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L'incontro. Bettini battezza l’alleanza. C’è anche Elly Schlein: «Dobbiamo unire le nostre lotte»

IL MANIFESTO di LE AGORA'

L'incontro via Zoom con Enrico Letta e Giuseppe Conte

 

«Giuseppe, io vorrei che tu, Elly ed io…». Enrico Letta, in una inusuale veste lirica, utilizza un sonetto di Dante per descrivere la coalizione che dovrà sfidare Salvini e Meloni alle politiche. Perché, come dice il leader Pd, «una maggioranza come quella di Draghi è unica e irripetibili, non dovrà ripetersi mai più».

OSPITI VIA ZOOM DELL’AGORÀ di Goffredo Bettini, i due leder di Pd e M5S – più la giovane promessa della sinistra ecologista Elly Schlein e Massimiliano Smeriglio – discutono per oltre due ore del centrosinistra che verrà, e delle ricette con cui renderlo appetibile a un’Italia sempre più disuguale, rassegnata, impoverita. Bettini parla dei due «decolli paralleli» di Pd e M5S che «devono avere un obiettivo comune di unità a partire dalle comunali», e assegna i compiti: bisogna mantenere «connotazioni distinte per evitare sovrapposizioni».

«Ognuno deve arare i terreni a lui più congeniali», avverte, ricordando la necessità comune di «mettere in forma politica i conflitti sociali», di «ridurre le distanze tra alto e basso, tra inclusi ed esclusi». C’è, grazie anche alla spinta radicale di Biden negli Usa, una condivisone con Letta e Conte sulla necessità di superare i vecchi paradigmi del centrosinistra, la sbornia liberista, di recuperare una funzione sociale, di «tornare a occuparsi del popolo, dei precari, dei non garantiti», come ricorda Nadia Urbinati che dà atto al M5S di aver cercato di interpretare «le emozioni di rabbia e disperazione» degli strati popolari».

CONTE LA SEGUE NELLA CRITICA al «primato dell’economia sulla politica», assicura che «non partiamo da zero, abbiamo condiviso con Pd e sinistra l’esperienza sul campo del mio secondo governo», ricorda che su alcune tipiche distinzioni destra/sinistra (come progresso vs conservazioni o egualitarismo vs gerarchia) il M5S è stato storicamente più a sinistra che a destra, ma rilancia la vocazione «trasversale e popolare» del suo nuovo M5S. «Non lasceremo alla destra il tema dell’identità, delle tradizioni popolari, o il blocco sociale dei lavoratori autonomi».

Alla fine, dopo un black out della connessione internet (Bettini evoca ironicamente un «complotto» contro Giuseppi) torna per dire che «avrete un M5S rigenerato, che ci sarà, col suo Dna». La connessione cade ancora, Letta sorride: «Ha detto che il Movimento ci sarà, ottimo risultato». E Bettini: «Senza Casalino le piattaforme di Giuseppe non funzionano…».

Il leader Pd è il più esplicito nel disegnare un campo largo progressista, che ribattezza «Piazza Grande» in omaggio al suo predecessore Zingaretti. «Questa piazza si costruisce con empatia, innanzitutto tra di noi, tenendoci per mano. Gli italiani si fideranno solo se vedranno persone che si stimano, si vogliono bene, il contrario dell’odio che ha abitato tante volte nel centrosinistra».

UN MESSAGGIO QUASI prepolitico. Cui segue una riflessione sulla svolta di Biden: «I democratici Usa, e anche io, hanno creduto che bastasse investire sulla locomotiva e i vagoni avrebbero seguito. Invece i vagoni- in senso sociale e geografico- si sono staccati e ora bisogna modificare l’ordine delle cose, la locomotiva deve stare in fondo e spingere». Per Letta, dopo la «convergenza di azione» tra Pd e M5S avvenuta sotto il governo Conte, ora serve una «convergenza di pensiero». E assicura: «Noi ascolteremo con umiltà, il nostro non deve più essere un partito antipatico, ma che soffre e spera con le persone».

Le spine delle mancate alleanze alle comunali d’autunno sono un convitato scomodo, che rischia di appannare il pomeriggio di amorosi sensi. «Sarebbe un peccato se, rispetto alle amministrative, non si riuscisse a concordare alcuni passaggi insieme, anche se credo che i tempi non siano ancori maturi per poter varare un’alleanza a tutto tondo col Pd», aveva detto Conte in mattinata. «Le amministrative sono solo una tappa intermedia del percorso che deve portarci uniti alle politiche del 2023 per avere la maggioranza», risponde Letta.

SCHLEIN PROPONE: «Bisogna ricostruire un campo nel suo insieme, le singole ristrutturazioni dei partiti non bastano. Su lavoro, ambiente e disuguaglianze abbiamo idee comuni, i giovani ci chiedono di unire le lotte, una visione comune» A Renzi ci pensa Bettini. «Non dialogheremo con chi mette in discussione la nostra alleanze, con chi fa azioni di disturbo per rafforzare il suo orticello». Conte e Letta, entrambi cacciati da palazzo Chigi dal rottamatore, non hanno bisogno di aggiungere una virgola. Il ticket dei due ex premier verso il 2023 è partito.

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L'intervista. «Il capitalismo va riformato, lo dice anche il Papa, solo in Italia chi lo afferma crea scandalo. La casa della sinistra è il Pd, ma siamo da troppo silenti. È ora di battere un colpo»

 

Goffredo Bettini. Che giudizio dà sul testo finale del Pnnr Recovery? Ci sono differenze sostanziali rispetto a quello di Conte?

È un testo buono. Riprende sostanzialmente l’ultima stesura del piano del governo Conte II, con alcuni rafforzamenti e miglioramenti. Apprezzabile quello sulla garanzia dei mutui per i giovani. Il poco spazio per un dibattito pubblico e istituzionale, dipende anche dal fatto che abbiamo perso tre mesi, per una crisi politica irresponsabile. Ora, si tratta di valutare bene la destinazione dei 30 miliardi che si aggiungono alle risorse del Recovery. Vanno rafforzati gli investimenti al Sud, per le aree interne, per l’adeguamento e l’innovazione di alcuni servizi fondamentali, come gli asili nido. E poi c’è il capitolo delle riforme. Decisiva rimane quella del fisco; che deve essere progressivo, difendere i ceti che producono, stroncare l’evasione fiscale, limitare e bonificare le rendite e il parassitismo. Si può fare entro luglio. E questa volta mi fa piacere dirlo: ce lo chiede l’Europa!

Renzi adesso non critica lo scarso coinvolgimento del Parlamento. Dimostra quanto fossero strumentali le critiche a Conte?

Si. Molte critiche più che al merito, appartenevano ad una sorta di “guerriglia” politica. Renzi, e non solo lui, dicevano: “Mes o morte”. Sente più parlare del Mes?

Chiariamo un punto. C’era dietro la crisi del Conte II solo la necessità di cambiare il timoniere, metterne uno con una reputazione più solida in Europa? E chi oltre a Renzi, Lega e Forza Italia ha lavorato in questa direzione?

Si è svolto tutto alla luce del sole. Non solo alcuni partiti hanno spinto per la caduta di Conte. Ma anche le proprietà di molti grandi giornali, la nuova direzione di Confindustria, la rete fittissima di interessi imprenditoriali e professionali del Nord. Ma non vorrei che il solo parlare di forze sociali ed economiche che si sono mosse, riproponga l’accusa di fantasticare su possibili “complotti”. Termine che non ho mai usato. Quindi mi tengo prudente: il governo Conte II è morto di freddo.

È ragionevole e opportuno che Italia Viva sia considerata parte del centrosinistra, a partire dalle comunali?

Il campo democratico e antisovranista più è largo e meglio è. Solo chi coltiva pregiudiziali o mira a fomentare conflitti, è estraneo alla sua natura pluralista ma unitaria. Dire: ci sto, ma non voglio i 5Stelle è inaccettabile.

Che giudizio dà della coabitazione al governo con le destre? È una situazione che paralizza il Pd e la sua azione politica?

È una condizione di emergenza e transitoria. Guai a dargli un valore strategico. Oggi è necessario uno sforzo comune per vaccinare gli italiani e mettere al sicuro la ripresa economica. Poi occorre prepararsi alla fase successiva, che inevitabilmente contrapporrà i progressisti ai sovranisti. E poi come ci si può affidare ad un governo di lunga durata con dentro Salvini, che vuole sfiduciare Speranza e raccogliere firme contro i provvedimenti del primo ministro che dovrebbe sostenere?

Forza Italia si sta dimostrando intrinsecamente diversa dai sovranisti e quindi potenziale vostra alleata?

Ho sempre pensato che Fi sia diversa dai sovranisti. Ma vedo che ogni volta che Salvini alza la voce si adeguano.

Sulla gestione Covid ha visto un cambio di passo? La sinistra rischia di essere considerata troppo lontana dalla disperazione delle categorie costrette alla chiusura?

Si devono aprire al più presto le attività, sulla base della curva dei contagi. Oggi si impongono restrizioni. Se la situazione cambia in meglio esse andranno superate. Occorre evitare la confusione che crea la Lega, cantando vittoria su ovvietà ripetute più volte da Speranza: che le decisioni sono suscettibili di progressive modifiche.

Letta è alla guida del Pd da un mese e mezzo. Grandi segnali sulla parità di genere e sui diritti civili, nel partito sembra però offuscata la questione sociale.

Letta sta lavorando bene. Ha confermato la strategia politica del precedente gruppo dirigente, con alcune innovazioni positive. L’attenzione ai valori costitutivi del Pd e alla riforma del partito. Ha anche difeso l’impianto socialmente avanzato del Recovery, ponendo il tema direttamente a Draghi.

C’è bisogno nel Pd del 2021 di un ritorno ad una critica del capitalismo? Come si fa uscire realmente il Pd dalle ZTL?

Ho parlato più volte dell’esigenza di riformare il capitalismo. Sono le questioni che si discutono in tutte le socialdemocrazie occidentali, tra i democratici di Biden e nel mondo cattolico guidato da Papa Francesco. Solo in italia suscitano qualche scandalo. Siamo vittime di 30 anni di egemonia liberista. Senza un ruolo regolatore della politica, le logiche spontanee del turbocapitalismo porterebbero all’insostenibilità sociale per le troppe disuguaglianze e allo scasso dell’ecosistema.

Il Pd è ancora il contenitore adatto per una sinistra che si pone queste sfide?

Letta ha riproposto un Pd inclusivo. Una sinistra moderna e rinnovata ne è parte fondamentale. Invece, è da tempo troppo silente e deve battere un colpo più forte. L’area politica e culturale delle Agorà si muove in questa direzione: si trova pienamente a suo agio nel Pd, fiduciosa in un reciproco ascolto delle sensibilità diverse che lo costituiscono, che non c’è stato nei due anni passati.

Che futuro politico vede per Nicola Zingaretti?

Mi pare ora convintamente impegnato nel governo della Regione Lazio con risultati eccellenti.

Pd-M5S. Anche Letta parla di alleanza strategica. Eppure sul campo non si vedono chiari segnali in quella direzione. Anzi, alle comunali solo a Napoli è verosimile un’intesa.

Il processo è difficile. Va conquistato città per città. Mantenendo l’obbiettivo unitario nazionale, ma rispettando il grado di maturità delle intese possibili in ciascun territorio.

Conte farebbe meglio a farsi un partito suo dopo le vicende di Casaleggio e Grillo e il caos che regna sovrano? Oppure deve ristrutturare il Movimento?

Conte rende un servizio a tutti se guida proprio in questa fase difficile il Movimento 5Stelle. Quello che lei definisce caos potrebbe portare invece ad un soggetto politico più forte, consapevole e di governo. Che non disperda le innovazioni migliori del suo percorso passato.

Fuori da Palazzo Chigi lei vede realmente un futuro politico per Conte? O la battaglia politica nel fango è fuori dalle sue corde?

Fuori da Palazzo Chigi lo vedo sereno e voglioso di fare. Tenace e combattivo. Corretto, ma per nulla restio a misurarsi con la durezza della politica.

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Memoria. Parliamo di ben 49 anni fa e per gli altri di 40 anni fa; parliamo di persone che in questi lunghi decenni hanno ricostruito a fatica la propria esistenza lontano dalle luci della ribalta

Una riunione di gabinetto all'Eliseo

Una riunione di gabinetto all'Eliseo  © LaPresse

Pensavamo di essere noi quelli capaci di rievocare, con il nostro 50° anniversario, gli anni Settanta. E invece no, a suo modo- non da una prospettiva storica ma con una vendetta storica – si è mosso nelle stesse ore il governo italiano che ha ottenuto l’arresto in Francia di sette ex militanti delle Br – tre risultano in fuga – e uno di Lotta continua.

Protagonista questa coalizione onnivora di governo che, in pandemia, tiene dentro tutto, centrosinistra, centro, centrodestra e destra razzista, avvalendosi perfino dell’«opposizione di sua maestà» dell’estrema destra di Fratelli d’Italia. Tutti plaudenti l’operazione “Ombre rosse” che, è bene ricordarlo, è stata insieme battaglia populista-giustizialista di Salvini ministro degli interni nel Conte 1 e poi richiesta dal ministro dei 5Stelle Bonafede a riprova del giustizialismo populista.

A cosa possa servire un tale iniziativa se non a cementare questa coalizione indefinibile, il cui unico vanto per ora è la quantità del fondo europeo da spendere, non è dato capire. Senza naturalmente sottovalutare i crimini gravi che agli accusati vengono contestati, ci si chiede infatti che cosa rappresenti realmente una giustizia che scatta ad orologeria ma si rivela una giustizia senza tempo, infinita e politica.

Perché, esemplifichiamo sulla figura di Pietrostefani che ha 78 anni ed è gravemente malato – ma non riguarda solo lui la distanza temporale -, ci troviamo di fronte a vicende e crimini come l’omicidio Calabresi: è del 1972.

Parliamo di ben 49 anni fa e per gli altri di 40 anni fa; parliamo di persone che in questi lunghi decenni hanno ricostruito a fatica la propria esistenza lontano dalle luci della ribalta.

Mentre «trionfa Macron», sempre più in difficoltà al proprio interno, che cancella l’asilo concesso da Mitterrand ma avverte: «Vi ho inviato questi dieci, ora la vicenda è chiusa». Riecco dunque immancabili le Brigate rosse. Un abuso di memoria, una strumentalizzazione che si avvia con questa sceneggiatura dell’«arresto dei brigatisti», come se davvero fossero una minaccia cogente, ombre rosse sul nostro incerto presente e su quello dello Stato.

Insidiato invece da ben altre forze che hanno devastato e privatizzato i presidi pubblici. Viene allora legittima una domanda. Come mai sulle stragi fasciste degli anni 60-70 che hanno visto un coinvolgimento diretto di corpi dello Stato italiano, impera ancora una fitta nebbia che, nell’impunità, azzera ogni memoria – siamo il Belpaese delle stragi impunite, con tanto di Commissione parlamentare intestata – mentre per la lotta armata di matrice rossa tutto si conosce e tutti i colpevoli o sono morti o hanno scontato decenni di galera e li stanno ancora scontando?

L’operazione di decontestualizzare le vicende sembra completa e i crimini tutti eguali. No, quelli che hanno visto lo Stato connivente che invece della democrazia costruiva Gladio e finanziava la manovalanza nera stragista, sono archiviati – per non dire delle stragi nazifasciste della Seconda guerra mondiale, finite nell’«armadio della memoria» per le quali aspettiamo, come sa la Procura militare, ancora le riparazioni dalla Germania. La storia italiana dal dopoguerra oggi è stata questo.

Attenzione allora a perseguire una giustizia politica da fiction televisiva motivata con la ragion d’emergenza. Negli anni Settanta ad ogni emergenza seguì altra emergenza, e ciascuna di esse comportò una riduzione delle garanzie fondamentali, una compressione dello stato di diritto con violazione dei diritti soprattutto nelle prassi giudiziarie; fin allo snaturamento dei processi come luogo «terzo» e retrogradato a luogo di lotta a un fenomeno non altrimenti affrontato, soprattutto sul piano politico. Su queste ambiguità si attivò la «dottrina Mitterrand» dell’asilo, alla fine indirettamente accettata anche dall’Italia.

La distanza de “Il manifesto” dai protagonisti della lotta armata è stata ed è profonda: per noi ogni processo rivoluzionario o è di massa e cambia la natura del potere o è sostituzione arbitraria di leadership; «A chi giova?» si chiedeva Rossana Rossanda nell’editoriale del 18 maggio 1972 sul delitto Calabresi, per il quale intravvedeva il tentativo di aprire un varco ad un sistema autoritario e insieme la disarticolazione del movimento di massa e la messa nell’angolo della nuova sinistra.

Questa è stata la critica durissima che noi abbiamo ripetutamente rivolto alla lotta armata, questa è la responsabilità che porta, insieme alla nostra incapacità a costruire una alternativa politica. Consapevoli di questo non abbiamo però mai nascosto in primo luogo a noi stessi, il fatto che ci trovavamo di fronte ad avvenimenti – certo sbagliati e scorciatoie scellerate -, ma di natura politica.

Per i quali trovare espedienti giustizialisti, come fu il “Teorema Calogero”, era vergognoso. La soluzione doveva e deve ancor essere politica. Una lacerazione nel tessuto sociale c’era effettivamente stata e una lacerazione politica si era consumata e andavano comprese le ragioni e riannodati i fili.

La «soluzione» che ora arriva con l’operazione “Ombre rosse” ad anni di distanza sembra aver dimenticato tutto ciò. Invece proprio la motivazione politica di quegli episodi richiede che il tema sia affrontato anche e soprattutto sul piano politico. La risposta carceraria a vicende di trenta o quarant’anni fa stride proprio con quell’impostazione di reinserimento sociale che ogni esecuzione penale, secondo la Costituzione, deve avere.

Occorrerebbe una capacità politica ‘lata’ – si parla di amnistia, ma questo parlamento non la voterebbe mai – per trovare quel necessario equilibrio tra l’affermazione della negatività di quanto vissuto da chi di tali vicende è stato vittima, e il riconoscimento che la stessa vita vissuta fuori dal proprio contesto e in maniera visibile al Paese di accoglienza nonché positiva e rispettosa delle sue regole non può non aver valore nella valutazione odierna, anche perché anch’essa non è stata priva di dolore.

Riconoscere insomma il principio di “verità senza vendetta”, penso all’insegnamento che ci viene dall’esperienza della lotta d liberazione in Sudafrica. Questo può dare oggi l’indicazione affinché ci si avvii lungo vie diverse, che non interrompano inutilmente percorsi di vita.

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50 anni. Il manifesto va oltre l’impegno informativo, è qualcosa di più di un semplice quotidiano. È una idea, una scuola, un sentimento, un cuore collettivo e pulsante

Allo scoccare del mezzo secolo, per quegli strani scherzi del tempo, succede che le infinite, piccole e grandi storie, che hanno attraversato gli anni, diventano Storia.

Così, un consueto compleanno può assumere un carattere speciale, un rilievo anche simbolico, a metà strada tra magica alchimia e concreta determinazione.

Con il passare del tempo, gli anni trascorsi al manifesto sono diventati via via sempre più preziosi. E mi sono resa conto che se il tempo consumava noi, che realizzavamo e facciamo ancora oggi il giornale, «lui» invece non invecchiava, perché in grado di rinnovarsi.

Ora, che compie 50 anni, ha poche rughe, è in forma, forte, tenace. Combattivo come il primo giorno, quel 28 aprile del 1971 che è ormai la data di una storia giornalistica così lunga da rendere il manifesto, tra i quotidiani nazionali, il più longevo dopo La Stampa e il Corriere della Sera.

Il suo intreccio di ideali vive nel cuore e nella mente di milioni di persone; una storia politica maturata nel 1969 con l’omonima Rivista e subito dopo con la nascita del gruppo extraparlamentare; una vicenda collettiva, di una comunità di donne, uomini, ragazze, ragazzi e esponenti della vecchia guardia, che ci sostengono nella indefessa convinzione che un mondo diverso sia possibile.

Cinquant’anni fa nessuno mai avrebbe immaginato che la grande corazzata del Pci sarebbe sprofondata e il fragile vascello del manifesto gli sarebbe sopravvissuto. Se questo è accaduto, verosimilmente è perché quel ramo, che si separava dal grande albero, già si predisponeva all’innesto, alla contaminazione feconda con l’onda d’urto travolgente del ‘68, coniando, con l’invenzione di un quotidiano, una nuova, originale forma della politica.

Fu un incontro di reciproco, ricambiato amore che, nonostante tutto, traguarda ora il mezzo secolo.

Arrivare fin qui è stato un laico miracolo: l’esistenza del manifesto è segnata da momenti duri, difficili, perfino traumatici. Non una, ma più volte, siamo stati sul punto di chiudere definitivamente la nostra avventura.

Certamente, come conseguenza della crisi della sinistra italiana – e mondiale – incapace di immergersi e nuotare nei cambiamenti ideologici, sociali, culturali, economici che hanno caratterizzato la fine del Ventesimo secolo e i primi venti anni dei Duemila; ma anche a causa di

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Ecco la lettera inviata da alcuni personaggi del mondo della politica, della cultura e dello spettacolo al segretario del Pd sulla questione dei migranti, che ogni giorno muoiono  nel Mediterraneo.

Caro Letta, mobilitiamo l’Europa per salvare le vite dei migranti in mare

Caro Enrico Letta,

ci rivolgiamo a lei nel ricordo dell’operazione Mare Nostrum che decise meritoriamente di promuovere nel 2013 quand’era presidente del Consiglio. Una scelta che fu dettata dall’urgenza di salvare delle vite umane, e che proprio per questo venne assunta unilateralmente, senza attendere il pur necessario concorso dell’Unione Europea.

Oggi nel Sud Mediterraneo si continua a morire annegati in assenza di una flotta di imbarcazioni dedicate al salvataggio. Un’omissione di soccorso che viola il Diritto internazionale del Mare e pesa sulle nostre coscienze. Non solo Frontex ha interrotto il presidio navale nel Canale di Sicilia, ma la preziosa attività delle ONG, che tentano di esercitare un ruolo di supplenza dacché Mare Nostrum è stata revocata, subisce continui ostacoli. 

Non si può indugiare oltre. In attesa che l’Europa intraprenda un’azione comune, in attesa che si realizzino gli auspicati corridoi umanitari dalla Libia, occorre che l'Italia ripristini subito unità di soccorso marittimo – composte, come fu per Mare Nostrum, da imbarcazione della Marina Militare e della Guarda Costiera - per fermare la strage in corso.

Nella sua veste di segretario del Partito Democratico, le chiediamo di farsi tramite presso il governo affinché non esiti ad avviare tale operazione umanitaria. Qualunque scelta in merito alle politiche migratorie del nostro Paese viene dopo. Prima viene l’obbligo del salvataggio. 

Firmato:

* Alessandro Bergonzoni, Rosy Bindi, Emma Dante, Carlo Ginzburg, Gad Lerner, Stefano Levi della Torre, Luigi Manconi, Emma Marrone, Valeria Parrella, Giuliano Sangiorgi, Elena Stancanelli, Sandro Veronesi 

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L’ìncipit di Mario Draghi ieri alla Camera, avrebbe potuto fare sperare a qualche ingenuo ascoltatore che si potesse aprire un varco nel grigiore dei discorsi dei capi di governo.

Quel suo contrapporre la viva sofferenza di milioni di persone all’aridità di cifre e tabelle, poteva lasciare intendere che finalmente si assumesse la drammaticità della situazione e le sue conseguenze sul piano umano come il centro del problema cui il Piano governativo dovesse porre rimedio.

L’illusione è durata un attimo. Persino l’accenno al 25 aprile, nel corso delle cui celebrazioni Draghi aveva fatto un discorso non retorico, è stato subito soffocato dalla scontata esortazione degasperiana all’abbandono degli interessi particolari per il bene del paese. Il resto del suo discorso ha chiarito che la matrice tecnocratica del governo, che Draghi più di Conte impersona, ma senza inversioni di tendenza, non ammetteva sorprese.

Ed ecco quindi, dopo le correzioni dell’ultima ora, che hanno spinto le poche opposizioni parlamentari presenti a chiedere un rinvio negato per la lettura di un testo di più di trecento pagine, che abbiamo assistito all’illustrazione di un Piano senz’anima.
Non differisce nella logica dalle versioni precedenti, se non nello spostamento di qualche allocazione delle risorse disponibili. Ribadisce le sei note «missioni».

Parla delle riforme di «contesto» -– Pubblica amministrazione, Giustizia, semplificazione della legislazione (quindi dei controlli su appalti e concessioni), promozione della concorrenza – su cui Draghi avrebbe impegnato la sua parola con Bruxelles, vista la loro indeterminatezza. Ma nulla dice su quella più necessaria e urgente: la riforma fiscale.

Ne emerge un quadro in cui le riforme sociali sono espunte, restano gli ammodernamenti di sistema. Non a caso la vexata quaestio della governance (il pudore di Draghi a usare la terminologia inglese è più comico che ipocrita) viene risolta sotto il comando del Mef e un’articolazione decisionale affidata ai Ministeri a guida tecnica. Le parole conclusive del suo discorso sono dedicate a un ottimismo di facciata sulla realizzabilità del Piano.

Resta un mistero come possa generare entusiasmo un progetto che in partenza, se tutto dovesse andare bene, compresa la congiuntura internazionale e il quadro sanitario, prevede che ci serviranno quattro anni e 191,5 miliardi dalla Unione europea per raggiungere la situazione occupazionale che avevamo nel giugno del 2019, già in fondo alle classifiche europee, soprattutto in tema di occupazione giovanile e femminile. Non sarà certo una visione familistica – il citato Family Act – ad annullare le nostre distanze su questi due fronti.

Per farlo servirebbe un’attivazione generale delle energie della società, a cominciare dai punti di maggiore sofferenza. Facendo di questi la rampa di lancio per un modello alternativo di sviluppo. In sostanza le missioni verticali quali la trasformazione ecologica, come la digitalizzazione, come la sanità devono incrociarsi ed essere lette attraverso la dimensione orizzontale dei territori. Si scoprirebbe allora che il centro di questo piano dovrebbe essere la rinascita del Mezzogiorno.

La ministra Carfagna si mostra felice del 40% delle risorse del Recovery indirizzate al Sud. Ma ce ne vorrebbero assai di più. Dice che 82 miliardi che sarebbero ora impiegati in cinque anni non si sono mai visti. Strano modo di fare i confronti. L’intervento della Cassa per il Mezzogiorno – con tutti i suoi difetti – si è articolato lungo 58 anni con diverse intensità per un complesso di 342,5 miliardi di euro e il Sud, anche e sebbene con la dolorosa migrazione al Nord, è stato motore decisivo dello sviluppo del nostro paese, particolarmente tra il 1950 e il 1973, accorciando le distanze in termini di Pil pro capite con il Nord. La Svimez calcola che ogni euro di investimento al Sud generi circa 1,3 euro di valore aggiunto per il Paese, e che circa il 25% di questo ricada al Centro-Nord. Molto meno avviene all’incontrario.

Comunque, dati i rendimenti decrescenti al crescere dello stock di capitale, si determina un moltiplicatore in discesa al Nord e in salita al Sud. Quale migliore territorio che non il Sud per una vera trasformazione ecologica che punti all’idrogeno verde, ad una riconversione produttiva a cominciare dall’Ilva di Taranto, superando l’aspro conflitto fra salute e lavoro?

Non si tratta di collegare qualche porto, ma di pensare a un’altra politica, in tutti i sensi, dell’Italia e dell’Europa nel Mediterraneo. Anche negli Stati uniti si è aperto un dibattito sull’«American Rescue Plan», proprio sul concetto di infrastruttura.

Bernie Sanders ha detto che non bisogna solo garantire le risorse per la infrastruttura fisica, «ma altresì per quella umana a lungo trascurata». Ma per farlo anche da noi, non bisognerebbe puntare sulla istruzione «professionalizzante» ma su quella che forma dei cittadini capaci di pensare oltre l’esistente.

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