Kazakistan. Le crisi in Ucraina, Bielorussia, Kazakhstan e tra Armenia e Azerbaijan sono viste dagli Usa come occasioni per destabilizzare la Russia odierna fastidiosamente alleata della Cina
È singolare che gli Usa, ieri a colloquio a Ginevra con Mosca sulla questione Ucraina, minaccino sanzioni a Mosca ma non al Kazakhstan dove i russi e i loro alleati sono intervenuti a fianco del presidente Tokayev che ha messo in galera 8mila oppositori e fatto dozzine di morti nella repressione della rivolta.
Una rivolta che appare sempre di più una resa dei conti con il vecchio regime del presidente dittatore Nazarbayev. Basti pensare che nella notte di martedì scorso ad Almaty la polizia è scomparsa dalle strade lasciando via libera a saccheggi e incendi: un messaggio inequivocabile che erano in due a dare gli ordini e uno doveva soccombere.
Biden in realtà è stato al fianco di Tokayev: “gli Usa sono orgogliosi di poterla chiamare amico”, ha scritto a settembre in un messaggio al presidente del Khazakstan, al di là delle dichiarazioni attuali che Washington “monitorerà i diritti umani” nel Paese. Come no: lì ci sono investimenti miliardari di Exxon e Chevron (c’è anche Eni). Questo interessa monitorare.
All’Occidente dei diritti umani in Kazakhstan non è mai importato nulla, se non fare affari con Nazarbayev. O ci siamo dimenticati che l’Italia nel 2013 deportò Alma Shalabayeva, moglie del’ex oligarca Ablyazov: un sequestro di persona per cui a Perugia adesso sono imputati cinque funzionari di polizia.
L’intervento russo difende anche questi interessi occidentali. Le multinazionali dell’energia e minerarie in questi anni hanno investito in Khazakistan 160 miliardi di dollari ma non significa che questo sia un Paese ricco, anzi gas e petrolio hanno accentuato le differenze di classe e di censo durante gli anni della dittatura di Nazarbayev. In troppi Paesi petroliferi come Iraq, Libia, Iran e Algeria, l’oro nero non ha portato quella ricchezza che tutti si aspettavano.
In realtà gli Usa si augurano di proteggere gli interessi energetici e minerari in Kazakhstan e allo stesso tempo sperano che i russi si impantanino in Kazakhstan. Insomma la botte piena e la moglie ubriaca: i problemi della Russia ai suoi confini devono mettere sotto pressione Mosca e far dimenticare il vergognoso ritiro americano dell’Afghanistan. Da tenere presente anche le frange locali jihadiste che possono essere strumentalizzate come avvenne in Uzbekistan nella valle di Ferghana oppure in Tagikistan durante la guerra civile tra clan, dove ci fu l’intervento dell’Armata Rossa. Quindi il terreno in Kazakhstan è favorevole sia alla destabilizzazione locale ma anche del regime di Putin. Non è una novità ma vale la pena tornare un attimo sul passato per capire cosa potrebbe accadere in futuro.
Nel 1978 Brzezinski, il consigliere di Carter, accolse un rapporto in gran parte elaborato dal celebre studioso Bernard Lewis – reso noto alla Trilaterale e al gruppo Bilderberg nel 1979 – in cui si sosteneva che l’Occidente dovesse incoraggiare i movimenti islamisti e i gruppi indipendentisti per promuovere la balcanizzazione del Medio Oriente e delle repubbliche musulmane dell’allora Unione Sovietica. Il disordine doveva sfociare in un arco della crisi, espressione che ebbe una grande fortuna.
L’invasione sovietica dell’Afghanistan diede un enorme impulso alla teoria di Lewis che vent’anni dopo fu anche l’intellettuale più influente nella decisione americana di invadere l’Iraq nel 2003. Ma allora mancava un attore che oggi non si può ignorare: la Cina.
E ora la balcanizzazione torna di moda. Le crisi in Ucraina, Bielorussia, Kazakhstan e tra Armenia e Azerbaijan sono viste dagli Usa come occasioni per destabilizzare la Russia odierna fastidiosamente alleata della Cina. Questo è il nuovo arco della crisi dove gli Stati Uniti, ritirandosi dall’Afghanistan in fretta e furia, si sono liberati dell’ipocrita fardello di dovere “democratizzare” un Paese già in buona parte in mano ai talebani. Missione fallita è vero, ma adesso il campo è più libero per manovrare nel cuore dell’Asia centrale, ovvero sull’asse che unisce l’Eurasia. Torkayev, che sta facendo fuori i vertici della sicurezza fedeli a Nazarbayev, è tra l’altro una figura di raccordo interessante perché viene dall’élite sovietica, conosce molto bene la Cina (parla mandarino) ma all’Onu ha trattato anche per il bando dei test balistici ed è stato pure vicepresidente dell’Osce. Insomma sa muoversi tra i punti cardinali del potere. Ecco un altro motivo per cui piace agli americani: può servire al tavolo a pranzo e a cena.
Perché il vero problema strategico del Kazakhstan e dell’Asia centrale, dal punto di vista americano, non è soltanto la Russia ma la Cina. Una componente fondamentale della strategia della Cina di Xi Jinping consiste nel superamento della dipendenza del commercio estero di Pechino dalle rotte marittime che possono essere bloccate dagli Usa e dai suoi alleati. Per questo gli accordi Cina-Russia sulla Belt and Road Initiative (Bri) sono importanti: oggi il 90% del commercio terrestre cinese con l’Europa avviene attraverso il territorio russo e centro-asiatico.
Fino alla rivolta del Kazakhstan, Mosca sembrava relativamente tranquilla riguardo alla stabilità e alle ingerenze esterne in Asia centrale ma adesso sente ancora di più tutto il peso di essere il principale garante della sicurezza degli stati della regione. Putin qui è sotto osservazione non solo degli Usa ma anche della Cina che vuole “strade sicure” per il suo commercio.
Ecco perché i colloqui di Ginevra fanno parte di un dossier più ampio, quello del “nuovo arco della crisi”, che oltre alla Russia coinvolge anche Pechino come convitato di pietra. Putin è quello che si gioca la posta più alta: a Ovest le tensioni sull’Ucraina possono spingere Svezia e Finlandia nella Nato e a Oriente deve dimostrare alla Cina di essere il vero “guardiano” dell’Asia centrale.