Dialogo Sociale. Intesa su emendamenti al decreto Sostegni bis. Ma i tempi sfasati rispetto al via libera del 1° luglio rischiano di vanificare l’alleanza. Landini: alla luce di questo problema si rende necessaria la riapertura del tavolo con Draghi. L’ex ministra Catalfo: siamo totalmente d’accordo. Letta: purtroppo non c’è un monocolore Pd
Una manifestazione dei lavoratori ex Ilva a Genova © Foto Ansa
In una giornata poi sconvolta dalla notizia della morte di Guglielmo Epifani, i sindacati incassano l’appoggio di M5s e Pd nella loro battaglia per il prolungamento del blocco dei licenziamenti.
Da una parte gli emendamenti annunciati dai pentastellati, dall’altra la richiesta di Maurizio Landini di un nuovo incontro con Draghi.
«C’È BISOGNO CHE IL GOVERNO convochi un nuovo tavolo. Crediamo che riforma degli ammortizzatori sociali, proroga del blocco dei licenziamenti ed estensione delle tutele a tutte le forme di lavori debbano essere oggetto di una trattativa specifica con palazzo Chigi», ha detto il segretario generale della Cgil Maurizio Landini al termine del confronto con i parlamentari M5s.
Motivo principale della richiesta di Landini sono i tempi sfasati – sottolineati alla Cgil dalla delegazione pentastellata – della discussione e conversione in legge del decreto Sostegni uno che prevede lo sblocco dei licenziamenti dal primo luglio. «La discussione parlamentare del decreto sostegno inizierà oltre il 30 giugno – spiega Landini – . Il parlamento delibererà oltre la metà del mese di luglio ma dal primo di luglio si potrà licenziare e dunque anche le modifiche che noi proponiamo entreranno in vigore dopo», ha sottolineato Landini. «Alla luce di questo ulteriore problema, ancora di più si rende opportuna e necessaria la riapertura del tavolo da parte del governo», ha sottolineato anche il leader Uil Pierpaolo Bombardieri che nel pomeriggio è stato ricevuto da Mattarella per i 70 anni della Uil. «È urgente riattivare il confronto con il governo per neutralizzare il rischio licenziamenti dal primo luglio», sottolinea la Cisl.
UN ALLEATO NEL GOVERNO Landini sa di averlo. Si tratta del ministro del Lavoro Andrea Orlando, autore della mediazione dell’allungamento del blocco dei licenziamenti al 28 agosto poi cancellata dal decreto Sostegni bis per le pressioni di Confindustria e Lega, accolte da Draghi. Orlando ieri ha cercato di rilanciare il tema utilizzando però un altro argomentno: quello delle diversità di settori. «C’è una coalizione ampia in cui si tratta di tenere insieme posizioni anche diverse, ho visto che si sta facendo strada un ragionamento sulla selettività rispetto ad alcune filiere – ha detto Orlando – . Se questo ragionamento c’è io sono pronto: naturalmente bisogna sempre ricordare che, se bisogna intervenire, va fatto subito perché i tempi sono abbastanza stretti». Domenica anche il ministro dello Sviluppo leghista Giancarlo Giorgetti aveva aperto alla possibilità di prolungare il blocco per alcuni settori come il tessile e la moda.
IN REALTÀ PERÒ LA PROPOSTA di Cgil, Cisl e Uil è generale e non prevede distinguo rispetto ai settori: proroga del blocco dei licenziamenti fino a fine ottobre in attesa di una riforma degli ammortizzatori sociali in senso universalistico.
Due posizioni molto diverse e dunque difficilmente conciliabili. Per questo Landini chiede un incontro con Draghi, consapevole che, in una maggioranza composita, qualsiasi modifica debba essere decisa dal presidente del consiglio.
Rispetto all’incontro con i parlamentari pentastellati Landini ha detto di avere incontrato la disponibilità a recepire alcune delle richieste in sede di conversione del decreto sostegni bis. In particolare il segretario della Cgil ha parlato di «disponibilità da parte del M5s a presentare emendamenti che vadano in direzione delle nostre richieste su blocco dei licenziamenti, estensione dei contratti di solidarietà (non solo a chi ha perso fatturato del 50% ma a tutti), condizionalità dei sostegni alle imprese al mantenimento dell’occupazione, contratti di espansione e governance del Pnrr», ha illustrato Landini.
USCENDO DALL’INCONTRO ha parlato anche l’ex ministra del lavoro M5s Nunzia Catalfo. «Abbiamo incontrato i sindacati e ascoltato le loro istanze, dalla riforma delle politiche attive, agli ammortizzatori sociali. Si è parlato della cassa integrazione e del blocco dei licenziamenti. C’è la necessità di prolungare il blocco per alcuni mesi, e sono necessità assolutamente condivisibili», ha detto la ex ministra che sulla riforma degli ammortizzatori sociali aveva imbastito un dialogo costruttivo con Cgil, Cisl e Uil.
Difficile comunque immaginare oggi che in fase di conversione del decreto Sostegni bis il governo Draghi possa dare parere favorevole ad un emendamento che prolunghi il blocco dei licenziamenti.
C’ERA MOLTA ATTESA per la posizione che avrebbe tenuto Enrico Letta. Purtroppo però l’incontro pomeridiano al Nazareno fra la delegazione ai massimi livelli del Pd e i tre segretari generali di Cgil, Cisl e Uil si è interrota alla notizia della morte di Guglielmo Epifani proprio nel momento in cui il segretario Pd avrebbe dovuto rispondere alle richieste dei sindacati: «Purtroppo non c’è un monocolore Pd», è l’unica battuta che ha fatto il segretario Pd.
Commenta (0 Commenti)La nascita nel 1946 della Repubblica, l’elezione dell’Assemblea Costituente con il suffragio universale effettivo (con il diritto delle donne di candidarsi e votare) e la scrittura della Costituzione italiana non furono un «pranzo di gala».
Ma fu il precipitato storico di una fase drammatica e decisiva della storia d’Italia iniziata con il crollo del fascismo (dopo venti anni di dittatura politica, razziale e di classe) seguita dal collasso dello Stato monarchico (dopo tre anni di guerra mondiale a fianco dei nazisti) continuata con la Resistenza e conclusa con la Liberazione.
Il portato valoriale delle tre guerre combattute dalla Resistenza (Liberazione Nazionale; guerra civile e guerra di classe) trovò forma e sostanza nella Costituzione, configurando la Repubblica come libera e indipendente; antifascista e democratica; informata alla giustizia sociale. La «quarta guerra», quella delle donne, determinò l’assetto compiuto del nostro patto di cittadinanza con il riconoscimento della parità e dell’identità di genere.
NEMMENO la Repubblica e la Costituzione furono un approdo definitivo, esse si misurarono con un quadro della politica interna e internazionale gravido di conflitti, tensioni e spinte contrapposte sui fronti continuità/discontinuità dello Stato e rinnovamento/conservazione degli assetti di potere storicamente dati.
Così la lotta per la difesa della Repubblica e per l’applicazione della Carta divennero il fondamento dell’istanza di progresso contro i tentativi eversivi emersi all’inizio degli anni Sessanta con il governo Tambroni ed il Piano Solo e poi deflagrati con la stagione del terrorismo stragista da Piazza Fontana agli attentati alla stazione di Bologna e del treno Rapido 904. In mezzo, proprio grazie al dettato costituzionale, grandi mobilitazioni di massa determinarono altrettanto grandi conquiste sociali e civili dallo Statuto dei lavoratori al divorzio, dalla riforma del diritto di famiglia al servizio sanitario nazionale. Una connessione diretta tra eredità dell’antifascismo e modificazione dei rapporti sociali nell’Italia del trentennio post-bellico.
75 anni dopo l’Italia repubblicana contemporanea, fuori dalle retoriche celebrative dell’occasione, sembra «abitata» e stretta in una morsa dagli istinti regressivi di un ceto medio colpito dalla crisi e dagli «spiriti animali» di un capitalismo tanto predatorio quanto «straccione» di quelle classi dirigenti-proprietarie che hanno vissuto da estranee l’approdo alla democrazia costituzionale e conflittuale espressa dalla forma assunta dallo Stato tra il 1946 ed il 1948.
SONO IL NESSO inscindibile antifascismo-Repubblica-Costituzione e l’orizzonte di senso che esso ha disegnato nella storia d’Italia a rappresentare oggi, il vero convitato di pietra del discorso pubblico declinato sugli obiettivi della prossima «ripresa», o per meglio dire «ristrutturazione», che deriverà dal Piano dei fondi europei del Next Generation Eu paragonabile, se non superiore per estensione e quantità, al Piano Marshall del dopoguerra.
Tanto più sembra delinearsi l’indirizzo neoliberale di quel piano, gestito dalle stesse classi dirigenti europee promotrici dell’austerity come soluzione delle profonde crisi economico-finanziarie globali pre-pandemiche, tanto meno compatibili ed eterodossi con la «democrazia di mercato» sembrano i principi ideali e materiali (segnati da un moto della storia e un «fatto d’armi» come fu la Resistenza) che condussero madri e padri fondatori della Repubblica a volgere lo sguardo al futuro del Paese.
«NON TACIAMOLO – disse il 22 dicembre 1947 nel suo discorso di chiusura il Presidente Umberto Terracini – molta parte del popolo italiano avrebbe voluto dall’Assemblea costituente qualcos’altro ancora. I più miseri, coloro che conoscono la vana attesa estenuante di un lavoro; coloro che, avendo lavorato per un’intera vita, ancora inutilmente aspettano una modesta garanzia contro il bisogno; coloro che frustano i loro giorni in una fatica senza prospettiva. Essi si attendevano tutti che l’Assemblea esaudisse le loro ardenti aspirazioni, memori come erano di parole proclamate e riecheggiate. Ma noi sappiamo di avere posto, nella Costituzione, altre parole che impegnano inderogabilmente la Repubblica a non ignorare più quelle attese».
È SU QUESTO bivio tra continuità liberista e discontinuità progressista che si decidono gli anni futuri della nostra giovane Repubblica.
Con il pensiero rivolto «alla memoria di quelli che, cadendo nella lotta contro il fascismo e contro i tedeschi, pagarono per tutto il popolo italiano il tragico e generoso prezzo di sangue per la nostra libertà e per la nostra indipendenza» e nella consapevolezza comune che «mancare all’impegno – ammoniva Terracini – sarebbe nello stesso tempo violare la Costituzione e compromettere, forse definitivamente, l’avvenire della Nazione».
Davide Conti
(da "il Manifesto" del 3 giugno 2021)
Tamburi d'aria. Processo «Ambiente Svenduto», 20 e 22 anni in primo grado per gli ex proprietari e amministratori dell’acciaieria
La ex Ilva di Taranto © foto LaPresse
È una sentenza che resterà nella storia della città di Taranto. E che diventerà un punto di riferimento per le future controversie legali in materia di inquinamento ambientale in Italia. Ieri mattina, la Corte d’Assise di Taranto, dopo undici giorni di camera di consiglio, ha letto il dispositivo della sentenza di primo grado del processo Ambiente Svenduto sulla gestione dell’ex Ilva negli anni 1995-2013. La sentenza è arrivata dopo 5 anni di dibattimento, quasi 400 udienze fiume che hanno visto sfilare decine di imputati e centinaia di testi: accusa e difesa si sono date battaglia su ogni singolo aspetto di una vicenda infinita e lungi dall’essersi risolta definitivamente.
LA CORTE ha di fatto ritenuto in gran parte corretto l’impianto accusatorio (l’accusa era rappresentata in aula dal procuratore aggiunto Maurizio Carbone e dai sostituti Buccoliero, Epifani, Graziano e Cannalire), condannando a 22 e 20 anni di reclusione Fabio e Nicola Riva, ex proprietari e amministratori dell’ex Ilva, per i reati di concorso in associazione per delinquere finalizzata al disastro ambientale, all’avvelenamento di sostanze alimentari, alla omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro. L’accusa aveva chiesto 28 e 25 anni. I Riva in fabbrica potevano contare sul cosiddetto «governo ombra», di cui facevano parte i «fiduciari»: 18 gli anni di condanna per cinque imputati (Lafranco Legnani, Alfredo Ceriani, Giovanni Rebaioli, Agostino Pastorino e Enrico Bessone) che secondo l’accusa formavano un gruppo di persone non alle dipendenze dirette dell’Ilva che prendeva ordini dalla famiglia Riva.
CONDANNATO A 21 ANNI e 6 mesi l’ex responsabile delle relazione istituzionali Girolamo Archinà (erano stati chiesti 28 anni), che fungeva da ponte tra la proprietà e la politica oltre a mantenere legami con gran parte della stampa locale, la Curia e che avrebbe corrotto il consulente della procura Liberti condannato a 17 anni.
Condannata anche la catena di comando interna del siderurgico. Ventun’anni per l’ex direttore di stabilimento Luigi Capogrosso, 17 ciascuno agli ex capi area Ivan Di Maggio, Salvatore De Felice e Salvatore D’Alò. Per altri due ex capi area, Marco Andelmi e Angelo Cavallo, la pena è stata di 11 anni e 6 mesi. Condanna di 4 anni invece per l’attuale dirigente Adolfo Buffo (i pm ne avevano chiesti 20). L’ex consulente dei Riva, l’avvocato Francesco Perli è stato condannato a 5 anni e 6 mesi. Piena assoluzione invece per l’ex prefetto Bruno Ferrante, presidente dell’Ilva dall’estate 2012 a quella del 2013 quando l’azienda venne commissariata: per lui erano stati chiesti 17 anni.
MA L’INCHIESTA sull’ex Ilva ha coinvolto anche personaggi politici che ricoprivano ruoli primari durante la gestione Riva. La Corte d’Assise ha infatti condannato a 3 anni l’ex presidente della Provincia Gianni Florido, che risponde di una tentata concussione e di una concussione consumata, reati che avrebbe commesso in concorso con l’ex assessore provinciale all’ambiente Michele Conserva condannato a 3 anni.
Tre anni e mezzo sono stati inflitti all’ex presidente della Regione Puglia Nichi Vendola (i pm ne chiedevano 5): l’ex governatore è accusato di concussione aggravata in concorso, in quanto, secondo la tesi degli inquirenti, avrebbe esercitato pressioni sull’allora direttore generale di Arpa Puglia, Giorgio Assennato, per far «ammorbidire» la posizione della stessa Agenzia nei confronti delle emissioni nocive prodotte dall’Ilva. Quest’ultimo, accusato di favoreggiamento nei confronti dell’ex presidente, è stato condannato a 2 anni. Assennato, che ha sempre negato di aver ricevuto pressioni da Vendola, aveva rinunciato alla prescrizione. Prescritto invece il reato di abuso d’ufficio per l’ex sindaco Ippazio Stefàno.
ULTIMA, MA NON per importanza, è la confisca disposta per gli impianti dell’area a caldo sottoposti a sequestro dal luglio 2012 e delle tre società Ilva spa, Riva Fire (oggi Partecipazioni Industriali in liquidazione) e Riva Forni Elettrici. La confisca per equivalente del profitto illecito nei confronti delle tre società per gli illeciti amministrativi è pari a una somma di 2 miliardi e 100 milioni di euro in solido tra loro. All’ex Ilva è stata anche comminata una sanzione di 4 milioni. Disposti anche 5mila euro di risarcimento danni a testa per le oltre 900 parti civili.
LA CONFISCA PONE degli interrogativi sul futuro dell’azienda, che non si fermerà in quanto la facoltà d’uso degli impianti non è stata intaccata. Così come è chiaro che il provvedimento diventerà effettivo solo quando giungerà la sentenza definitiva. Il punto interrogativo più importante riguarda però gli accordi sin qui sottoscritti tra ArcelorMittal, gestore affittuario, e Invitalia: la proprietà alla base di accordi e transazioni ora viene meno, pertanto non è chiaro se gli accordi resteranno validi. Chi sarà a gestire gli impianti confiscati? Il soggetto pubblico che sarà incaricato di disporne cosa ne dovrà fare?
Il tutto in attesa della prossima sentenza del Consiglio di Stato, che qualora confermasse la sentenza del Tar di Lecce in merito all’ordinanza del sindaco Rinaldo Melucci, porterebbe alla probabile e definitiva chiusura dell’area a caldo del siderurgico tarantino.
La Fiom (parte civile): ora produzione verde
"Sarebbe davvero una beffa insopportabile se, dopo il danno, non diventasse possibile l'approdo ad una produzione ambientalmente sostenibile dell'acciaio a Taranto: condizione indispensabile per la sopravvivenza degli altri siti del gruppo e per le prospettive dell'intera industria manifatturiera italiana".
Lo affermano la segretaria generale Fiom Francesca Re David e il responsabile siderurgia Gianni Venturi, ricordando come la Fiom e Cgil fossero parti civili nel processo. "E' indispensabile che governo e presidente del consiglio rompano il silenzio e si assumano le responsabilità di dare una prospettiva certa alle produzioni e ai lavoratori dell'intero settore siderurgico".
"La sentenza - dicono - riconosce che i diritti costituzionalmente tutelati come la salute e il lavoro, non possono essere piegati a logiche di puro profitto. Adesso occorre evitare che la confisca degli impianti, arrivare ad una rapida transizione degli assetti societari previsti dagli accordi tra Invitalia e ArcelorMittal".
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Il caso. La protesta di Cgil, Cisl e Uil in piazza Montecitorio a Roma, scontro con Confindustria. Appalti: «Stop massimo ribasso, ora la norma sulla responsabilità in solido»
La protesta dei sindacati ieri a piazza Montecitorio a Roma © LaPresse
Licenziare dal primo luglio senza chiedere la cassa integrazione oppure chiederla e licenziare alla scadenza del 31 dicembre di quest’anno. Quello che è stato presentato dal governo come un «compromesso» sul blocco dei licenziamenti per motivi economici è stato contestato ieri dai sindacati Cgil, Cisl e Uil in un presidio a piazza Montecitorio.
L’oggetto dello scontro con i confederali sarebbe il prolungamento del blocco solo per un paio di mesi, fino alla fine di agosto 2021, come del resto aveva annunciato il Ministro del Lavoro Andrea Orlando aveva infatti annunciato la proroga del divieto. «Non sono venute meno le ragioni che un anno fa avevano dato luogo al blocco dei licenziamenti – ha detto dal palco il segretario generale della Cisl Luigi Sbarra – Gli ammortizzatori sociali non sono stati rinnovati, le politiche attive non sono state avviate. In particolare, non sono stati finanziati adeguatamente i contratti di solidarietà e non è stata prolungata la durata della Naspi – L’atteggiamento del governo di queste ore non convince. Hanno confermato al 1 luglio nel Dl Sostegni bis lo sblocco dei licenziamenti per tutto il sistema industriale e dell’edilizia. Quella norma va cambiata. Abbiamo già chiesto incontri ai gruppi parlamentari per chiedere loro nel prossimo passaggio parlamentare di prorogare almeno fino al mese di ottobre il blocco».
L’offensiva di Confindustria e dei suoi portavoce sui media, avvenuta nell’ultima settimana, è stata rintuzzata dal segretario della Uil Pierpaolo Bombardieri: «Se qualcuno vuol far saltare coesione sociale, siamo pronti a reagire. Questa attuale non è una mediazione. È la posizione di Confindustria, inaccettabile anche perché si vuole dare libertà di licenziare quando il 70 per cento delle risorse per affrontare la pandemia sono state date alle aziende in modo non selettivo».
«Anche a Confindustria diciamo che per noi il primo luglio non può essere il giorno in cui partono i licenziamenti. Se dovessero non cambiare la norma, diciamo che non siamo disposti ad accettare passivamente, a subire i licenziamenti – ha detto il segretario generale della Cgil Maurizio Landini che, insieme a Sbarra e Bombardieri, ha incontrato ieri il presidente della Camera Roberto Fico – Non è accettabile che dal primo luglio le imprese possano scegliere tra cassa integrazione e licenziamenti». La stessa scelta potrebbe tuttavia darsi anche dopo il 28 agosto, oppure dal primo gennaio dell’anno prossimo. Su questa partita pesa l’ imminente dichiarazione di fine emergenza pandemica dopo la quale sarà dichiarato il ritorno all’ordine del mercato. E, dunque, alla convinzione fanatica per cui i licenziamenti sarebbero la premessa per nuove assunzioni dettate dalla ritrovata «crescita», e non il primo passo verso la razionalizzazione del sistema produttivo e nuove povertà. È quello che sta avvenendo nel mondo del lavoro precario dove è stata persa la maggioranza del milione di posti di lavoro durante la pandemia. Nel paese del Jobs Act nessuno ha pensato a riformare questa legislazione, né a garantire l’estensione del «reddito di cittadinanza» almeno al milione di lavoratori diventati poveri nell’ultimo anno.
Nel corso della settimana i sindacati sono riusciti ad ottenere la cancellazione del massimo ribasso. Ma non la ritengono sufficiente. «Abbiamo anche chiesto introduzione di una precisa norma per cui l’appaltatore deve essere responsabile in solido non solo per quello che accade ai suoi dipendenti ma per tutti i lavoratori che lavorano sul medesimo progetto» ha detto Landini – Il costo del lavoro non può essere elemento di valutazione nell’assegnazione degli appalti, bisogna applicare ccln e combattere i contratti pirata»,
Le tutele sociali restano una promessa. Ieri in piazza Landini ha citato il problema. Nella riforma «universalistica» degli ammortizzatori sociali, annunciata entro la fine di luglio dal ministro del lavoro Orlando, il criterio base dovrebbe essere: «I diritti non sono legati alla forma del lavoro. Stesse tutele, stessi diritti». Dalle linee generalissime di un provvedimento rinviato già dal governo «Conte 2», tale riforma sarebbe incardinata in una torsione workfarista dello Stato sociale sbrindellato che esiste in Italia. Si punta tutto sulle «politiche attive del lavoro» che dovrebbero, in un universo parallelo, reinserire i licenziati o i cassaintegrati in un nuovo ciclo produttivo o della formazione. Tuttavia questo sistema non esiste. Il fallimento del progetto grillo-leghista del governo «Conte 1», basato sul cosiddetto «reddito di cittadinanza», ha rinviato di anni la sua realizzazione. L’Anpal è stata commissariata, i centri per l’impiego sono al palo. E si continua a sperare nella miracolosa congiunzione astrale per cui la fine del blocco dei licenziamenti dovrebbe coincidere con l’avvio delle politiche attive del lavoro che avrebbero bisogno di un rodaggio di almeno cinque anni. Quelli che si è dato il piano di «ripresa e resilienza» che, entro il 2026, si propone di fare partire ciò che non è iniziato nel 2019. Progetti vasti e confusi. Le loro vittime sono già designate.
Commenta (0 Commenti)Riferendomi ai soli ultimi episodi delle grandi disgrazie nel nostro paese, una rappresentanza politica di sinistra che volesse essere tale dovrebbe attaccare senza remore, senza riflettere, senza misura contro le privatizzazioni. L'abbiamo visto bene con il covid cosa ha voluto dire aver privatizzato la sanità in termini di riduzione del servizio di cura.
Il privato, l'imprenditore pensa solo ai suoi interessi, pensa solo a far soldi. Lo stato deve tutelare l'incolumità dei cittadini e non deve affidare ad un privato i servizi fondamentali. Una persona non può morire perché il privato che gestisce l'autostrada non fa manutenzione al ponte Morandi, ed a tanti altri ponti che sono crollati.
I pendolari che viaggiano in treno non possono morire per deragliamento perché non si è fatta manutenzione ai binari. I cittadini di Viareggio che dormivano in un quartiere vicino alla ferrovia non possono morire bruciati perché un privato che usa le linee ferroviarie per far girare vagoni pieni di gas usa vagoni con ruote che non girano.
14 persone non possono morire nella funivia di Mottarone perché vengono rimossi i sistemi di sicurezza per far viaggiare più persone possibili. Cioè per vendere più biglietti. Cioè per fare soldi. Anche in questo caso una linea di proprietà pubblica data in gestione ad un privato.
Il mio è un pensiero ideologico, non ho dubbi. Ma consentire di fare soldi sulla pelle delle persone cos'è? Per me un politico di sinistra, soprattutto se proviene dalla militanza nei partiti storici di sinistra non può firmare le privatizzazioni ma deve urlargli contro, nello stesso tempo non può firmare la cessazione del blocco dei licenziamenti indotti dal covid ma deve fare la guerra a chi vuole licenziare.
Aggiungo che il sig. Bonomi presidente degli industriali dovrebbe avere qualche problema nella sua attuale campagna per liberalizzare e licenziare, invece niente. Nessuno lo metterà in relazione come responsabilità di rappresentare persone che si definiscono imprenditori e che causano orrende disgrazie.
No questo non accade perché poi nei processi, come in quello di Viareggio un operaio che osasse di raccontare come non venivano fatte le manutenzioni ai carrelli, viene a sua volta condannato perché si era espresso contro l'azienda per cui lavorava. Ecco come siamo messi!
Commenta (0 Commenti)Libertà d'Impresa. Cancellato il compromesso sull’allungamento al 28 agosto voluto dal ministro Orlando. A 4 giorni dal consiglio dei ministri, le pressioni della destra producono la retromarcia sul testo. Nota serale di palazzo Chigi annuncia la gratuità della cig fino a fine anno per le imprese che non licenziano. Il Pd abbozza: confermata la nostra impostazione
A quattro giorni di distanza dall’approvazione in consiglio dei ministri del decreto Sostegni bis Lega e Confindustria vanno a caccia del ministro del Lavoro Andrea Orlando e ottengono da palazzo Chigi la cancellazione del suo compromesso sui licenziamenti.
DOPO GIORNI DI SOMMOVIMENTI, sul Sole24Ore ad Orlando era stata formulata un’accusa che ha del surreale: lo stesso ministro del lavoro del Pd avrebbe inserito la norma che prevede il prolungamento del blocco al 28 agosto per le aziende che chiederanno la cassa Covid a giugno surrettiziamente all’ultimo momento. Una tesi bislacca che come corollario avrebbe il fatto che Mario Draghi si sarebbe fatto sorprendere o – addirittura – avrebbe assistito inerme e inconsapevole alla conferenza stampa successiva in cui lo stesso Orlando spiegava la norma a favore di giornalisti e telecamere.
Questo è stato sostenuto in un retroscena uscito sul quotidiano ieri, imbeccato adeguatamente da Confindustria e dalla Lega.
Le cose naturalmente non stanno così. La norma è stata discussa in consiglio dei ministri e approvata all’unanimità. È vero invece che molti componenti del governo non ne abbiano capito il contenuto e, ancor di più, nei giorni seguenti siano stati richiamati all’ordine da Carlo Bonomi e sodali che volevano tornare a licenziare da fine giugno, come previsto dal decreto Sostegni uno.
Aveva cominciato sabato la sottosegretaria leghista al lavoro Tiziana Nisini sostenendo che la norma «così come scritta dal ministro Orlando non è condivisibile». A lei dava manforte Il Sole 24 Ore confindustriale che ipotizza modifiche in fase di effettiva stesura del testo del decreto.
Ieri la questione è scoppiata politicamente. Da una parte un rincorrersi di imprecisate fonti di governo che parlavano di modifiche alla norma – il decreto non è ancora stato pubblicato in Gazzetta ufficiale – e dall’altra il Pd schierato a difesa di Orlando, a partire dal segretario Enrico Letta: «Sulla questione cruciale del blocco licenziamenti e della cig ho letto critiche superficiali e ingenerose nei confronti del Ministro Andrea Orlando, che lavora, su tema delicato per milioni di italiani, con tutto il nostro sostegno e apprezzamento».
MA A SERA È ARRIVATO LA NOTA di palazzo Chigi a confermare la cancellazione della norma: sparisce la data del 28 agosto e viene resa gratuita la cassa integrazione ordinaria fino alle fine dell’anno. «All’esito di un percorso di approfondimento tecnico svolto sulla base delle proposte del Ministro Orlando in Cdm che prevedono un insieme più complessivo di misure per sostenere le imprese e i lavoratori nella fase della ripartenza, è stata definita una proposta che mantiene la possibilità per le imprese di utilizzare la Cassa integrazione ordinaria, anche dal primo luglio, senza pagare addizionali fino alla fine dell’anno impegnandosi a non licenziare».
PER NON ALZARE completamente bandiera bianca e ammettere la sconfitta, la nota è stata subito seguita da un’altra fatta uscire da «fonti Pd di governo» che rivendicano come «il pacchetto lavoro approvato nel decreto Sostegni bis conferma l’impostazione data dal ministro Orlando con una serie di opzioni a disposizione delle aziende, alternative ai licenziamenti», a partire «dalla cig ordinaria gratuita fino a fine anno per le imprese che si impegnano a non licenziare» per passare «al contratto di rioccupazione a tempo indeterminato, dal rafforzamento del contratto di solidarietà al contratto di espansione per favorire la staffetta generazionale nelle aziende fino agli sgravi contributivi del 100% per i lavoratori assunti nei settori del commercio e del turismo».
LA CRUDA REALTÀ PERÒ È QUESTA: un’azienda che sta uscendo dalla crisi con la norma voluta da Orlando doveva attendere il 28 agosto. Ora potrà licenziare dal primo luglio. Vincono Bonomi e la Lega su tutta la linea.
In realtà la norma proposta da Orlando un problema lo aveva. Creava un disallineamento tra le imprese che chiedono la cassa Covid – gratuita – a giugno e non potevano licenziare fino a fine agosto da una parte e le aziende che chiederanno la cassa integrazione ordinaria – scontata proprio ai sensi della stessa norma – che non possono licenziare (giustamente) finché utilizzano l’ammortizzatore sociale.
DETTO QUESTO, SI TRATTAVA di un aspetto minimale rispetto all’importanza del blocco che viene difeso dai sindacati, nonostante per Cgil, Cisl e Uil rimanga la richiesta della proroga ad ottobre quando dovrebbe arrivare la riforma degli ammortizzatori sociali che permetterebbe di gestire meglio le certe ristrutturazioni aziendali.
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