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L’arresto di alcuni latitanti italiani rifugiati in Francia da decenni e protetti dal “lodo Mitterrand” è sì un’applicazione “rigorosa” della legge, attribuendo però alla pena una finalità “retributiva”, cioè “afflittiva”, del tutto estranea alla Costituzione, che le attribuisce solo finalità rieducative (quelle che, come ha scritto Sofri, la Francia aveva ampiamente raggiunto).
E’ stato così aggiunto un miserabile tassello alla versione che da decenni connota gli eventi di cinque decenni fa come “Anni di piombo”, dominati dal “terrorismo rosso”: cancellando sotto questa dizione sia la “Strategia della tensione” e le sue stragi sia le lotte e le conquiste di studenti, operai e popolo contro cui quella strategia era diretta. Una guerra – ancorché “non ortodossa”, come era stata definita dai suoi promotori – che lo Stato italiano ha condotto contro movimenti di massa, colpendo nel mucchio con sequele di stragi, mentre le formazioni armate, nate ai margini di quei movimenti, decidevano di “contrattaccare” con agguati contro uomini simbolo. Crimini da entrambe le parti: superfluo, ormai, fare comparazioni.
Ma nella strategia della tensione sono stati coinvolti molti corpi dello Stato, politici e istituzionali; e tutti ne hanno a loro modo approfittato, trovando poi conveniente non chiudere più quella fase, come sarebbe stato possibile e opportuno. Oggi Draghi e Cartabia non fanno che intascare la loro quota della rendita politica che quella non-decisione ha generato. E la “pena retributiva” sostituisce, per molti parenti delle vittime di un tempo, quel “risarcimento” che lo Stato avrebbe dovuto offrir loro con un processo di “riconciliazione”.
Condivido il dolore dei parenti delle vittime (tutte) del terrorismo, a partire dalla moglie e dalle figlie di Pinelli, vittime del terrorismo di Stato; e senza escludere la vedova e i figli del commissario Calabresi: so che cosa significa crescere senza un padre, anche se il mio

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Brevetti. In difesa di Big Pharma è rimasta fino all’ultimo la Commissione europea e i Paesi dell’Ue, tra questi il governo italiano. Draghi non ha ancora risposto al Comitato italiano

La decisione dell’amministrazione Biden è di estrema importanza e potrebbe rappresentare una svolta storica nella lotta contro la pandemia. È altresì il risultato dell’enorme pressione organizzata in tutto il mondo dalle reti associative attive in difesa del diritto alla salute, che hanno costruito alleanze con ampi settori del mondo scientifico, artistico e culturale. Vi è stato un susseguirsi impressionante di appelli in sostegno della moratoria: l’Oms, l’Unaids, l’Unitaid, la “Commissione Africana per i Diritti Umani”, 243 Ong e 170 personalità, fra cui numerosi premi Nobel. Prese di posizione che hanno rafforzato l’azione dell’ala sinistra del Partito Democratico statunitense verso il presidente.

Alla base della decisione di Biden vi sono anche ragioni di opportunità mediatica ed economica: nello scenario interno può rivendicare la propria coerenza con quanto dichiarato in campagna elettorale sulla necessità di una risposta globale alla pandemia; nello scenario internazionale si pone come il salvatore dell’umanità, rimette gli Usa al centro dello scenario mondiale e contemporaneamente risponde agli allarmi lanciati da diversi centri studi di economia, secondo i quali il crollo del sud del mondo – geografico ed economico – con la conseguente contrazione del mercato globale, avrebbe prodotto una danno economico enorme nei Paesi maggiormente sviluppati, primi tra questi gli Usa.

QUESTE REALI contraddizioni interne all’attuale capitalismo neoliberista, nulla tolgono né all’oggettività importanza delle decisioni della Casa Bianca, né alla possibilità che, grazie a tale scelta, molte, forse milioni, di vite umane possano essere risparmiate.

A difendere gli interessi di Big Pharma è rimasta fino all’ultimo la Commissione europea e i Paesi dell’Ue, tra questi il governo italiano; il 19 aprile il Comitato italiano impegnato nella raccolta di un milione di firme sull’Ice- l’Iniziativa dei cittadini europei – “Diritto alla cura. Nessun profitto sulla pandemia” aveva inviato al presidente Draghi una lettera con le firme di oltre cento associazioni nazionali, tra le quali tutti i principali sindacati, chiedendo che il governo appoggiasse la moratoria sui brevetti richiesta dall’India e dal Sudafrica con l’appoggio di un centinaio di Paesi, e che esercitasse tutta la sua influenza per obbligare la Commissione europea a modificare la propria posizione.

Stiamo ancora aspettando la risposta. Ora, dopo la decisione di Biden, dalla presidente della Commissione europea ai ministri italiani è un susseguirsi di dichiarazioni di disponibilità alla trattativa. Non esprimo alcun giudizio, saranno i lettori a valutare l’eticità di simili comportamenti; mi auguro solo che a queste tardive dichiarazioni seguano comportamenti conseguenti.

Fino ad ora ci siamo battuti perché avesse inizio la partita, ossia la discussione sulla moratoria; ora che la partita ha inizio il gioco si fa estremamente duro e c’è bisogno di tutti. Big Pharma si è già scatenata alternando dichiarazioni minacciose “con queste decisioni sarà più difficile sconfiggere la pandemia”, a lacrime di coccodrillo sulle conseguenze economiche di queste scelte, dimenticandosi non solo che questi vaccini sono stati prodotti con ampi finanziamenti pubblici – ad esempio secondo quanto riportato dal the Guardian il vaccino AstraZeneca è stato prodotto con il 97% di soldi pubblici o provenienti da enti di beneficenza – ma anche ignorando i profitti stratosferici realizzati in questi mesi e nei prossimi. Infatti, la proposta di moratoria non prevede un esproprio, ma anzi un risarcimento, da definire in ambito Wto, alle aziende possessori del brevetto.

PER CONTRASTARE questa azione lobbistica sarà fondamentale, nelle prossime settimane, il ruolo della società civile nel premere per una rapida e soddisfacente soluzione per la salute dell’umanità. E’ importante rafforzare da subito la raccolta di firme “Diritto alla cura. Nessun profitto sulla pandemia” per obbligare la Commissione e gli stati europei a modificare a 180° la propria posizione. Il tempo è un fattore fondamentale; è diverso raggiungere un accordo tra una settimana o tra sei mesi, ogni giorno che passa ci sono delle morti evitabili.

E’ necessario vigilare perché l’accordo non sia una semplice dichiarazione d’intenti che rimane poi irrealizzabile, come fu la dichiarazione di Doha del 2001, nella quale il Wto affermava che la tutela dei brevetti non avrebbe mai dovuto impedire ai governi di fornire la miglior assistenza sanitaria possibile ai loro cittadini. Parole sante, ma solo parole.

Quello per cui ci battiamo è l’affermazione del diritto alla salute per tutti, non un aumento dell’intervento caritativo. La carità è importante, ma non può sostituire la fruibilità di un diritto, può eventualmente rafforzarlo.

AI TEMPI DELLA pandemia da Aids, pur di mantenere i brevetti fu attivato il “Fondo Globale Aids Tbc Malaria” attraverso il quale raccogliere fondi da privati e da Stati per distribuire farmaci ai Paesi poveri. In questi casi è sempre il “ricco” che decide a chi dare e cosa dare: in Africa sono ancora milioni le persone Hiv+ che non possono curarsi. E’ la filosofia proposta dalla Fondazione Gates e sostenuta anche da Big Pharma, che oltretutto potrebbe capitalizzare un’immagine di buon mecenate.
Quello di ieri è un passo importante, forse storico, ma la strada è ancora lunga.

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Riflessione collettiva. Non è sufficiente invocare una cultura politica di sinistra. E’ il punto di arrivo, non di partenza. Dobbiamo chiederci come nasce una domanda di sinistra nel quotidiano

Un’opera di Idelle Weber

La lettura del documento “Governare la società del dopo Covid”, a cura del network “Ripensare la cultura politica della sinistra”, è salutare. Una riflessione collettiva sui temi analizzati potrebbe rappresentare un buon punto di partenza per la costruzione di una piattaforma di sinistra.

Le proposte sono di alto profilo e all’altezza dei tempi. Stato, diseguaglianza/e, ricomposizione sociale, accumulazione e capitalismo, mobilitazione sociale: grandi questioni di sfondo, ricomposte in un quadro organico. Più politica che politiche, più coordinate di sfondo che proposte operative (pur non del tutto assenti), ma con una trama unificante.

La diagnosi di partenza è quella del deficit di idee: sono stati persi troppi decenni (non anni, decenni) inseguendo parole d’ordine e proposte che, semplicemente, non sono di sinistra. Occorre rimettere le cose al loro posto. Se nel paese manca una destra liberale, non può essere la sinistra a occuparne il posto. Servono idee di sinistra, che però non camminano da sole. Nel paragrafo dedicato alla mobilitazione sociale si ribadisce la necessità di rinforzare i corpi intermedi e la rappresentanza, contro la narrazione di una politica disintermediata. Obiettivo, questo, tanto importante quanto sconsolante.

Lo stato della rappresentanza politica e l’inconsistenza dei processi di selezione della classe dirigente sono la plastica rappresentazione del flebile raccordo tra la politica che decide nei luoghi del potere e la domanda di sinistra diffusa nel paese. Il tema, diciamolo con chiarezza, non è invocare la società “buona” e contrapporla alla politica “cattiva”.

È, piuttosto, riconoscere che quel (poco o tanto) di valore che c’è nella società non alimenta materialmente la classe dirigente e la composizione della rappresentanza. I saperi diffusi non diventano potere costituito. La domanda di sinistra radicata nella politica del quotidiano non trova un’offerta di partito e una classe politica all’altezza delle aspettative. Per questo, si rifugia nell’astensione o si fa sedurre da troppo semplici proposte.

Le ragioni di questo mancato raccordo sono, in parte, contenute nel documento programmatico, ma si tratta di risposte parziali, come scrivono gli stessi firmatari : “Come arrivarci è certo una domanda difficile, ma qualcosa sappiamo, benché sia lecito chiedersi se siano immaginabili altri vettori in grado di supplire alla debolezza dei partiti.

Sappiamo che un partito si riconosce in una cultura politica condivisa circa l’ordine possibile della società e si organizza per promuovere le sue idee”. Non è sufficiente invocare una cultura politica di sinistra. Questo è il punto di arrivo, non quello di partenza. Dobbiamo piuttosto chiederci perché e a quali condizioni nasce una domanda di sinistra, nel quotidiano e nei vissuti delle persone.

Quali sono le condizioni materiali, sociali e organizzative che stimolano una riflessività di sinistra e una domanda sociale rivolta alle idee contenute nel documento? La risposta non può che essere una: quando le persone articolano un discorso pubblico – quindi potenzialmente valido per tutti – atto a soddisfare contemporaneamente un bisogno/interesse privato e un progetto pubblico.

La domanda di sinistra non deve caratterizzarsi per il sacrificio degli interessi oggettivi, di classe, etnia o genere: ma deve negoziarli in modo trasparente alla luce della loro valenza collettiva e a salvaguardia di chi non può difendere tali interessi, vuoi perché marginale e privo di potere, vuoi perché non ancora nato.

La domanda di sinistra è costruita da un impegno congiunto orientato a un futuro condiviso, valido qui e ora per i miei bisogni/interessi e domani per il mio “io futuro” insieme a “voi”. Ci sentiamo parte di un progetto collettivo con queste caratteristiche solo se esistono luoghi, spazi e oggetti mobilitanti, piattaforme e processi dove i bisogni individuali qui e ora si intrecciano con soluzioni collettive proiettate nel futuro.

In quali occasioni, oggi, abbiamo questa possibilità? Quanto spesso abbiamo occasione di sperimentarci, insieme ad altri, in azioni pratiche dove i nostri interessi incrociano soluzioni che chiamano in causa gli assetti sociali più generali e i bisogni di chi è privo di voce?

Oggi, la sfera privata del consumo e della riproduzione si è schiacciata sulla competizione di status, il cui valore sociale è la distanza guadagnata rispetto agli altri. La famiglia è il luogo per la mobilitazione di risorse private, il cui obiettivo è non precipitare lungo la stratificazione sociale o cogliere le poche buone occasioni offerte da un mercato del lavoro asfittico.

Per ripensare la sinistra, si sostiene nel documento, serve una nuova cultura politica basata su: “una capacità di critica dell’esistente e un impianto intellettuale predisposto a mantenere in campo un punto di vista alternativo. Il cambiamento delle cose si fa nelle cose, ma senza idee non si va da nessuna parte”. Ricordiamoci però che se le idee sono fondamentali, le condizioni quotidiane e materiali della loro genesi e diffusione lo sono anche di più.

Twitter: @FilBarbera

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Spagna . Il messaggio che viene lanciato dalla Ayuso al PP è netto: per seppellire il governo progressista di Sanchez e l’alleanza con Podemos su cui si basa è necessario far cadere ogni ambiguità e cavalcare la crescente rabbia popolare diffusasi in questo anno di confinamento

Murales

Ciò che è uscito dalle urne martedì scorso nella regione di Madrid è molto chiaro: ha vinto la destra e ha perso la sinistra. Meno evidente è forse la portata della sconfitta, che va detto con nettezza non riguarda solo il governo della regione, apparso fin dalla convocazione delle elezioni un dettaglio. Il voto della comunità di Madrid è destinato a scuotere tutti gli equilibri politici nazionali e forse avere anche conseguenze imprevedibili su quelli europei. Un po’ di chiarezza la fanno le dimissioni di Iglesias e il conseguente passaggio di consegne a Yolanda Diaz.

A lei è affidato il percorso e la responsabilità di ricostruire lo spazio politico di Unidas Podemos. Non sembra invece farsi largo fra i socialisti spagnoli, la forza che più è stata penalizzata dall’elettorato della comunità di Madrid, la consapevolezza che dalle urne emerge una nuova destra, guidata dal PP di Isabel Ayuso, un partito popolare che abbandona la sua faccia moderata e centrista, fondata sul rapporto con Ciudadanos, per assumere il volto di Vox, la destra neo franchista. Elettrici ed elettori hanno emesso un chiaro certificato di morte dell’operazione politica tentata nel 2014 dai poteri forti spagnoli, di dar vita, dopo la nascita e i successi di Podemos, a un partito moderato e di centro come Ciudadanos.

La crisi globale, ambientale, economica e sociale, che la pandemia ha solo fatto precipitare, ha ristretto, se non azzerato, gli spazi sociali, prima che elettorali, di una destra liberal e moderata. Il messaggio che viene lanciato dalla Ayuso al PP è netto: per seppellire il governo progressista di Sanchez e l’alleanza con Podemos su cui si basa è necessario far cadere ogni ambiguità e cavalcare la crescente rabbia popolare diffusasi in questo anno di confinamento. Una radicalizzazione la cui onda travolgerà oltre al governo anche la eterogenea maggioranza che lo sostiene, chiudendo la partita con l’indipendentismo non solo catalano.

Questo è il livello dello scontro con cui le sinistre, moderate o radicali che siano, devono fare i conti dopo questo voto di Madrid. Va detto con chiarezza che non è un fenomeno solo spagnolo, ma da Madrid parte un segnale a tutta la destra europea che può mettere rapidamente in crisi il tentativo di rilanciare il progetto europeo con il NextGenerationEU.

Sono quindi urgenti decisioni su come reagire a questa nuova destra e alla radicalizzazione dello scontro sociale che imporrà. Una prima scelta spetta a Sanchez e al governo che dirige: per fermare le destre conviene ridimensionare le ambizioni di trasformazione fin qui espresse dal governo progressista o al contrario rilanciarle ribadendo scelte programmatiche e alleanze? In altre parole facciamo di Sanchez il Draghi spagnolo in modo da ricreare spazi e credibilità ad una destra moderata o al contrario si rilancia l’accordo con Unidas Podemos e gli impegni presi con loro sulla transizione ecologica e sulla giustizia sociale?

L’impressione è che ridimensionare alleanze e programma aprirebbe le porte ad una sconfitta definitiva e di lungo periodo delle due sinistre. Si snaturerebbe non solo la svolta che Sanchez impose al Psoe vincendo le primarie e che mise fine ai governi di unità nazionale. Soprattutto liquiderebbe quella nuova Spagna invocata dal moto di indignazione che percorse tutte le città spagnole nel 2011 e a cui Podemos ha dato prima rappresentanza politica e poi portata al governo nazionale. Insomma i socialisti spagnoli non possono dopo il voto di martedì mantenere una ambiguità su questo terreno.

Comunque la si giudichi la scelta di Pablo Iglesias di abbandonare gli incarichi prima di governo e ora la guida del partito contiene una coerenza di fondo e cioè che lo spazio politico conquistato con la nascita di Podemos non lo si difende vivacchiando, ma compromettendolo con lo scontro sociale e politico che decide il futuro del paese. Nelle stesse dimissioni c’è la convinzione che l’alleanza fra il nuovo Psoe di Pedro Sanchez e la nuova Unidas Podemos guidata Yolanda Diaz va rilanciata. Ciò che soprattutto va evitato è svolgere questa discussione nel chiuso dei due partiti.

Essa per essere efficace e dare risposte all’altezza della nuova sfida che le destre lanciano, non può che aprirsi all’intera società spagnola, intrecciando le decisioni organizzative con quelle programmatiche. Va cioè ricostruita nella popolazione fiducia e speranza. Aprire una discussione di massa sulla transizione ecologica sul fatto che incamminandosi su quella strada può garantire non solo assistenza, ma anche giustizia sociale e lavoro stabile e con diritti è ciò che serve.

La sfida delle destre non si può vincere ridimensionando il progetto politico che ha unito le due sinistre. Va rilanciato e soprattutto bisogna farlo organizzando una grande partecipazione popolare.

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Nel giorno della festa dei lavoratori i dati Istat certificano una perdita di 900 mila posti di lavoro dall’inizio della pandemia.

Sono donne e giovani i più colpiti. La battaglia dei settori più sfavoriti per avere diritti e tutele: dai rider agli addetti dello spettacolo ai migranti.

Riders al Primo Maggio

Riportiamo da il manifesto del 1° Maggio 2021:
Lunedì 2 maggio sono quattro anni dalla morte di Valentino Parlato. Gli rendiamo omaggio con questo straordinario editoriale che scrisse il Primo maggio del 1972. Conserva intatta la sua valenza, anche in pandemia.

Nel testo fa riferimento alle polemiche suscitate dal primo editoriale del quotidiano “il manifesto” sul 1° maggio del 1971: era titolato “Contro il lavoro” non aveva la firma, era collettivo, ma venne scritto da Lucio Magri

Contro il capitale (di Valentino Parlato 1° maggio 1972)*

1° maggio. I problemi aperti dalla crisi del capitalismo, la stessa disoccupazione e la crescita enorme della popolazione inattiva si possono superare solo liberando la società da questo lavoro, che è il riflesso speculare, ma imposto con l’oppressione, del meccanismo di produzione e riproduzione del capitalismo

1° maggio. I problemi aperti dalla crisi del capitalismo, la stessa disoccupazione e la crescita enorme della popolazione inattiva si possono superare solo liberando la società da questo lavoro, che è il riflesso speculare, ma imposto con l’oppressione, del meccanismo di produzione e riproduzione del capitalismo

Il primo maggio dell’anno scorso pubblicammo un editoriale dal titolo «Contro il lavoro», «contro il lavoro – scrivevamo – per ciò che esso è e sempre sarà in una società capitalistica, in una società divisa in classi». Quell’articolo suscitò incomprensioni e molte reazioni negative: fummo accusati di luddismo, scarso rispetto delle forze produttive, marcusianesimo, pre o post marxismo a seconda delle letture dei nostri critici.

Quell’articolo aveva, forse, il torto di apparire un tantino ideologico. Ma, a un anno di distanza e con l’occhio più attento alla profondità dell’attuale crisi del capitalismo italiano, non verifichiamo forse che è proprio su questo lavoro che si incentra lo scontro di classe? Che questo lavoro è stato messo in questione dalle lotte operaie e che ora padroni e governo vogliono restaurarne la compiutezza, mentre gli operai vogliono rivoluzionarne la determinazione storica, cioè capitalistica?

È contro questo lavoro che si indirizzano le lotte alla organizzazione capitalistica del lavoro e quindi ai cottimi e ai ritmi, agli orari e ai turni, per l’ambiente e la salute, contro la determinazione padronale delle carriere e delle mansioni.

Ma oggi si verifica anche che i problemi aperti dalla crisi del capitalismo, la stessa disoccupazione e la crescita enorme della popolazione inattiva si possono superare solo liberando la società da questo lavoro. Questo lavoro è il riflesso speculare, ma imposto con l’oppressione, del meccanismo di produzione e riproduzione del capitalismo. Del meccanismo del profitto in fabbrica, dell’organizzazione del consenso e del mercato fuori fabbrica.

È attraverso questo lavoro che il meccanismo capitalistico genera le classi, la divisione tra gli uomini, un sistema piramidale di ineguaglianze. Un sistema generalizzato di diseguaglianza, che si riflette nella diversificazione della qualità dei beni che il capitalismo dà da consumare, nella diversificazione dei modi di vita che il capitalismo impone, nella gerarchizzazione, apparentemente razionale, di questa società.

 

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Recovery plan. Non c’è una svolta verde, ma un collage di iniziative legate agli interessi più importanti

 

Ci sono anche delle misure positive: investimenti nelle smart grid, elettrilizzatori per l’idrogeno, agrivoltaico e per le «comunità energetiche» (ma limitate i piccoli Comuni). Ma non c’è quella svolta verde che era attesa per questa occasione storica di voltare pagina verso un futuro più sostenibile.

L’obiettivo di riferimento per le rinnovabili nel settore elettrico, citato dal Ministro Cingolani (in attesa del nuovo Piano energia e clima) è ambizioso e condivisibile del 72% al 2030 e richiederebbe di installare impianti rinnovabili per circa 6 Gw all’anno, oltre sei volte quanto fatto nel 2020.

Questo obiettivo è di fatto demandato al 90% e più al mercato: cioè a una riforma per accelerare le autorizzazioni ed evitare, ad esempio, che per un impianto eolico ci vogliano anni e anni per autorizzarli. Ma una riforma non basterà da sola, perché il settore per anni è stato bloccato con norme retroattive sugli incentivi, burocrazia lentissima e dunque incertezza.

Un trattamento mirato (con successo) a bloccare il settore e a spaventare gli investitori, che è riuscito in questi anni a riportare una quota del mercato elettrico al gas fossile, inizialmente danneggiato dai pochi anni di crescita delle rinnovabili (2008-12). In questo modo il Piano lascia lo spazio a gas e idrogeno blu (da gas con Carbon Capture and Storage proposto da Eni) mentre per l’idrogeno verde sarebbe indispensabile una spinta ben più forte e certa alle rinnovabili.

In tema di mobilità urbana le cifre sono al di sotto di quello che servirebbe per far decollare il mercato dell’auto elettrica, mentre sulla mobilità urbana collettiva le cifre sono minimaliste e ai treni locali vanno una quota marginale rispetto all’alta velocità. Siccome gran parte delle emissioni di Co2 dal trasporto passeggeri si produce proprio in ambito urbano e metropolitano, l’ispirazione del Piano non sembra esattamente quella di dare priorità agli investimenti che riducono di più le emissioni (mobilità urbana elettrica pubblica e privata).

Sull’efficienza, mai citata nei capitoli riferiti all’industria, si proroga il superbonus per il settore edile senza vincolarlo, come sarebbe necessario, a un salto di almeno tre categorie di efficienza e non alle due attuali. L’agricoltura evidentemente non è considerata affatto un capitolo importante per gli aspetti ambientali e la parola agricoltura biologica non è mai nemmeno citata, eppure sarebbe un elemento qualificante di un «piano verde».

Così mentre si continuano ad autorizzare nuove trivellazioni a mare e impianti a gas, il rilancio delle rinnovabili necessarie a raggiungere gli obiettivi deve attendere una riforma che speriamo sia efficace: dunque la parte «green» è sospesa a questi cambiamenti. Nel frattempo, il Ministro Cingolani continua a far dichiarazioni scorrette sulla mobilità elettrica: certo, quando avremo il 72% di rinnovabili sulla rete sarà ancora meglio, ma già oggi con il mix energetico attuale, le auto elettriche consentono di ridurre le emissioni sia di Co2 che evitare quelle che sotto i nostri nasi attentano ai nostri polmoni. E questo vale anche in termini di ciclo di vita. Un messaggio, non nuovo da Cingolani, che suona come una dissuasione e, dati gli impegni limitati nel Piano, a rallentare il settore e a perder tempo. Forse è quello che serve a chi non ha mai puntato sulla mobilità elettrica e ora è in affannoso ritardo?

Dunque, non c’è una svolta verde, ma un collage di iniziative legate agli interessi più importanti. Così ieri gli attivisti di Greenpeace in una azione di protesta hanno rinominato i diversi ministeri, a partire dal «Ministero della finzione ecologica». La speranza è sempre quella di vedere qualche seria correzione di rotta.

L’autore è direttore Greenpeace Italia

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