Mediterraneo. Le immagini dei gommoni che si aggirano tra i corpi senza vita di uomini e donne che speravano di salvarsi mettendosi nelle mani dei trafficanti, ancora l’unica possibilità di scappare, dovrebbero spingere governi e Ue ad attivare subito un piano di evacuazione delle migliaia di persone prigioniere delle milizie, per evitare che debbano scegliere tra la violenza e il pericolo di morte
Chissà se il premier Draghi sarà ancora soddisfatto del suo accordo con la Libia dopo la strage di esseri umani causata proprio da quell’accordo. Chissà se il nostro governo europeista interverrà per richiamare l’Ue, dato che Frontex sapeva e non è intervenuta.
Se tutto il mondo ha potuto vedere quali sono le conseguenze del cinismo italiano ed europeo è grazie ai «buonisti» della Ong Sos Mediterranèee, che hanno provato ad aiutare quelle imbarcazioni in fuga.
Il leader dei sovranisti nostrani, il «duro» Salvini, che accusa chi salva vite umane di essere responsabile di quelle morti, dovrebbe vergognarsi insieme ai tanti che, con responsabilità diverse, hanno contribuito in questi anni a consegnare alle milizie e ai trafficanti libici il destino di migliaia di persone in fuga da una guerra civile che abbiamo contribuito ad alimentare.
Per chi si ritrova prigioniero in Libia le opzioni sono due: tentare la fuga, rischiando la morte, o restare alla mercé della violenza organizzata, sdoganata anche dal Memorandum siglato dal nostro governo.
I governi europei, quelli che si ergono a giudici di chi vìola i diritti umani, davanti alla cancellazione di quei diritti si girano dall’altra parte e lasciano che siano le milizie ad occuparsi di questa umanità evidentemente per loro «meno umana».
La Libia non è un porto sicuro, ha ribadito più volte l’Alto Commissario Onu Filippo Grandi. Solo nel 2021 più di 6 mila persone sono state catturate con imbarcazioni libiche pagate dal nostro governo e riportate in lager dove è noto a tutti, anche ai nostri ministri, che le persone subiscono trattamenti disumani e degradanti.
Ma il Governo continua a fare affari con quel Paese, dichiarando che fermare quelle persone in fuga è nel nostro interesse, anche sapendo a che destino vanno incontro. Argomenti non dissimili dalla «difesa delle frontiere della patria» proclamata dal leader leghista per giustificare il sequestro di persona di cui dovrà rispondere ai giudici di Palermo.
Il Parlamento italiano deve istituire subito una Commissione d’inchiesta sull’accordo Italia – Libia e sulle responsabilità del governo nelle stragi e nelle violenze perpetrate.
Le immagini dei gommoni che si aggirano tra i corpi senza vita di uomini e donne che speravano di salvarsi mettendosi nelle mani dei trafficanti, ancora l’unica possibilità di scappare, dovrebbero spingere governi e Ue ad attivare subito un piano di evacuazione delle migliaia di persone prigioniere delle milizie, per evitare che debbano scegliere tra la violenza e il pericolo di morte.
Purtroppo finora ha prevalso il calcolo elettorale e l’assenza di coraggio e intelligenza politica, oltre che di un briciolo di coscienza, anche nelle forze democratiche.
Servono a poco quote simboliche per i cosiddetti corridoi umanitari, praticati peraltro dalle associazioni religiose e non dai governi. Dimostrano che si può fare, si possono salvare le persone, ma che a farsene carico devono essere i governi, con programmi adeguati. L’Ue si è arresa, e il Patto Europeo su migrazioni e asilo lo dimostra con chiarezza, all’ideologia dei partiti sovranisti e razzisti. Era l’aprile del 2015, solo 6 anni fa, quando a seguito dell’ennesima strage il Consiglio Europeo fu convocato d’urgenza.
Iniziò con un minuto di silenzio e si concluse con l’impegno di fermare le stragi. Il minuto di silenzio dura da 6 anni e non servono lacrime di circostanza e finte promesse. Bisogna agire subito: evacuazione e chiusura dei campi per migranti in Libia e un programma di ricerca e salvataggio europeo. Fermare la strage è possibile!
Commenta (0 Commenti)Clima. Serve una «Costituzione che istituisca un demanio planetario con inventario non solo di diritti universali ma di beni comuni, inappropriabili da parte di nessuno
Non è una «giornata» che si può celebrare impunemente la «giornata della Terra» messa in calendario per oggi, 22 aprile. È infatti il secondo anno che cade in piena pandemia e non ci si può prendere cura della Terra senza far tesoro della lezione che ne è venuta: è sotto gli occhi di tutti come essa ci abbia preso di sorpresa e come sulla base delle risorse e delle culture disponibili non siamo minimamente in grado di reggere alla prova. Basta vedere le immagini della infinita distesa di morti malamente inumati nelle foreste a questo scopo disboscate del Brasile, per capire che senza una rivoluzione del sistema di governo e una conversione della maggioranza dei cuori la vita così com’è non può continuare sulla Terra.
La pandemia, concentrando su di sé tutta la cura del mondo, ha distolto l’attenzione da altre urgenze già presenti prima di essa e da questa aggravate. Basta pensare all’innalzamento delle acque a seguito della crisi climatica quando, come dice un documento “People and Oceans” delle Nazioni Unite, circa 145 milioni di persone vivono entro un metro sopra l’attuale livello del mare e quasi due terzi delle città del mondo, con una popolazione di oltre 5 milioni di abitanti, si trovano in aree soggette al rischio mentre quasi il 40% della popolazione mondiale vive entro 100 km da una costa. I movimenti migratori strutturali che ne deriveranno imporranno ben altre priorità alle politiche nazionali. E basta pensare al solo problema dello smaltimento delle acque contaminate dalle centrali nucleari sinistrate, come quella di Fukushima, che diventeranno inoffensive solo fra 24.000 anni, per comprendere la portata delle questioni da affrontare.
Si comprende allora lo sgomento del papa che nel messaggio di Pasqua ha definito come uno scandalo il rincrudirsi delle guerre e diffondersi delle armi nel confermato esercizio della lotta di tutti contro tutti. Ma non meno scandaloso è che mentre la ragione suggerirebbe l’immediata mondializzazione dei vaccini, enormi profitti derivanti dai loro brevetti e dall’esplodere delle tecnologie informatiche abbiano scavato nuovi abissi tra un pugno di ricchi e moltitudini di poveri, sottraendo immense risorse a bisogni vitali, nell’indiscussa obbedienza alla sovranità dei mercati.
Una risposta a queste sfide è la lotta per giungere all’adozione di una «Costituzione della Terra», come è concepita e promossa a partire dall’Italia da un movimento e una Scuola, di cui a suo tempo il manifesto ha dato notizia. Ora si è giunti al momento di cominciare a discuterne un progetto di base che sarà reso pubblico il prossimo 8 maggio in una apposita assemblea convocata per via telematica, a partire dalla Biblioteca Vallicelliana a Roma. A illustrarlo sarà Luigi Ferrajoli, che ne ha curato la stesura; si tratta di un testo aperto, in cui dovranno congiungersi il talento dei costituzionalisti, la logica dei filosofi del diritto e la poesia di uomini e donne concreti che vogliano farsi costituenti di un ordine di giustizia e pace sulla Terra.
Non si tratta solo di proclamare diritti e di porre vincoli e limiti ai poteri come fanno le Costituzioni degli Stati nazionali, si tratta anche di istituire nuovi ordinamenti che, nel pluralismo delle differenze, ne realizzino l’effettività e ne garantiscano il godimento. Si tratterà di una Costituzione ben altra rispetto a quelle vigenti, perché si tratta di dare risposte a «problemi sconosciuti ad altre età», per riprendere le parole con cui sognavano la nuova società gli spiriti grandi che già ne avevano concepito l’idea all’indomani della tragedia della seconda guerra mondiale, dopo i primi bagliori dell’arma nucleare e i sofferti genocidi, quando i popoli si riunirono a san Francisco e gettarono le basi del mondo nuovo di cui le Nazioni Unite furono l’embrione.
Ben al di là di quanto si fece allora si deve ora istituire un demanio planetario, fare un inventario non solo di diritti universali ma di beni comuni, inappropriabili da parte di nessuno, a cominciare dalle acque, dalle foreste, dalle rotte marine e spaziali, dalle medicine di base, stabilire un elenco di beni illeciti, fuori mercato, a cominciare dalle armi di offesa, abolire gli eserciti nazionali e stabilire la sola legittimità di una forza di polizia internazionale per la sicurezza e la pace, introdurre una fiscalità mondiale, debellare la fame omicida, tutelare lo storico patrimonio dei saperi e delle arti prodotto nei secoli.
Non si tratta solo di ecologia, si tratta di far continuare la storia. Occorre non violentare la Terra, spremendone e dilapidandone le ricchezze, ma riconoscendola come un pianeta vivente, una perla dell’universo, casa comune degli esseri umani, delle piante e di una grande quantità di animali, sede di storia e di lavoro, del diritto e della scienza, di amori e di illimitate speranze, come dice l’ «incipit» di questa nuova Costituzione. Si tratta di istituire una «Federazione della Terra». Naturalmente si tratta solo dell’inizio di un cammino. Ma il futuro passa anche da qui.
Commenta (0 Commenti)Il Memoriale sarà a disposizione del pubblico dal 19 aprile sulla piattaforma noipartigiani.it dove saranno visibili le prime 150 videointerviste alle partigiane e ai partigiani. Gli interventi alla conferenza stampa di Gianfranco Pagliarulo, Laura Gnocchi, Gad Lerner, Ivan Pedretti e Giovanni de Luna. Il saluto del Ministro della Cultura. Il video promo
È stato presentato oggi a Roma il Memoriale della Resistenza italiana, promosso dall'ANPI, che contiene oltre 500 video-interviste a partigiane e partigiani per lo più ancora viventi. Il Memoriale sarà a disposizione del pubblico a partire dal 19 aprile sulla piattaforma noipartigiani.it. Saranno visibili le prime 150 videointerviste, successivamente verranno caricate le restanti. Sono intervenuti alla Conferenza stampa di presentazione il Ministro della cultura Dario Franceschini, con un video-messaggio, i curatori del Memoriale, Gad Lerner e Laura Gnocchi, il Presidente nazionale dell'ANPI, Gianfranco Pagliarulo, lo storico Giovanni De Luna e Ivan Pedretti Segretario generale dello Spi-CGIL sindacato che ha fornito un importante contributo alla realizzazione di questo lavoro.
“Il Memoriale è un servizio al Paese - ha esordito Pagliarulo – e costituisce il primo mattone del costituendo Museo nazionale della Resistenza di Milano”. “La sua colonna sonora è Bella ciao - ha proseguito – che ancora oggi ha dei nemici. L'On. Paola Frassinetti di Fratelli d'Italia ha recentemente denunciato che in una scuola di Desio si è chiesto agli studenti di cantare proprio Bella ciao. Secondo la Frassinetti in questo modo si degraderebbe la scuola italiana a strumento di propaganda di una parte politica. Se ne facciano una ragione: la parte politica è quella della repubblica e della Costituzione. Come vedete, le scorie della continuità col fascismo ci sono ancora e il Memoriale può svolgere in questo senso una grande funzione di contrasto culturale”. Il Ministro Franceschini, dopo aver ringraziato l'ANPI per questa importante e straordinaria iniziativa che ricorda attivamente “quelle donne e quegli uomini che hanno scelto la strada della costruzione della libertà” ha dichiarato che il Memoriale verrà collegato al Museo nazionale della Resistenza di Milano. Laura Gnocchi ha sottolineato il ruolo fondamentale e faticoso delle donne nella Resistenza “madri e combattenti” e Gad Lerner, da parte sua, ha auspicato che il portale noipartigiani.it sia largamente e frequentemente consultato. Lo storico Giovanni De Luna ha rilevato che “un dato accomuna tutte le video-interviste: le partigiane e i partigiani a più di 90 anni considerano la loro lotta di allora come l'apogeo della propria biografia, il caposaldo”, quindi ha continuato “Quello che ci consegnano è una testimonianza da inserire in un patto di cittadinanza”. Pagliarulo ha concluso informando che l'ANPI ha formalmente messo il Memoriale a disposizione del Ministero dell'Istruzione.
L'UFFICIO STAMPA ANPI
Roma, 16 aprile 2021
Cgil. Misurarsi con la grande questione ambientale comporta la definizione di un piano complessivo a partire dalla centralità dell’occupazione e di una sua trasformazione. Il «sindacato di strada» potrebbe essere uno degli strumenti importanti per rivitalizzare la mobilitazione. Perché oggi viviamo una condizione che non è più quella degli anni ‘60
In questo anno di pandemia abbiamo tutti imparato molte cose che non sapevamo. Adesso sappiamo che la Terra è molto malata, che la stessa umanità è a rischio di estinzione. E anche il capitalismo, che fino a ieri appariva trionfante, è ormai privo delle sue arroganti certezze. Dello scenario apocalittico che si intravede noi non siamo più premonitori, siamo noi stessi, ci piaccia o meno, protagonisti. Ne parliamo con il segretario generale della Cgil Maurizio Landini.
Pensi che della particolarità del tempo che viviamo ci sia piena coscienza? Che il sindacato possa giocare in questo quadro un ruolo anche diverso da quello del passato ( o forse potremmo dire: recuperare in pieno il ruolo politico che ha giocato nella storia del nostro paese?).
La pandemia ha messo drammaticamente in evidenza l’insostenibilità dell’attuale modello di sviluppo che ha portato alla rottura degli equilibri con la natura. La diffusione del virus ha fatto emergere, in modo drammatico, contraddizioni peraltro presenti già da tempo e ha accelerato la crisi della democrazia già in atto. Il lavoro si è precarizzato e svalorizzato al punto che si è poveri anche lavorando. Il potere decisionale si è accentrato in mano di pochi. Contano di più grandi multinazionali che singoli Stati. Sono diventati sempre più lontani e impenetrabili i luoghi dove vengono assunte decisioni determinanti per tutti noi. Mi chiedi se di tutto ciò vi sia piena coscienza. Io sono certo di una cosa: di fronte alla portata della crisi che stiamo vivendo non si può tornare a fare, come pure qualcuno pensa, le stesse cose di prima. C’è bisogno di un cambiamento radicale: di pensare a un diverso modello di società. E anche il sindacato deve cambiare. È cresciuto in un mondo nel quale i termini crescita, sviluppo, progresso tecnologico, diffusione del benessere coincidevano. Oggi siamo di fronte a un quadro radicalmente nuovo: si è spezzato quel rapporto che sembrava scontato quanto lineare tra sviluppo e benessere. Inoltre la crescita deve misurarsi con un tema nuovo per il sindacato e non solo: il concetto di “limite”, che ci dice che le risorse naturali – aria, acqua, la terra stessa – non sono infinite.
Occorre prendere atto che il modello di crescita che si è affermato fino ad oggi mette in discussione la vita delle persone sul pianeta o quanto meno la sua qualità, innescando un nuovo meccanismo di selezione tra ricchi e poveri. E’ questo il terreno nuovo, difficile, su cui il sindacato deve operare. Il tema di “cosa produrre, come produrre, per chi produrre” diventa decisivo se non si vuole che a pagare il conto della crisi sia il mondo del lavoro.
Rider in sciopero, foto di Aleandro Biagianti
È specialmente nei tempi di transizione che il sindacato è stato coinvolto nel dibattito politico generale. Penso, innanzitutto, al Piano del Lavoro, proposto da Di Vittorio nel dopoguerra. Ma penso anche all’apice del “miracolo economico”, nei primi anni ’70, quando i metalmeccanici usarono la forza, accumulata anche dalla spinta sessantottina, per superare l’orizzonte puramente salariale delle rivendicazioni, per aggredire l’organizzazione stessa della produzione, intaccare il potere padronale in fabbrica e trascinare nel conflitto l’intera condizione umana del lavoratore – il suo abitare, la sua salute, la scuola. Fu quando i Consigli di fabbrica produssero anche i Consigli di zona che a loro volta spinsero la creazione di preziosi organismi: Medicina Democratica, Magistratura Democratica, finanche Polizia Democratica. La proposta che tu hai avanzato quando sei stato eletto segretario generale, di sperimentare, accanto a quelli tradizionali di categoria, anche un “sindacato di strada”, mi ha sollecitato a rivisitare quelle memorie. Tanto più interessanti oggi che nuovi movimenti, nati dalle nuove contraddizioni prodotte dal sistema, hanno fatto nascere sul territorio inedite e dinamiche figure sociali che hanno proprie specifiche forme di mobilitazione. Mettere in rete questi soggetti potrebbe arricchire il potere contrattuale di tutti, conferendo al sindacato una nuova preziosa centralità. L’urgenza di definire un progetto adeguato alla difficoltà che presenta la transizione ecologica non avrebbe forse bisogno, per esempio, di un nuovo Piano del lavoro, non affidato agli uffici studi, ma definito coinvolgendo ”la strada”?
Misurarsi con la grande questione della transizione ecologica vuol dire battersi non per una sommatoria indifferenziata di progetti e investimenti. Comporta la definizione di un piano complessivo a partire dalla centralità del lavoro e di una sua trasformazione. Questo vuole dire cambiare radicalmente l’attuale modello di produzione e di consumo; passare dalla produzione di beni di consumo individuali a quella di beni collettivi. Vuol dire occuparsi di risanamento delle aree urbane, della mobilità collettiva, di suolo, aria, sanità, formazione, ricerca, cultura. E soprattutto di energie rinnovabili e di riuso per impedire lo spreco. L’economia circolare, ad esempio, che tutti citano ma nessuno sembra prendere realmente sul serio, vuole dire una nuova politica industriale che implica però il passaggio dalla logica dell’ ”usa e getta” a quella basata sulla manutenzione.
ÈFgovernab un campo che offre grandi potenzialità per nuovi settori di occupazione. Naturalmente un nuovo modello di sviluppo non è un progetto illuministico che si cala dall’alto. Si può attuare a condizione che ci sia un grande progetto di cambiamento generale che nasca dalla contrattazione nei posti di lavoro e nelle vertenze territoriali. E che coinvolga quelli che tu chiami nuovi soggetti, movimenti, figure sociali, frutto delle contraddizioni di questo sistema. E che, non c’è dubbio, bisogna provare a “mettere in rete”, arricchendo così la capacità contrattuale di tutti. In secondo luogo per un cambiamento di tale portata serve il protagonismo delle lavoratrici e dei lavoratori. Bisogna investire sul lavoro e sulla sua qualità, a partire dal superamento della precarietà e dal diritto alla formazione permanente e alla conoscenza.
Un diritto fondamentale se non si vogliono subire le nuove forme di disuguaglianze, di cui l’esclusione dal sapere rappresenta la forma più discriminatoria. I lavoratori devono poter dire la loro, con competenza, sulla natura degli investimenti, sugli indirizzi delle imprese. Si tratta perciò anche di pensare a nuove forme di democrazia economica, di sperimentare nuove forme di codeterminazione nelle imprese, consapevoli che oggi è anche più acuta l’esigenza di una riflessione sulla contraddizione tra il diritto di proprietà e la libertà della persona nel lavoro. In sostanza si deve far si che la Costituzione non rimanga fuori dai cancelli dei posti di lavoro. Penso sia il momento di un sostegno legislativo alla contrattazione collettiva che dia validità erga omnes ai contratti collettivi nazionali. E di una legge sulla rappresentanza che recepisca gli accordi interconfederali, sancisca il diritto di voto delle lavoratrici e dei lavoratori per approvare gli accordi che li riguardano, che certifichi la rappresentanza delle controparti datoriali.
Il progetto di transizione rende necessarie riforme profonde. Sarebbe grave se pensassimo che dovrà pensarci il Parlamento. In quella sede si misurano i rapporti di forza in base ai quali si definiscono i possibili compromessi che poi le caratterizzeranno. Così è stato in passato, quando la sinistra ha avuto la forza, pur non stando al governo, di strappare conquiste decisive. Se oggi non otteniamo più quasi niente è anche perché c’è stata una delega che ha sottratto la politica ai cittadini e ha insterilito lo stesso scontro parlamentare.
Il “sindacato di strada” potrebbe in effetti esser uno degli strumenti importanti per rivitalizzare la mobilitazione della società. Perché oggi viviamo una condizione molto diversa da quella, ad esempio, degli anni ‘60. Allora c’era una omogeneità nelle condizioni di lavoro. Oggi non è più così. Le catene degli appalti e dei subappalti, le esternalizzazioni, le delocalizzazioni hanno prodotto un mondo del lavoro frammentato e diviso. E ciò produce disuguaglianze di reddito e di diritti. La stessa solidarietà fra lavoratori non è più un dato scontato ma un elemento da ricostruire. Oggi giocano un ruolo decisivo strutture sindacali confederali, orizzontali oltreché categoriali, indispensabili per riunificare ciò che è stato diviso. Occorre riscoprire il ruolo fondamentale delle Camere del lavoro, rinnovando la straordinaria funzione che ebbero alla loro nascita, quando furono la sede della costruzione della solidarietà tra persone che facevano lavori diversi o che lavoro non lo avevano affatto, il luogo della mutualità, della formazione e dell’impegno per dare una risposta collettiva a problemi diversi. Proprio per via della frammentazione, il territorio diventa il luogo dove si possono incontrare i lavoratori, in particolare quelli che vivono le condizioni di maggiore disagio. Inoltre, la presenza sul territorio consente di aprire vertenze su servizi, casa, trasporti, cultura, tempo libero. È da lì che si guarda al lavoratore e alla lavoratrice non solo in rapporto al loro lavoro ma anche alla loro complessiva condizione sociale. Significa vedere la connessione tra luoghi di lavoro e ciò che sta fuori, coglierne tutte le dimensioni.
Protesta dei rider, foto di Aleandro Biagianti
In questo contesto non pensi che il “sindacato di strada” potrebbe in qualche modo costituire anche un’indicazione positiva nell’ormai asfittico dibattito che tormenta la sinistra: sulla forma partito, se servono o non servono, se contano ormai solo i movimenti o le organizzazioni di volontariato, sulla società civile spesso mitizzata. Insomma: il “sindacato di strada” potrebbe essere il seme che dà forma alla sperimentazione di nuove forme di democrazia organizzata che colmino il pericoloso vuoto che la crisi dei partiti di massa ha lasciato. Un lavoro aggregante, di rete, che potrebbe costituire il terreno su cui proviamo a ridar sostanza alla democrazia, a dare alla partecipazione continuamente invocata un riferimento chiaro. Che è comunque la premessa per ridar senso ai partiti. Non voglio volare troppo alto, ma penso che a partire da questo tipo di esperienza si potrebbe rilanciare la proposta di Gramsci di far crescere sul territorio “consigli”, organismi emersi dal consolidamento dei movimenti in grado di ridurre l’autoreferenzialismo dei partiti e di condizionare gli effetti dello storico esproprio della gestione della società operato dalla burocrazia statale. Nel senso che consentirebbe via via di riappropriarsene, anche rilanciando l’esperienza cooperativa, in qualche settore (l’acqua, per esempio?) oggi abbandonato all’arbitrio delle istituzioni statali. Poiché in questi giorni si celebrano i 150 anni della nascita di Rosa Luxemburg, anche lei, come Gramsci, convinta della necessità di accompagnare con nuove forme di democrazia diretta l’assetto politico, ho provato a buttar lì nelle conferenze che in sua memoria sono state promosse, il tema “Rosa Luxemburg e il sindacato di strada di Landini”. Ho incontrato grande entusiasmo dei compagni.
Come ho già detto, il “sindacato di strada” può aiutare a ricostruire un protagonismo del mondo del lavoro, indispensabile a far fronte dei grandi problemi che abbiamo fin qui delineato. Tanto più quando veniamo da anni durante i quali la partecipazione democratica è stata mortificata da una visione della politica che ha considerato come unica bussola la “governabilità” e “la manutenzione tecnica” del sistema. Le molteplici riforme istituzionali e costituzionali hanno tutte implicitamente espresso un obbiettivo: accentrare la decisione politica negli esecutivi, “liberare il campo da tutte le reti dei poteri intermedi”. Le stesse forze progressiste e di sinistra sono state dentro questo processo e hanno via via spezzato i fili della rappresentanza con il mondo del lavoro. La loro afasia dipende anche da questa rottura.
Io penso invece che cambiamento voglia dire dare vita ad un progetto di trasformazione sociale che si sostanzia del rapporto concreto con le persone. Anche per questa ragione riteniamo fondamentale la tenuta del rapporto unitario con Cisl e Uil. È un rapporto che va rilanciato e che, nel vivo dell’esperienza concreta, deve saper prospettare un nuovo sindacato confederale unitario, plurale, partecipato, democratico. Oggi tra l’altro, c’è una condizione nuova, non scontata, ma che potrebbe consentire di andare in quella direzione: non esistono più le divisioni prodotte dalla guerra fredda. D’altronde, la stagione più intensa della partecipazione democratica, quella degli anni ’70, ha coinciso proprio con l’esperienza unitaria dei consigli di fabbrica e dei consigli di zona. Le stesse riforme strappate allora, quelle che furono chiamate “riforme di struttura”, non erano, come invece accade oggi, editti, ma il frutto di una intelligente pratica sociale: lo Statuto dei Lavoratori del 1970 e lo sviluppo della contrattazione collettiva, la riforma sanitaria del 1978, che era il compimento delle lotte operaie sulla salute in fabbrica e di una medicina alternativa praticata nei territori; la 180 per il superamento dei manicomi che è stata preceduta dalle esperienze di Basaglia a Gorizia e a Trieste; il divorzio e la legge 194 che furono anche il frutto della crescita del movimento femminista che affermò il principio del riconoscimento della cultura di genere e della differenza; la straordinaria esperienza delle 150 ore.
Tu mi chiedi se oggi il “sindacato di strada”, rivisitando quella memoria, possa contribuire ad aprire una nuova stagione di democrazia e di partecipazione. Ti rispondo con qualche considerazione. In primo luogo proprio la frantumazione del lavoro che ha fatto seguito alla controffensiva capitalista degli anni ’80, ha messo in difficoltà la nostra stessa capacità di rappresentanza. È una questione che in gran parte riguarda la politica ma coinvolge anche il sindacato. Bisogna allora pensare e praticare forme di democrazia capaci di raccogliere la complessità delle condizioni di lavoro. Si può, ad esempio, pensare a delegati di sito e di filiera, lavoratori cioè che tentano, a partire dalla loro funzione di rappresentanza, di unire ciò che oggi è diviso. In secondo luogo “sindacato di strada” significa fare del sindacato un soggetto attivo entro un processo aperto e più ampio attraverso il confronto e l’iniziativa con soggetti che possono contribuire a costruire progetti di trasformazione della società e di affermazione di nuovi diritti. Questo vuol dire, come Bruno Trentin ricordava spesso, costruire forme nuove di consultazione e collaborazione reciproca. Forme nuove di rappresentanza, di organizzazione, di partecipazione, non certo sostitutivi degli istituti della democrazia delegata, ma suo arricchimento. Si tratta di problemi non solo italiani, ma europei. E a quel livello dobbiamo affrontarli, costruendo esperienze, e vertenze, comuni, qualcosa che fino ad oggi, diciamo la verità, abbiamo fatto ancora assai poco.
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Oltre Letta. Se nel Pd c’è la maledizione delle correnti e del potere, a sinistra c’è la maledizione della frammentazione e del minoritarismo del piccolo gruppo, dei pochi ma buoni, del benaltrismo senza fine. La campana suona per tutti
Per un presidente del consiglio che raccoglie una supermaggioranza, con centrosinistra e centrodestra alleati di governo, e invita a mettere da parte le rispettive identità per il bene comune, ecco un neo-segretario del Pd chiamato a governare un partito balcanizzato dalle correnti alle quali chiede di mettersi una mano sulla coscienza per lavorare tutti insieme, anche in questo caso, per il bene del paese.
In un tandem politico, Draghi e Letta pedalano dunque nella stessa direzione, da due postazioni diverse: l’uno come capo azienda e l’altro come azionista di riferimento.
E, nel tandem, il Pd è, come Letta conferma, un partito governativo di centro, che è poi l’identikit del neosegretario, osannato domenica da tutti quelli che hanno costretto Zingaretti a farsi da parte.
Sicuramente il Partito democratico è bisognoso di una vigorosa ristrutturazione politica e di una rigenerazione morale che Letta ha tradotto con l’immagine di «anima e cacciavite». Ma pur ringiovanito, femminilizzato, rigenerato e ristrutturato, resta un partito né di destra, né di sinistra (nonostante gli sforzi di etichettarlo così, come abbiamo letto su alcuni giornali), concepito soprattutto per governare.
E prima farà pace con questa sua natura e prima si riconcilierà con il suo reale destino. La spinta ideale per una Piazza Grande di zingarettiana memoria è fallita ancor prima delle dimissioni dell’ex segretario.
Punto e a capo.
La sinistra, parola che nel suo lungo discorso all’assemblea del partito Letta non ha mai pronunciato (ha usato molte volte «radicale» che è multitasking), è un’altra cosa.
E a parte le molte buone intenzioni di ordine generale, non ha demolito nessun architrave delle politiche messe in atto negli ultimi anni: dal jobs act (imposto da Renzi con arroganza e violenza politica contro la Cgil) ai lager libici, alle riforme istituzionali. Enrico Berlinguer che pure è stato evocato dal nuovo inquilino del Nazareno, non c’entra nulla con un partito che ha espunto la parola sinistra dal suo stesso nome.
È chiaro come il sole che, in questo momento di scossoni politici e sociali, la sinistra dovrebbe ricostruire il suo campo.
Tuttavia il condizionale è più che mai d’obbligo visto lo stato in cui versano le varie sigle che vi si riferiscono. Perché in teoria si tratterebbe di coltivare una vasta prateria, grande quanto l’arcipelago sociale che in questi anni ha conosciuto il protagonismo di movimenti giovanili, ambientalisti femministi insieme a nuove soggettività cresciute nel lavoro intermittente, manuale e intellettuale.
Qui c’è la materia prima, sorgente e incandescente, per ritrovare un movimento cosmopolita capace di portare molta acqua al mulino diroccato della sinistra.
Tuttavia si tratta di essere consapevoli del fatto che costruire, qui e ora, una Rete con un coordinamento strutturato e nazionale delle varie esperienze dei territori, è una condizione necessaria. Perché ciascuna associazione, movimento o tendenza fa capo a se stessa e, negli ultimi anni, troppi ormai, non ha mai trovato la forza, il coraggio di darsi una forma, un’organizzazione, pagando così lo scotto di muoversi molto e ottenere molto poco.
Risultando, il nostro paese, come l’unico in Europa, a non avere una forte rappresentanza di sinistra.
Se nel Pd c’è la maledizione delle correnti e del potere, a sinistra c’è la maledizione della frammentazione e del minoritarismo del piccolo gruppo, dei pochi ma buoni, del benaltrismo senza fine. La campana suona per tutti.
Ben venga allora un Pd che esce dai centri storici per provare a tornare nelle periferie sociali, perché chi in queste terre abbandonate ci vive e ci lavora possa avere ascolto e sostegno. Ma siamo anche noi a doverci rigenerare e riorganizzare, nelle proposte e nelle persone.
Qualche giorno fa la giovane vicepresidente dell’Emilia Romagna, Elly Schlein sollecitava, proprio in questo momento di massima trasformazione determinata dalla pandemia e dai massicci finanziamenti europei, di osare un’operazione «pirata» di riunificazione del fronte della sinistra, contro le divisioni, e sollecitava una ripartenza non a cominciare dal Pd e da un partito in quanto tale, ma dalla Rete dei movimenti.
Condivido, la direzione mi sembra giusta. Per cui se c’è una talpa (o più di una) che scava in questi territori, è il momento che esca allo scoperto, per farsi vedere.
Commenta (0 Commenti)Apriamo il dibattito. Vogliamo leggere e raccogliere la vostra voce sul manifesto, l’unico giornale in grado di esprimere la varietà e molteplicità di pensieri che oggi percorrono il mondo della sinistra
È un brutto governo. E vale la pena ripeterlo proprio alla vigilia del voto che dovrebbe assicurare una maggioranza ampia, in grado di tenere saldo il timone della “nave di salvataggio” fino al termine della legislatura.
È un governo brutto al punto da aver provocato divisioni laceranti (come nel Movimento 5 Stelle), spaccature profonde (tra Articolo 1 e Sinistra italiana, e anche dentro la stessa Sinistra italiana), e discussioni forti sulle modalità della partecipazione perfino tra i più convinti sostenitori del ministero Draghi, il Pd, la Lega, Forza Italia.
In tempi di lunga Pandemia, la nuova maggioranza parlamentare, che domani dovrebbe assicurare la fiducia al governissimo, nasce affetta da più virus, che renderanno il cammino amministrativo della cosa pubblica difficile, tortuoso, pieno di ostacoli per i partiti che ne fanno parte. Ma soprattutto il viaggio delle forze democratiche (dentro e fuori il governo) sarà davvero complicato.
Perché più di altre si pongono la domanda “dove stiamo andando?” – che non è conio di Corrado Guzzanti ma di Paul Gauguin – senza però trovare facilmente una risposta immediata, chiara, convincente. Non a caso nel popolo della sinistra (c’è ancora, nonostante gli sfottò dei commentatori da salotto tv e giornalistico), si stanno manifestando le più varie reazioni politiche, culturali, sociali, umorali, sentimentali.
Leggendo tra le migliaia e migliaia di reazioni che dilagano sui social, sembrano prevalere di gran lunga più le emozioni che i dissensi (e i consensi), politici tout-court. Vuol dire che a sinistra batte un cuore. E che adesso, dopo il ritmo sì faticoso ma tuttavia normale e persino rassicurante registrato durante il Conte 2 (con un inaspettato protagonismo delle organizzazioni democratiche approdate a palazzo Chigi dopo la caduta del Conte 1), perde colpi, ha continue extrasistoli e rischia di fibrillare di brutto.
Tuttavia curare una patologia cardiaca non è semplice, perché a volte i farmaci non bastano. Ma può essere di grande aiuto la parola. Da ascoltare, per cercare di capire le ragioni altrui (cosa che, purtroppo, avviene poco dalle nostre parti), e per dire la propria opinione. Per raccontare la rabbia, lo sconcerto. Per esprimere un sentimento o un dissenso. E può essere anche una parola liberatoria, sincera, trasparente, per spiegare perché è meglio baciare il rospo (in questo caso il drago) invece di restare alla finestra piangendo sul recente passato.
È insomma la vostra voce che vogliamo leggere e raccogliere sul manifesto, l’unico giornale in grado di esprimere la varietà e molteplicità di pensieri che oggi percorrono il mondo della sinistra, segnata da troppi e continui naufragi.
“Dove stiamo andando?” è d’altronde una domanda che riguarda tutti, perché l’emergenza che stiamo vivendo coinvolge l’intero popolo italiano, costretto ogni giorno a confrontarsi con un cambiamento radicale della propria esistenza, afflitto dalla perdita di tante, troppe vittime della malattia, piegato dall’incertezza, dalla paura. E anche noi, qui, su queste pagine, abbiamo l’obbligo di rispondere.
Forse il neonato governo – un passaggio inedito per tutte le forze politiche e per la storia del nostro paese in questo tragico contesto – determinerà un altro naufragio a sinistra. Oppure no, aiuterà a trovare una terapia in grado di consentire a un cuore malato di tornare a battere regolarmente. Ma il risultato, vogliamo crederlo con una buona dose di ottimismo della volontà, dipenderà soprattutto da noi.
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