesso di soggiorno per motivi umanitari, ha trasformato decine di migliaia di migranti in clandestini irregolari, privandoli di fatto delle garanzie dei loro diritti fondamentali, a cominciare dai diritti alla salute e all’istruzione.
Ebbene, sia l’istruzione che la tutela della salute, secondo il terzo comma dell’articolo 117 della nostra Costituzione, sono «materie di legislazione concorrente» tra Stato e Regioni. Le norme del decreto che direttamente o indirettamente incidono su tali materie appartengono perciò alla competenza legislativa, sia pure concorrente, delle Regioni.
Non solo. L’assistenza sociale, che il decreto Salvini rende impossibile a favore dei migranti da esso ridotti allo stato di clandestini, è materia di competenza esclusiva delle Regioni: una competenza esclusiva ribadita più volte dalla Corte costituzionale, intervenuta in sua difesa con svariate pronunce (sentenze n. 300 del 2005; n. 156 del 2006; n. 50 del 2008; n. 124 del 2009; nn. 10, 134, 269 e 299 del 2010; nn. 40, 61 e 329 del 2011) contro le invadenze dello Stato. Di qui la legittimazione delle Regioni, prevista dall’articolo 127, 2° comma della Costituzione, a sollevare sul decreto Salvini la questione di legittimità costituzionale della legge di conversione, entro sessanta giorni dalla sua pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, avvenuta il 3 dicembre 2018.
Ci sono ancora, in Italia, molte regioni governate da maggioranze democratiche, dal Lazio al Piemonte, dall’Emilia alla Toscana, dalle Marche alla Campania, dalle Puglie alla Calabria. La loro disponibilità a promuovere la questione davanti alla Corte costituzionale sarà il banco di prova di quanto, al di là delle parole, queste Regioni a guida democratica intendono prendere sul serio i principi costituzionali.
Infine c’è una terza via di accesso alla giustizia costituzionale, percorribile dagli stessi sindaci che hanno deciso di non dare applicazione al decreto Salvini. Oltre alla strada intrapresa dal sindaco Orlando – l’azione di accertamento, già sperimentata in materia elettorale, davanti al giudice civile perché questi chieda alla Corte costituzionale se la legge è conforme o meno alla Costituzione – i sindaci disobbedienti potranno, qualora i loro provvedimenti venissero annullati dai prefetti, impugnare gli atti di annullamento di fronte ai Tar, cioè ai tribunali amministrativi, e, in quella sede, proporre l’eccezione di incostituzionalità delle norme da essi ritenute incostituzionali.
Insomma, la battaglia in difesa della Costituzione è nuovamente aperta, grazie alla coraggiosa iniziativa dei sindaci antirazzisti. Ciò che ora occorre è una mobilitazione di massa a loro sostegno e a salvaguardia, di nuovo, della Costituzione della Repubblica, già difesa dal 60% degli elettori nel referendum costituzionale di poco più di un anno fa e oggi tradita dai nuovi governanti. Questa volta è in questione assai più della tenuta o della modifica delle regole formali sul funzionamento dei nostro organi di governo. Sono in gioco – direttamente – tutti i principi sostanziali della nostra democrazia: l’uguaglianza, la dignità delle persone, il rifiuto delle discriminazioni razziste, la solidarietà, i diritti fondamentali di tutti, la civile e pacifica convivenza.
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