Quirinale. Sull’anomalia rappresentata da un’eventuale ascesa al Colle del Cavaliere poco c’è da aggiungere al molto che a proposito del leader di Forza Italia è stato detto e scritto negli ultimi trent’anni
Sul tavolo delle trattative per l’elezione del Presidente della Repubblica risaltano due autocandidature (fatto di per sé inedito nella nostra storia repubblicana). La prima candidatura è quella esplicita di Silvio Berlusconi; la seconda è quella implicita, ma non per questo meno evidente, dell’attuale Presidente del Consiglio Mario Draghi. Qualunque sia l’esito di questa “guerra dei nonni” (per riprendere il fulminante titolo del manifesto), essa pone urticanti dinamiche istituzionali.
Le due autocandidature pongono il nostro Paese di fronte a torsioni che è utile riproporre davanti all’opinione pubblica in questo scorcio di “campagna elettorale” quirinalizia.
Sull’anomalia rappresentata da un’eventuale ascesa al Colle del Cavaliere poco c’è da aggiungere al molto che a proposito del leader di Forza Italia è stato detto e scritto negli ultimi trent’anni; rimane semmai da rinnovare il monito a non sottovalutare le capacità di manovra del personaggio, specialmente sul finire di una legislatura come questa, contraddistinta dall’auge di un personale politico non propriamente esemplare.
Più ovattate, ma non per questo meno minacciose, le ombre che si addensano attorno alla prassi repubblicana del Paese sulla scia dell’autocandidatura
di Draghi. Per due ordini di motivi. Il primo, per il ricatto implicito che essa pone al Parlamento. Considerato infatti il potere assunto dalla figura presidenziale nei cascami della crisi italiana (il famoso presidenzialismo di fatto, ormai una realtà più che una possibilità), la mancata accettazione da parte dei partiti di maggioranza dell’autocandidatura di Draghi comporterebbe una sua delegittimazione anche come primo ministro. Un corto circuito non previsto dalla nostra Carta costituzionale, ma nei fatti operante: per via dell’impotenza dei partiti, e di una campagna mediatica che ha fatto di un presidente del consiglio incaricato, se capace, di risolvere alcuni problemi del paese poco meno di un Re taumaturgo, ai cui desiderata risulta adesso complicato opporsi.
Più insidioso ancora il secondo motivo. In caso infatti di una sua elezione al Quirinale, Draghi sarebbe il primo Presidente ad essere eletto sulla scorta di un dettagliato programma politico. Un precedente potrebbe essere trovato a prima vista nell’elezione di Giovanni Gronchi nel 1955. Ma in quel caso il programma – far seguire il disgelo costituzionale al disgelo bipolare – non precludeva nessuna formula di governo specifica; nessuna potenziale “coabitazione forzata” avrebbe potuto insomma prodursi, per dirla in termini presidenzialisti. Anzi, l’elezione dell’esponente della sinistra Dc ampliava nei limiti del possibile lo spettro delle potenziali soluzioni parlamentari “legittime” in diversi campi (eventuale rottura del “centrismo” e ingresso dei socialisti in maggioranza; politica estera di distensione; attuazione della Costituzione).
Con Draghi invece al Quirinale traslocherebbe non solo una personalità, ma anche un programma politico rigido e poco suscettibile di essere scalfito nel caso in cui le urne producessero maggioranze politiche ad esso avverse: quello del “vincolo esterno”, col suo portato di svalorizzazione del lavoro e subordinazione alla disciplina del mercato dei servizi pubblici essenziali, senza limite alla concentrazione e alla volatilità dei capitali.
Cosa accadrebbe in caso si producesse una maggioranza parlamentare con programma politico di segno opposto a quello presidenziale? Quale dei due poteri ne uscirebbe delegittimato? Con quali conseguenze?
Male farebbe la sinistra a non considerare questi aspetti, crogiolandosi nella consapevolezza che al momento il draghismo al Quirinale porrebbe problemi soprattutto alla destra nazionalista: c’è da sperare che prima o poi, più prima che poi, una critica di massa alle politiche egemoni negli ultimi anni venga messa in campo anche da sinistra.
Ma più in generale tutti i partiti sono chiamati a considerare che, vigente ancora la Carta del ’48, l’unico programma politico affidato alla presidenza della Repubblica dovrebbe consistere nel suo rispetto e nella sua attuazione.