Nel tempo dell’emergenza e della lotta alla pandemia, in Emilia-Romagna si disegna un futuro diverso. Per tutti, nessuno escluso. Un progetto di rilancio e sviluppo della regione fondato sulla sostenibilità ambientale, sociale ed economica. Per creare lavoro di qualità, accompagnarla nella transizione ecologica, contrastare le diseguaglianze e ridurre le distanze fra le persone, le comunità e le aree territoriali, ricucendo fratture acuite dalla crisi in atto. Con un investimento senza precedenti sulle persone, il welfare e la sanità pubblica, l’innovazione tecnologica e digitale – con la scienza al servizio dell’uomo, in ogni campo – i saperi e la scuola, la formazione, le eccellenze della nostra manifattura, l’economia verde e circolare, il turismo, il commercio, l’agricoltura, il mondo delle professioni e il terziario, la messa in sicurezza del territorio. Con l’obiettivo di raggiungere la neutralità carbonica entro il 2050 e il 100% di energie rinnovabili entro il 2035.
È il Patto per il Lavoro e per il Clima che la Regione Emilia-Romagna sigla con 55 firmatari: enti locali, sindacati, imprese (industria, artigianato, commercio, cooperazione), i quattro atenei regionali (Bologna, Modena e Reggio Emilia, Ferrara, Parma), l’Ufficio scolastico regionale, associazioni ambientaliste (Legambiente, Rete Comuni Rifiuti Zero), Terzo settore e volontariato, professioni, Camere di commercio e banche (Abi).
Un percorso comune che nasce dalla convinzione che da questa crisi l’Emilia-Romagna debba uscire con un progetto di sviluppo nuovo. Un progetto che migliori la qualità della vita di donne e uomini e del pianeta, che punti a una reale parità di genere, che attui la transizione ecologica creando lavoro di qualità, valorizzando tutte le potenzialità e gli spazi che questo cambiamento offre al territorio e alle nuove generazioni. Senza lasciare indietro nessuno. Perché creare nuova occupazione – di qualità, dipendente o autonoma che sia, ma stabile e adeguatamente remunerata - che scaturisca e accompagni la svolta verde, non è solo possibile, è anche necessario.
Il Patto si fonda sulla qualità delle relazioni tra istituzioni, rappresentanze economiche e sociali. L’intera comunità regionale impegnata su obiettivi strategici definiti sulla base di una partecipazione democratica e di una progettazione condivisa, e la conseguente assunzione di responsabilità di ciascuno e dell’intera ‘squadra’. Guardando al 2030, in linea con l’orizzonte e gli obiettivi fissati dall'Agenda delle Nazioni unite e dell’Unione europea: in un tempo in cui la pandemia e la crisi costringono ad aggiornare le previsioni giorno per giorno, l’Emilia-Romagna non rinuncia ad un progetto di medio-lungo termine per orientare le scelte strategiche.
Gli obiettivi delineati nel documento saranno oggetto di ulteriori e successivi accordi per definire più nel dettaglio, con lo stesso metodo di confronto e condivisione, come programmare le risorse europee, statali e regionali, ordinarie e straordinarie, che l’Emilia-Romagna avrà a disposizione per un rilancio degli investimenti pubblici e privati, in un momento che rappresenta anche una grande occasione storica. L’Europa ha infatti battuto un colpo decisivo con il Next Generation EU, che destina all’Italia 209 miliardi di euro per il proprio Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), che per i sottoscrittori del Patto dovrà vedere protagoniste le Regioni e le autonomie locali.
Impossibile immaginare la realizzazione di un piano di ricostruzione del Paese senza il loro pieno coinvolgimento. Sulla base delle azioni indicate nel nuovo Patto, l’Emilia-Romagna è pronta a presentare al Governo proposte e progetti da finanziare con i fondi del Next Generation EU. Ci sono poi i Fondi europei della nuova programmazione 2021-2027 destinati a crescere per la nostra Regione (nel settennio precedente 2,5 miliardi di fondi strutturali e 660 milioni di euro di FSC, di cui 55 milioni gestiti dalla Regione) e quelli che il territorio saprà aggiudicarsi candidandosi ai diversi programmi europei (per il solo Horizon 2020 il contributo di cui ha beneficiato il territorio regionale è stato pari a oltre 280 milioni di euro), unitamente alle risorse regionali e statali.
Solo la Giunta regionale ha previsto nel bilancio di previsione 2021 investimenti per un miliardo mezzo di euro, nel contesto più ampio del piano di investimenti per quasi 14 miliardi di euro al 2022 presentato già prima dell’estate, anche in questo caso considerate tutte le fonti di finanziamento, per una ricostruzione partecipata e condivisa da territori, parti sociali, comunità locali.
L’Emilia-Romagna continua dunque a fare sistema. Le firme di oggi confermano e rafforzano il metodo avviato nel 2015 con la firma del Patto per il Lavoro, che in cinque anni ha permesso all’Emilia-Romagna di recuperare terreno rispetto alla lunga crisi economica apertasi nel 2008, portandosi ai vertici italiani ed europei per crescita, occupazione, export e valore aggiunto. Cinque anni nei quali il Patto per il Lavoro ha generato investimenti e movimentato risorse per oltre 22 miliardi di euro (ben oltre i 15 preventivati all’inizio).
Uno scenario radicalmente cambiato nell’ultimo anno con la diffusione della pandemia mondiale e l’esigenza, ora, di fare tesoro dalle lezioni apprese dall’emergenza e di impostare un modello di sviluppo che sia sostenibile. Per affrontare quattro sfide che l’Emilia-Romagna, al pari e più di altri sistemi territoriali, è chiamata ad affrontare: crisi demografica, emergenza climatica, trasformazione digitale, contrasto alle diseguaglianze.
Il Patto per il Lavoro e per il Clima indica come proprio orizzonte il 2030, assumendo una visione di medio e lungo periodo, indispensabile per affrontare la complessità dei temi aperti, allineando il percorso dell’Emilia-Romagna agli obiettivi previsti dall’Agenda 2030 dell’Onu, dall’Accordo di Parigi e dall’Unione europea per la riduzione delle emissioni climalteranti di almeno il 55% entro il 2030.
Adesso la transizione ecologica e la neutralità carbonica sono obiettivi concreti e condivisi. Abbiamo dato un indirizzo chiaro e coraggioso alle scelte per il contrasto ai cambiamenti climatici e alle disuguaglianze sociali, di genere e territoriali. Questo Patto segna l’impegno condiviso a fare ciascuno la propria parte per ripartire insieme, avviando un percorso di cambiamento urgente e ineludibile per il futuro della nostra comunità e delle prossime generazioni. In un momento difficile come questo in cui nel Paese, per affrontare la crisi pandemica, sono richieste unità e responsabilità in Emilia-Romagna siamo riusciti a costruire una cornice strategica per non tornare alla normalità di prima, ma migliorare la qualità della vita delle persone e del pianeta.
Il Patto per il Lavoro e per il Clima si conferma un atto importante di democrazia e responsabilità condivisa, in rete con le più grandi progettazioni innovative del nostro Paese, e che si relaziona con l’Europa. La grande novità di questo nuovo documento è contenuta nel titolo, che affianca al ‘Lavoro’ la parola ‘Clima, perché non c’è sviluppo senza sostenibilità ambientale, economica e sociale. Non può esistere contrapposizione fra ambiente e lavoro anzi, al contrario, proprio attraverso il green new deal e l’investimento sui saperi possiamo creare occupazione di qualità, riducendo la forbice delle disuguaglianze.
15 dicembre 1969. C’è stato un tempo in cui un ex partigiano come Giuseppe Pinelli poteva piombare giù dal quarto piano di una questura della Repubblica e vedersi calunniato anche da morto, accusato di essersi suicidato perché colpevole «il gesto -dichiarò Guida ai giornalisti- potrebbe equivalere ad un confessione»
C’è stato un tempo in cui Marcello Guida, ex direttore fascista della colonia di confino di Ventotene, dirigeva la questura di Milano. In quegli uffici Guida trattenne illegalmente quello che nel 1944-45 era stato un giovane partigiano, Giuseppe Pinelli.
La guerra era finita da quasi 25 anni, ma l’ultima azione di resistenza fu compiuta da Pinelli proprio nella questura di Guida la notte del 15 dicembre 1969 quando morì precipitando dalla finestra della stanza del commissario Luigi Calabresi che lo interrogava illegalmente, con i suoi uomini, nonostante i termini del fermo di polizia fossero largamente scaduti e fosse suo diritto tornare libero a casa.
Al ferroviere anarchico i poliziotti volevano imporre un cedimento ovvero strappargli l’ammissione di una colpa inesistente: quella di essere responsabile, lui ed i suoi compagni, della strage di Piazza Fontana realizzata tre giorni prima dai neofascisti di Ordine Nuovo coadiuvati da uomini degli apparati di sicurezza e dei servizi segreti dello Stato.
I poliziotti compirono un reato contro Pinelli (il fermo illegale) e gli mentirono durante l’interrogatorio con l’espediente del «saltafosso» (dicendogli che un altro anarchico da lui conosciuto, Pietro Valpreda, aveva confessato l’esecuzione del massacro).
Pinelli si oppose e con la sua resistenza rese vani gli intenti di chi si era proposto non solo di incastrare lui ed i suoi compagni ma di scrivere una storia diversa del Paese con la strage del 12 dicembre 1969 attraverso un’operazione paramilitare contro civili inermi in tempo di pace; non rivendicata dagli esecutori materiali; realizzata con l’obiettivo di attribuire la responsabilità all’avversario politico (la sinistra politica e sindacale, parlamentare ed extraparlamentare) e finalizzata a provocare una reazione psicologica presso l’opinione pubblica per favorire un’involuzione autoritaria del nostro sistema costituzionale.
Erano gli anni, ha scritto Silvio Lanaro, in cui «il lealismo istituzionale» delle forze armate, delle classi proprietarie e delle forze politiche conservatrici «non riesce a reggere i socialisti al governo e i comunisti al 25% dei voti», anni in cui, affermerà il generale Mario Arpino in commissione stragi «per noi militari un terzo del Parlamento era il nemico». Per questo fu possibile che uomini dello Stato sostenessero e coprissero gli autori e depistassero le indagini rendendosi «doppiamente colpevoli», come ha affermato il Presidente della Repubblica Stato Sergio Mattarella nel 50° anniversario, poiché «Non si serve lo Stato se non si serve la Repubblica e, con essa, la democrazia».
C’è stato un tempo in cui un ex partigiano come Giuseppe Pinelli poteva piombare giù dal quarto piano di una questura della Repubblica e vedersi calunniato anche da morto, accusato di essersi suicidato perché colpevole «il gesto -dichiarò Guida ai giornalisti- potrebbe equivalere ad un confessione».
La magistratura derubricherà come «malore attivo» la causa del volo nel vuoto del ferroviere e tale versione sarà incisa come verità ufficiale anche sulla targa collocata dal Comune di Milano in piazza Fontana che ricorda, con pudore omissivo, che Pinelli è «morto tragicamente». Accanto ad essa una stele rappresenta, invece, una memoria storica «altra» e reale della Milano democratica e antifascista. Lì si ricorda che Pinelli è stato «ucciso innocente».
C’è stato un tempo, infine, in cui il Parlamento, con voto quasi unanime, scelse di bocciare la mozione che proponeva il 12 dicembre come giornata in ricordo delle vittime del terrorismo e di votare al suo posto il 9 maggio (giorno del ritrovamento del corpo di Aldo Moro in via Caetani a Roma). Una preferenza tanto politicamente «logica» per lo Stato quanto storicamente discutibile.
La Repubblica ha scelto di rappresentare quegli anni attraverso una narrazione autoassolutoria che racconta l’azione di un agente esterno alle istituzioni, le Brigate Rosse, che porta l’attacco al cuore dello Stato, omettendo al Paese il fatto che il fenomeno del terrorismo in Italia sia nato, molti anni prima, proprio da quel cuore. Questo Pinelli aveva capito, quella notte in quella questura. E dopo mezzo secolo, anche grazie a lui, lo sappiamo anche noi.
Commenta (0 Commenti)Politica. In questo folle giro di giostra, c’è una forza politica più fuori controllo e preoccupante, ed è il M5Stelle attraversato da una fronda interna implacabile
Stiamo affrontando una pandemia terribile, ogni giorno contiamo centinaia di morti, milioni di persone sono in gravi difficoltà economiche, stanno per arrivare i miliardi del piano europeo, e, in questa situazione, si parla di crisi di governo. Se ci mettiamo nei panni di un comune cittadino, l’impazzimento della giostra politica rasenta la follia.
Ma il buon senso, lo dicono l’esperienza e la storia del nostro Paese, non sempre cammina di pari passo con la politica. Soprattutto di quella che ha in mano le sorti nazionali e quindi maggiori responsabilità per quello che potrebbe accadere. Perché il paradosso è che le spinte più forti anti-governative non vengono dalle opposizioni – che legittimamente, ma anche stancamente, chiedono a Conte di dimettersi.
L’attacco viene dalle forze interne alla maggioranza. In primo luogo a causa delle fortissime fibrillazioni grilline, e a seguire, delle smanie di visibilità della pattuglia renziana. Con un Pd incapace di essere davvero elemento trainante ed equilibrato, con esponenti (a cominciare dai capigruppo di deputati e senatori), che invece di calmare le acque tirano la corda per arrivare allo scontro finale. Senza che Liberi e Uguali possa esercitare una funzione di equilibrio non avendo la forza dei numeri dalla sua parte.
Equilibrio e saggezza del resto non sono parole che albergano a Palazzo Chigi e dintorni dove, anziché lavorare e impegnarsi per il bene comune – visto che l’Italia, e non solo a causa della pandemia, rischia di affondare – sembrano prevalere i personalismi, i pregiudizi, gli ideologismi.
Tuttavia in questo folle giro di giostra, c’è una forza politica più fuori controllo e preoccupante, ed è il M5Stelle attraversato da una fronda interna implacabile. E a dirlo sono proprio i ministri pentastellati che in queste ore tentano di far rientrare nei ranghi i dissidenti, insistendo sul tasto del «voto di fiducia» di mercoledì a Conte – sarà un referendum sulla persona visto che non si vota per dare via libera al Mes ma sul ruolo dell’Italia in Europa.
La soglia di frattura, fino alla scissione, resta una mina vagante di difficile aggiramento. Perché tra i dissidenti ci sono parlamentari che neppure lontanamente si sentono di appartenere al fronte democratico. Sono vicini alla Lega, hanno inghiottito amaramente l’accordo con il Pd, tifano per Trump che sbraita contro i presunti brogli smentiti perfino dai suoi amici repubblicani, pensano che l’Italia sia a rischio di invasione degli immigrati. Come puoi riportare questi elementi dentro un alveo di solidarietà internazionale, di condivisione europeista, di lotta contro le ingiustizie sociali? Sono una mina vagante.
Dall’altra parte, Renzi smania, si sente imprigionato in un’alleanza che gli offre poco spazio, pensa che il suo partitino non ha futuro dentro quel «recinto» politico. E allora spara ad alzo zero, sapendo di avere tanti suoi ex sodali pronti a far da sponda all’interno del Pd. Con Zingaretti incapace, oppure non così forte da poter mettere la mordacchia agli agit-prop del suo partito. Più che la ricostruzione di un partito della sinistra via zoom, o di un campo largo progressista, dietro l’angolo ci sarebbe un bel Nazareno-bis.
Conte, in questa situazione, rischia molto. E la sua maggiore responsabilità è proprio quella che gli rimprovera Landini, cioè di scarsa condivisione, in questo caso delle parti sociali, e, aggiungiamo, parlamentari, e dei suoi stessi ministri, sul piano di ricostruzione e sulla struttura ordinata allo sviluppo del Recovery fund.
C’è praticamente mezzo governo in quarantena, ma il contagio virale rischia di essere specchio di quello metaforico che colpisce il suo ministero. Anche se cerca di smorzare le tensioni, di rasserenare il clima, sa di camminare su un terreno accidentato e stretto, un passo falso potrebbe essergli fatale. L’unica sua forza è, paradossalmente, proprio la paura della crisi. Che avrebbe conseguenze disastrose in questo momento. La credibilità dell’Italia svanirebbe in un colpo solo, rendendo assai ardua l’impresa di abbreviare i tempi per l’assegnazione dei fondi europei.
Per non parlare poi delle conseguenze politiche di un voto anticipato: le opposizioni vincerebbero a mani basse, e l’Italia verrebbe consegnata nelle mani di Salvini, Meloni, Berlusconi, ovvero la peggiore destra della storia della Repubblica. Alla fine la domanda è d’obbligo: il Movimento5Stelle, Italia Viva e il Pd, vogliono consegnare il Paese in quelle mani?
Commenta (0 Commenti)Il convegno di Italianieuropei. Tre ore di confronto sul «cantiere». Bettini apre a una «rifondazione», ok di Speranza, gelo di Zingaretti
Quattro anni esatti dopo la debacle di Renzi al referendum costituzionale, che fu il massimo punto dello scontro con gli ex Ds, Massimo D’Alema archivia la guerra con l’ex rottamatore. E lo invita al «cantiere della sinistra», evento via Zoom per la presentazione dell’ultimo numero di Italianieuropei dedicato proprio alla ricostruzione del campo progressista dopo due scissioni di fila (2017 Bersani e D’Alema; 2019 Renzi).
Le posizioni da allora non sono molto cambiate, ma la nascita del governo giallorosso e lo stato di salute non buono delle forze di centrosinistra richiedono, dice D’Alema, di voltare pagina. «Ci siamo, c’è vita a sinistra», esordisce nelle sue conclusioni, per poi spiegare che serve una «ristrutturazione di un suolo pieno di edifici cadenti e desueti», perché «l’esperienza del Pd non ha avuto successo, ma sono falliti anche tutti i tentativi di costruire delle realtà significative fuori dal Pd».
DA QUESTA «SOMMA di insuccessi», D’Alema propone di ripartire e al suo appello rispondono tutti i protagonisti: da un padre nobile come Giuliano Amato a Nicola Zingaretti, Roberto Speranza, Dario Franceschini, Goffredo Bettini, Elly Schlein e due intellettuali come Ida Dominijanni e Nadia Urbinati.
Tre ore di discussione per capire che fare dopo la pandemia, in una devastante crisi economica che aumenta le diseguaglianze ma che può essere mitigata dal Recovery Fund (visto come «opportunità» soprattutto da Renzi), in un clima che «ha evidenziato il fallimento del neoliberismo» e rimesso al centro alcuni pilastri della sinistra come i beni pubblici e il welfare. Ma con la palese assenza di un’idea del mondo, di una narrazione, di una «ideologia» che consenta alla sinistra di competere con i sovranisti sul piano dell’identità, del bisogno di protezione dei ceti più deboli e ormai anche di larga parte dei ceti medi.
Una ideologia che permetta ai progressisti di vivere «oltre le singole esperienze di governo», dice Urbinati, «di portare lo sguardo più in là verso una proposta di società in grado di riformare il capitalismo», le fa eco Bettini. Perché «senza un senso di appartenenza, senza la capacità di comporre le tante identità di una società liquida», ricorda Amato, «le politiche non penetrano nella società».
SULLO SFONDO I VENTI DI CRISI nel governo e soprattutto il rapporto con il M5S, che Franceschini definisce «alleanza inesorabile se si vuole governare», sostenuto da Speranza «con loro una relazione non episodica».
Ma il punto vero della discussione è la forma, l’abito per quella che Bettini chiama «rifondazione di una forza più ampia». «Per la prima volta da anni siamo a favore di vento», dice Speranza, «ma le forze che ci sono oggi non bastano, dobbiamo metterci tutti in discussione in un processo più largo e aperto».
D’Alema è il più chiaro nel dire che «serve una nuova forza politica con un progetto di riforma del capitalismo che renda possibile il contenimento delle diseguaglianze e la tutela dell’ambiente». «Bisogna dare una forza politica a quel 30% di italiani che avrebbero bisogno di un grande partito di sinistra». E ammette: «In passato per puntare al 50% abbiamo pensato che fosse necessario appannare la nostra identità, e così ci siamo persi anche il 30%…». Un partito non leggero, dice l’ex premier, «non somma di comitati elettorali», perché «solo i partiti hanno saputo connettere elite e popolo».
CON RENZI SCAMBIO GARBATO sul centro, con il primo a esultare per la vittoria del moderato Biden e D’Alema a ricordare che «quel centro lo inseguimmo anche noi, ma oggi la crisi ha radicalizzato la società». E tuttavia, per il leader Massimo, nel nuovo centrosinistra che deve essere «un campo largo» c’è posto per «culture diverse, per posizioni anche distanti». L’importante, sottolinea Bettini, è partire.
Non a caso Zingaretti di tutto questo non parla, e resta concentrato sulla sfida di dare un’anima al Recovery Plan, visto come antidoto espansivo alle sirene populiste, e soprattutto sul concetto che «non dobbiamo tornare alla normalità di prima del Covid che era inaccettabile» in un’Italia «ferma e piena di diseguaglianze e burocrazia». Di qui l’invito a Conte «a non tirare a campare» ma «ad essere efficaci». «La scintilla deve essere la necessità di costruire un nuovo e diverso equilibrio», dice il leader Pd e avverte: «No a ingegnerie organizzative».
ANCHE SCHLEIN VEDE tutte le difficoltà della ricostruzione, in particolare dove c’era la sinistra radicale e gli ecologisti e oggi «ci sono più sigle che elettori». «Dobbiamo cambiare schema», spiega, «ma questo non significa confluire nel Pd che non si è messo in discussione».
Dopo tre ore le domande restano molto più numerose e grandi delle risposte. Tocca a Dominijanni ricordare ai combattivi protagonisti della mattina che, in ogni caso, «non può essere la nostra generazione a fare questa ricostruzione».
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