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  Il lungo tavolo tra le macerie e le case distrutte di Gaza: le immagini dell’Iftar per il primo giorno di Ramadan

Nonostante la distruzione, il numero delle vittime e la devastazione, nonostante la fragilità della tregua tra Hamas e Israele, da tempo si sente parlare del day after, ovvero Gaza il giorno dopo, da chi sarà governata e in quale modo.
Con l’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca tutte le ipotesi precedentemente circolate sono finite nel nulla.
Il presidente Usa ha lanciato un’idea molto pericolosa non solo per Gaza ma per la sicurezza nazionale dell’intero mondo arabo, per non parlare della causa del popolo palestinese. Pubblicamente quasi tutto il mondo arabo e soprattutto i paesi interessati (l’Egitto e la Giordania)
hanno dichiarato la loro contrarietà al progetto, in primis a deportare i palestinesi. In questi contesti è giusto ricordare: fidarsi bene, non fidarsi è meglio.

L’idea del presidente Trump è un’idea mista di carattere politico ma anche affaristico, perché molti osservatori internazionali mettono in evidenza la recente scoperta dei giacimenti di gas a Gaza che valgono oltre 62 miliardi di dollari, oltre certamente agli aspetti immobiliari.

Il fatto eclatante e molto preoccupante non è la proposta del presidente Usa, che ha provato nel suo mandato precedente a liquidare la causa palestinese, quanto la reazione dell’intera comunità internazionale che si è affidata ai comunicati e alle dichiarazioni a mezzo stampa.
Il mondo arabo e con esso l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp) hanno attraversato vari periodi critici, di spaccatura, di divisione, ma anche di instabilità: basti pensare alle varie guerre con Israele, l’invasione del Libano da parte di Israele, l’invasione e la
distruzione dell’Iraq. Il contesto attuale della regione è completamente diverso e l’equilibrio geopolitico a livello mondiale è in stato di trasformazione, per cui il mondo arabo e l’Olp si trovano ad affrontare scelte complesse per salvaguardare la loro sicurezza nazionale e il diritto del popolo palestinese all’autodeterminazione.

Ciò che è evidente è che si discute di chi potrebbe governare Gaza senza coinvolgere i diretti interessati, ovvero i palestinesi o meglio dire chi li rappresenta, cioè l’Olp in quanto unico e legittimo rappresentante del popolo palestinese. Oggi ci sono voci che si alzano anche in campo palestinese, e non solo, che cercano di mettere in discussione questo riconoscimento e ruolo dell’Olp. A tal proposito vorrei ricordare che l’Olp ha avuto questo riconoscimento e ruolo nella riunione della Lega Araba svoltasi a Rabat in Marocco nel lontano 1974. Una decisione molto importante che ha dato l’opportunità allo stesso Olp non solo di rappresentare e parlare al nome del popolo palestinese, ma anche, come conseguenza di questa decisione, l’Olp ha avuto un seggio in qualità di Osservatore alle Nazioni Unite.

In questi 51 anni l’Olp non solo ha conservato viva la causa ma ha anche stipulato i famosi accordi di Oslo che hanno dato vita all’Autorità Nazionale Palestinese.
Nessuno nega la debolezza attuale dell’Olp, ma questo non autorizza nessuno a creare un soggetto alternativo perché significherebbe pescare nell’acqua torbida.

Prima di parlare del giorno dopo a Gaza sarebbe più coerente e più realistico consolidare la fragile tregua e trasformarla in un cessate il fuoco permanente e fine della guerra, permettendo l’ingresso degli aiuti umanitari per la popolazione. Per poi elaborare un vero ed effettivo percorso con tempi precisi e certi per la nascita dello Stato palestinese, secondo il diritto e la legalità internazionale.
Parlare del giorno dopo a Gaza nei salotti e nelle cancellerie internazionali senza interpellare e coinvolgere i diretti interessati, che stanno lottando da circa cento anni per la loro libertà, non è altro che un’ipocrisia politica.

L’Unione europea sta facendo tutto il possibile per avere un posto al tavolo delle trattative tra gli Usa e la Russia per il processo di pace in Ucraina: come può pretendere questo diritto e contemporaneamente non riconoscere il diritto del popolo palestinese a partecipare
attivamente al giorno dopo? Come intende gestire un territorio così devastato?

Dopo circa cento anni di lotta, con tutto ciò che ha comportato in termini di lutti, devastazioni e distruzioni, il periodo dei mandati, del vecchio e nuovo colonialismo è finito e non può in nessun modo ritornare. Il popolo palestinese è in grado di autogovernarsi da solo, certamente deve superare la questione della divisione interna, che spesso viene strumentalizzata dai soggetti interni ed esterni.

Infine, credo che i movimenti politici palestinesi - quelli laici che fanno parte dell’Olp e quelli di matrice religiosa - abbiano il diritto ed il dovere di trovare un denominatore comune e di essere al livello della loro responsabilità, perché la posta in gioco è la stessa causa
palestinese.

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Luciano Canfora

Professor Canfora, le chiediamo lumi: cosa sta succedendo nel pianeta?

La nuova amministrazione statunitense a guida repubblicana, ed è tutto fuorché una sorpresa, ha ripreso a tessere rapporti con la Russia, mentre l’Europa è talmente slabbrata al suo interno da considerarsi politicamente ininfluente.
Donald Trump è rientrato alla Casa Bianca più esuberante che mai, e non va dimenticato che il presidente Usa è prima di tutto un uomo di affari…
Sta succedendo quello che durante l’amministrazione dei democratici, con Joe Biden presidente, veniva nascosto.
Cioè che la Nato a trazione statunitense aveva deciso tre anni fa di sfasciare la Federazione Russa, così come nel 1999 e nel 2000 l’Alleanza Atlantica aveva sfasciato la Federazione Jugoslava, con un intervento militare di cui fecero parte anche le forze armate italiane. Ma questo
giuoco, costato centinaia di migliaia di vite, enormi sofferenze alla popolazione civile e terribili distruzioni, oggi non conviene agli Stati Uniti. Lo abbiamo capito dal trionfo elettorale di Trump. Non conviene perché è una guerra che non aiuta minimamente l’economia americana,
mentre invece fa comodo ad altre economie che producono armi vendute all’Ucraina. Una situazione che evidentemente era impossibile ritenere durasse a lungo.
Ora si svela il giuoco. La cosiddetta Europa, cioè quella specie di cumulo che è l’insieme dell’Unione europea, oggi si trova a discutere con un muro, avendo portato avanti una politica totalmente stupida, e caricata di una propaganda priva di qualunque fondamento.

L’unica cosa su cui gli Stati europei sembrano essere d’accordo è il riarmo. Lo annuncia il nuovo governo tedesco, ha già iniziato a farlo un’Inghilterra curiosamente tornata europeista in questo ambito, Francia e Italia non vogliono essere da meno. Cosa ne penserebbero Altiero Spinelli e gli stessi Alcide De Gasperi e Konrad Adenauer?

Ora parlano di questo riarmo, poi bisognerà vedere concretamente che cosa saranno capaci di fare nella realtà.
Se si tratta soltanto di produrre armi, lo facciamo da tanto tempo: le vendiamo al Sudan, al Ciad, le vendiamo ai quattro angoli del pianeta per fare soldi sulla morte e sulle sofferenze degli altri. Questo è lo stato delle cose.
Dopodiché, la cosiddetta difesa unica europea non ci sarà mai perché non c’è fra gli Stati un accordo che la renderebbe possibile. Ammesso che riesca a diventarlo, il nuovo cancelliere tedesco Friedrich Merz si illude di avere un ruolo direttivo. Peraltro il suo risultato elettorale non è stato un granché, anzi possiamo dire che è stato pessimo. Il peggiore della Cdu da quando esiste la Cdu.
Però i nostri quotidiani, molto buffi e sempre pronti a travisare la realtà, strillano che Merz è il vincitore delle elezioni. Si arrangino. Nel senso che chiunque creda alla propria propaganda si rovina con le sue stesse mani.
Ora Merz e la sua Cdu-Csu si metterà d’accordo con il cancelliere uscente e sconfitto Olaf Scholz? O con chi lo sostituirà alla guida dei socialdemocratici tedeschi? E’ probabile che Merz ce la farà. Ma questo non basterà certo a imporre agli altri paesi europei di unificare 27 comandi militari in un unico comando. In definitiva stiamo assistendo a tutta una serie di discorsi vuoti da parte di coloro che non si rassegnano alla nuova realtà. Sembra tutto un po’ cialtronesco.

Perfino Mario Draghi, che nel suo rapporto sulla competitività nell’Ue si era illuso che fosse inscalfibile il Patto Atlantico fra Europa e Stati Uniti, ha dovuto ammettere di essersi sbagliato. Che ne pensa, professore?

L’ex presidente della Banca centrale europea e di tante altre cose ha avuto un sussulto di sincerità. Povero Draghi, sarà un esperto economista ma certo non è un politico.
Quando parla di politica, in particolare di quella internazionale, magari può prendere qualche cantonata.
Mi ricordo che insultò il presidente turco Erdogan definendolo senza mezzi termini come un dittatore. Forse Erdogan lo ha perdonato, potrebbe anche essere...

In questo bailamme l’analisi più azzeccata sembra essere quella di Maurizio Landini: il mercato e il profitto si sono fatti Stato negli Usa, vedi le mire sulla Groenlandia, quelle sulla striscia di Gaza per farne un resort cacciando i palestinesi anche da lì, e il cessate il fuoco in Ucraina solo per prendersi le terre rare. Trionfa il capitale e viene sconfitta la democrazia, e con essa i suoi vincoli sociali.

Il capitalismo e la democrazia non sono mai andati d’accordo.
Il segretario generale della Cgil ha perfettamente ragione. Anzi, il capitalismo ha come suo principio la gerarchia, il comando del più forte, di chi ha il capitale.
La democrazia è l’esatto contrario. I nostri media, quelli grossi, che vivono un po’ così, nelle nuvole, ci ripetono in continuazione che il capitalismo e la democrazia sono fratelli siamesi. Sarebbe tempo che cominciassero a svegliarsi.

Lei che riesce a analizzare impeccabilmente la politica contemporanea, da grande esperto della filologia e della politica antica, non ha certo la sfera di cristallo ma la domanda è obbligata: come andrà a finire?

Nella migliore delle ipotesi potremmo arrivare a un nuovo equilibrio mondiale tra le grandi potenze, Stati Uniti, Russia e Cina. Nella peggiore potrebbe invece succedere che, come avviene talvolta negli Stati Uniti, venga ammazzato il presidente. Negli Usa è già successo altre volte,
negli Stati Uniti si fa così. Gli americani dovrebbero presentare un altro presidente, e l’attuale suo vice è detestato dai governicchi europei e di riflesso dai loro media, dato che è venuto a Monaco e ha detto loro alcune verità.
Certo, questa ipotesi di un nuovo presidente sarebbe traumatica e molto grave, ma non è probabile che diventi realtà. Più probabile la prima ipotesi, quella di un nuovo equilibrio mondiale fra i tre più importanti attori dello scenario geopolitico.

Un’ultima domanda: non le sembra che nessuno, proprio nessuno fra i padroni del vapore stia spendendo una sola parola per dire che aveva ragione chi, come Papa Bergoglio, chiedeva quotidianamente di negoziare per evitare la guerra russo-ucraina, così come il terrificante tentativo di genocidio del popolo palestinese ad opera dello stato di Israele?

Nessuno dei governi europei reciterà il mea culpa, non lo faranno mai. Non lo faranno mai semplicemente perché sono pagati per fare il contrario.
Ricoverato da giorni al Policlinico Gemelli, Papa Francesco parla del conflitto russo-ucraino come di “una ricorrenza dolorosa e vergognosa per l’intera umanità”. Una delle tante. Mentre rinnova la sua “vicinanza al martoriato popolo ucraino”, ricorda le vittime di tutti i conflitti armati e invita a pregare per il dono della pace in Palestina, in Israele e in tutto il Medio Oriente, in Myanmar, nel Kivu e in Sudan.

Insomma, il Papa sembra l’unica voce fuori dal coro, per la pace contro la follia della guerra e del riarmo?
Esatto.  E non vorrei pensare che loro sperino che la malattia del Pontefice si aggravi. Mentre noi invece speriamo il contrario.

(26 febbraio 2025)

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Difesa comune La Nato non è riuscita, di fatto, a raggiungere il suo 76° compleanno, che cadrà il 4 aprile prossimo. Lunedì scorso l’amministrazione Trump ha presentato al Consiglio di sicurezza dell’Onu […]

L’Alleanza atlantica è morta, qualcuno dovrà pur dirglielo

 

La Nato non è riuscita, di fatto, a raggiungere il suo 76° compleanno, che cadrà il 4 aprile prossimo. Lunedì scorso l’amministrazione Trump ha presentato al Consiglio di sicurezza dell’Onu una risoluzione che chiedeva una rapida fine del conflitto in Ucraina senza alcun riferimento all’invasione russa o all’integrità territoriale di quest’ultima. Dopo varie schermaglie, con la bocciatura degli emendamenti proposti da Francia, Slovenia, Grecia, Danimarca e Regno unito, il documento è stato approvato con i voti di Stati uniti, Russia e altri otto paesi mentre Parigi e Londra si sono astenute. In altre parole, sulla guerra in Ucraina gli Stati uniti hanno votato assieme a Vladimir Putin.

I leader europei si ostinano a pensare che l’alleanza atlantica, solennemente entrata in vigore il 24 agosto 1949, esista ancora. Emmanuel Macron e Keith Starmer si sono precipitati a Washington per chiedere a Trump di usare almeno le buone maniere, e la risposta del gangster-in-chief non si è fatta attendere: insulti e umiliazioni a quello che dovrebbe essere il principale alleato, Volodymyr Zelensky, in mondovisione, l’altro ieri.

C’è da stupirsi? Per chi ha una visione realistica delle relazioni tra Europa e America non proprio. La Nato è sempre stata un’appendice degli Stati uniti: chi volesse farne parte, per esempio, dovrebbe depositare «il proprio strumento di adesione presso il governo degli Stati uniti d’America» che poi informerà gli altri membri (art. 10). E se l’articolo 1 precisa che i membri devono «astenersi nei loro rapporti internazionali dal ricorrere alla minaccia o all’uso della forza assolutamente incompatibile con gli scopi delle Nazioni unite» ci si potrebbe chiedere quante volte i governi di Washington hanno rispettato questa clausola fino ad oggi (grosso modo, mai). Consultare le cronache di ciò che è avvenuto in Serbia, Libano, Iraq e Afghanistan, giusto per citare i soli casi avvenuti dopo lo scioglimento dell’Unione Sovietica nel 1991.

Oggi i leader europei sono «inorriditi» da Trump ma quanto tempo è passato dalle sue dichiarazioni sull’annettersi la Groenlandia, parte della Danimarca quindi di un altro paese fondatore della Nato? Meno di due mesi: era il 7 gennaio e Trump non era neppure entrato in carica. Qualcuno ha fatto caso alle dichiarazioni, lo stesso giorno, riguardanti il Canada, che secondo lui dovrebbe diventare il 51° stato dell’Unione? Apparentemente no, benché il Canada sia un altro dei paesi fondatori dell’alleanza. Meloni, Macron e Starmer hanno letto l’articolo 4 del Trattato, che specifica: «Le parti si consulteranno ogni volta che (…) l’integrità territoriale, l’indipendenza politica o la sicurezza di una delle parti fosse minacciata»? Magari una telefonata al primo ministro danese Mette Frederiksen o a quello canadese Justin Trudeau sarebbe stata un gesto di cortesia.

La realtà è che la situazione attuale viene da lontano e che i governi europei hanno sempre fatto la politica dello struzzo, pensando che gli Stati uniti fossero un protettore affidabile, benché a tratti bizzoso. Adesso Trump ha detto, fatto e mostrato al mondo che gli “alleati” non esistono più: esistono soltanto dei paesi collocati alla periferia dell’Impero, che devono pagare il giusto tributo a Washington. Che il tributo venga versato sotto forma di acquisti di aerei, missili, droni, satelliti o altra chincaglieria bellica oppure sotto forma di dazi del 25% sulle auto tedesche, il prosecco italiano, la moda francese o il tè inglese ha poca importanza, purché paghino.

Oggi l’Italia spende circa 32 miliardi di euro l’anno per la difesa, l’1,3% del prodotto interno lordo, ma l’amministrazione Trump chiede il 3%, ovvero 74 miliardi di euro, se non il 5%, che sarebbero 123 miliardi di euro. Una bella sommetta: oggi spendiamo circa 79 miliardi per l’istruzione: chiuderemo asili, scuole e università per trasformarli in aerei F-16 e altri gadget? Se dovessimo arrivare a 123 miliardi chiuderemo ospedali, ambulatori e farmacie, che oggi assorbono poco di più, 136 miliardi?

Queste cifre rimangono tali anche nell’improbabile ipotesi che l’Unione europea decida di fare quello che non ha fatto tra il 1957 e oggi e cioè dotarsi di una difesa comune. Se ci fosse un sussulto di orgoglio europeo causato dalla maleducazione di Trump, un buzzurro che non sa tenere le posate a tavola, mettere in piedi un esercito ex novo richiederebbe spese enormi non solo per gli armamenti veri e propri ma anche per il coordinamento e l’addestramento di truppe provenienti da 27 paesi con altrettante lingue diverse, tradizioni diverse e quant’altro. Senza contare il fatto che la Costituzione italiana «ripudia la guerra» (art. 11) e quella tedesca ammette l’uso delle forze militari soltanto nell’ambito di «un sistema di reciproca sicurezza collettiva». Quella sicurezza collettiva che Trump ha esplicitamente ripudiato lunedì scorso.

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Fallimento europeo Tra le reazioni all’incontro di venerdì alla Casa bianca, colpisce quella di Stathis Kalyvas, pubblicata “a caldo” su X: «Lo scambio Trump-Zelensky è la migliore illustrazione moderna del dialogo tra […]

Il senso perduto della «guerra», e del diritto

Tra le reazioni all’incontro di venerdì alla Casa bianca, colpisce quella di Stathis Kalyvas, pubblicata “a caldo” su X: «Lo scambio Trump-Zelensky è la migliore illustrazione moderna del dialogo tra i Melii e gli Ateniesi di Tucidide. Ma non è sempre stato così. Dopo la seconda guerra mondiale il mondo aveva fatto grandi passi avanti. All’improvviso tutto è crollato». Kalyvas è greco, ma insegna nel Regno Unito, dove ricopre una prestigiosa cattedra di scienza politica a Oxford. La sua osservazione non ha soltanto l’autorevolezza che viene da una vita trascorsa a studiare i conflitti, ma anche la profondità di prospettiva storica che è frutto di una solida cultura classica.

Una delle cose che suscitano maggiore sconcerto, seguendo le reazioni all’umiliazione subita da Zelensky nel corso del suo dialogo con il presidente statunitene Trump e il suo vice Vance, è proprio l’assoluta mancanza di prospettiva storica di buona parte dei leader europei e statunitensi che si sono affrettati a consegnare ai social la propria indignazione, e solidarietà con il presidente ucraino, utilizzando lo stesso linguaggio legnoso con cui avrebbero potuto commentare una sconfitta della squadra del cuore nella finale di un torneo internazionale, o i problemi di salute di una celebrità televisiva.

A forza di abusare di termini come «guerra» (al debito pubblico, al cancro, alla disinformazione) se ne perde il senso materiale e morale, che invece è ben presente a tanti ucraini che ne fanno esperienza. A contatto con il mondo reale, con le cronache di un conflitto sanguinoso che dura da anni, le espressioni bellicose suonano vuote come le invocazioni di regole e principi del diritto internazionale. Scorrendo la lunga lista di capi di stato e di governo, di intellettuali e di opinionisti che si sono indignati per il trattamento ricevuto da Zelensky, si fatica a trovarne qualcuno che abbia espresso sentimenti simili mentre Israele faceva a pezzi regole e principi massacrando donne e bambini in Palestina. Gli inviti a «scendere in piazza» in difesa dei «nostri valori» stridono in modo insopportabile dopo Gaza. Che pochi si siano posti il problema di questo «doppio standard» giuridico e morale nelle classi dirigenti europee e occidentali è un sintomo che non lascia presagire nulla di buono per il futuro.

La messa in scena di Washington – nella quale Zelensky ha saputo comunque dar prova di dignità pari a quella degli ambasciatori di Melo nel dialogo con gli emissari di Atene, il potere imperiale egemone – sembra sia stata un brusco risveglio per una classe dirigente che si è formata all’ombra della fine della guerra fredda, imbevuta di una visione della società e della storia che rimuoveva completamente il conflitto dalla politica, e sostituiva l’amministrazione delle cose al governo delle persone. Eppure non è la prima volta che il volto brutale della forza («per legge di natura chi è più forte comanda», dicono gli ateniesi ai melii) si è mostrato negli ultimi decenni. L’architettura faticosamente messa in piedi dopo la seconda guerra mondiale, come ha ricordato Kalyvas, era motivata dall’aspirazione di sostituire il diritto alla forza. Gli aspetti migliori del processo di integrazione europea erano animati dalla stessa volontà, rafforzata dalla determinazione di chi era sopravvissuto a due guerre mondiali. Dopo il 2001 questo spirito si affievolisce, e con esso si perde la consapevolezza che, come affermava Kant, un’ingiustizia ovunque nel mondo è un torto per chiunque.

Oggi ci troviamo in una situazione in cui Tucidide appare più rilevante dei discorsi motivazionali di manager e banchieri prestati alla politica. Chi è debole non può permettersi di buttare i dadi più di una volta, dicono gli emissari di Atene ai melii, e come non pensare ai richiami alle “carte” fatti da Trump discutendo con Zelensky?

Se non hai più carte da giocare non ha senso affidarsi alla speranza (un altro motivo tucidideo echeggiato alla Casa bianca). C’è tuttavia un aspetto della situazione attuale che si distingue in modo significativo dal dialogo tra gli ateniesi e i melii come lo ricostruisce Tucidide: la pubblicità. Gli ambasciatori di Atene si incontrano soltanto con i magistrati di Melo. Proprio questa segretezza consente a entrambi di esporre le proprie ragioni in modo franco e lascia spazio alla brutalità del linguaggio degli ateniesi. La conversazione tra Zelensky, Trump e Vance era invece pensata per avere un impatto mediatico, a casa e fuori. Questa è forse la chiave di lettura su cui dovremmo concentrarci riflettendo su quanto è accaduto venerdì a Washington.

Mario Ricciardi, insegna filosofia del diritto all’Università Statale di Milano ed è direttore la rivista del Mulino.

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Nuovo medioevo Scene di caccia e di guerra alla Casa bianca. Davanti a Trump, Zelensky ha cercato disperatamente di difendere le sue ragioni e quelle dell’Ucraina. Ma si è accorto troppo tardi […]

Per il ras americano Ucraina ed Europa sono solo comparse

 

Scene di caccia e di guerra alla Casa bianca. Davanti a Trump, Zelensky ha cercato disperatamente di difendere le sue ragioni e quelle dell’Ucraina. Ma si è accorto troppo tardi che il famoso accordo sulle terre rare era una trappola per attirarlo a Washington e far rotolare la sua testa sul tavolo del negoziato tra gli Stati uniti e la Russia di Putin.

Trump ha rovesciato completamente la narrazione – la Russia non è più l’aggressore – e ha spazzato via i principi del diritto internazionale e di qualsiasi etica che l’Europa proprio in Ucraina ha voluto difendere.

Vale solo il diritto del più forte, la violenza, esattamente come accade tra gli israeliani e i palestinesi, cosa sui cui gli europei dovrebbero riflettere: se sulle leggi internazionali e i principi cedi da una parte prima o poi sarai costretto a cedere anche da un’altra.

Trump ha incalzato Zelensky con argomenti falsi – sapendo benissimo che lo sono – e alla fine, sparando bordate come in una caccia al cinghiale, lo ha costretto alla fuga.

È evidente che non vuole che si sieda al tavolo del negoziato, questa si può azzardare come la prima conclusione di un incontro dove la rissa, fortemente voluta da Trump e dal suo vice Vance, ha sostituito la diplomazia: non credo si sia mai vista un cosa simile alla Casa bianca.

Gli europei devono tenerne conto adesso che vanno a Londra per discutere sulla difesa. Nella logica di Trump tocca a loro pagare un eventuale tregua in Ucraina ma anche finanziare la Nato se vorranno ancora contare sull’ombrello americano. E se verranno mai invitati al negoziato tra Usa e Russia dovranno versare una lucrosa quota di ingresso per sedersi al tavolo.

Un altro punto è apparso chiaro. Per Trump la «pace giusta», la formula cui si aggrappano costantemente gli ucraini e gli europei, non esiste. Al massimo c’è solo una «pace possibile», che non si ottiene con il consenso delle parti ma nell’unico modo concepito dal presidente americano: con un suo diktat e i suoi accordi con Putin.

Nella sua visione del mondo gli ucraini e gli europei sono solo comparse e se vogliono la pace – questo è il suo ragionamento – la devono pagare cara. Lo ha detto lui stesso quando gli è stato chiesto se ritiene di essere dalla parte dell’Ucraina o un mediatore: non sono con nessuno, è stata la sua risposta, ma per gli interessi degli Stati uniti. Una riedizione di una vecchia frase di Churchill secondo il quale «gli stati non hanno amici ma interessi».

Lo scontro della Casa bianca va oltre la guerra in Ucraina e i confini europei. Qualunque leader o governo se invitato in futuro alla Casa bianca per firmare un accordo si chiederà se va incontro a un’intesa o a una trappola. Per primi se lo domanderanno i cinesi e poi noi e tutti gli altri.

Trump si sente legibus solutus, non intende rispondere a nessuno delle sue parole e dei suoi atti: agisce anche in preda allo stato d’animo del momento, visto che ieri a un certo punto è diventato paonazzo in volto mentre redarguiva e insultava Zelesnky.

Non bisogna comunque pensare che tutto questo sia dovuto al caso o frutto delle stravaganze di un leader. Molto è stato pianificato negli ultimi quattro anni non solo in politica estera ma anche all’interno, come dimostra la raffica di ordini esecutivi presidenziali firmati in un mese da Trump. Il suo è un attacco al deep state Usa, quello che ritiene il suo vero nemico. Noi, ai suoi occhi, siamo solo vassalli da usare come portantini in una battuta di caccia. Fine dell’Occidente conosciuto e inizio del nuovo medio evo.

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Sanità Da anni assistiamo a scelte politiche che rafforzano l’idea che la salute sia una merce, invece è un diritto sociale e di libertà sancito dalla Costituzione. Incontro a Firenze di 120 associazioni

Per sostenere la sanità pubblica rompiamo il silenzio

 

Dopo molte mobilitazioni sui temi della sanità – spesso circoscritte a ambiti specifici o a vertenze sindacali – si apre l’occasione di una convergenza inedita. Sono oltre 120 le associazioni che hanno aderito all’appello «Non possiamo restare in silenzio» per sostenere la sanità pubblica e che si sono incontrate di recente a Firenze. Oltre ai promotori – Salute Diritto Fondamentale, Associazione Giovanni Bissoni, Laboratorio Salute e Sanità, Associazione Prima la Comunità, Associazione Alessandro Liberati, Salute internazionale, Cittadinanzattiva, Gruppo Abele, Forum Diseguaglianze e Diversità – molte altre associazioni hanno condiviso l’impegno per il rilancio e rafforzamento del Servizio sanitario nazionale (Ssn), nella necessità di invertire la rotta delle politiche attuali.

SE SOLO SI GUARDA alla Legge di Bilancio, come ha sottolineato Nerina Dirindin, le risorse reali per la sanità pubblica per il 2025-2027 sono del tutto insufficienti: in rapporto al Pil la spesa per quest’ultima si ferma a poco più del 6%, e si prevede un’ulteriore diminuzione. Non ci sono risorse aggiuntive per il personale sanitario a cui da tempo non viene dato il necessario riconoscimento professionale e salariale; e viceversa si permette un aumento del 2% del tetto di spesa per l’acquisto di prestazioni dal privato.

Da anni assistiamo all’indebolimento della sanità pubblica, a un dirottamento delle risorse pubbliche al privato accreditato, e anche la questione delle liste di attesa viene oggi affrontata con queste modalità. Le scelte politiche rafforzano gli spazi del mercato – un mercato sempre e comunque assistito dal pubblico -, le logiche di profitto, gli interessi particolaristici che aggravano le diseguaglianze sociali e le disparità territoriali. Si estendono approcci prestazionali ben lontani dai bisogni reali delle persone, con un’impostazione che considera la salute una merce, invece che un diritto garantito dal welfare pubblico, un diritto sociale e di libertà come sancito dalla Costituzione. Anziché rafforzare la rete dei servizi territoriali, fare in modo che strutture di prossimità funzionino adeguatamente per rispondere ai bisogni socio-sanitari della popolazione si continuano a privilegiare logiche corporative e interessi di settore. La prevenzione continua a restare la Cenerentola del sistema, e anzi viene confusa con la diagnosi precoce, senza una visione sistemica su come intervenire sui determinanti della salute, che riguardano le condizioni di vita, ambientali e di lavoro delle singole persone e della collettività.

LE POLITICHE DEL GOVERNO e di regioni come la Lombardia si muovono sulla base di una declinazione selettiva dell’universalismo, un regionalismo competitivo lontano da prospettive cooperative e solidali, una messa in discussione dei principi di uguaglianza e di uniformità territoriale dei servizi all’origine del Ssn.

Si punta alla costruzione di un “secondo pilastro” mutualistico-integrativo-assicurativo del sistema sanitario. Tutto questo nonostante sia evidente che le coperture assicurative non migliorano il livello di assistenza, non garantiscono alcuna equità, né tanto meno la tutela della salute di tutti e tutte. La sanità privata viene a disegnarsi su misura degli interessi economici e finanziari delle grandi società che considerano la salute un mercato con grandi opportunità di crescita e profitto.

SUI NODI DELL’AUTONOMIA differenziata, Gaetano Azzariti, Gianfranco Viesti e Vasco Errani hanno sottolineato come la dichiarazione di incostituzionalità della legge Calderoli sancita dalla Consulta apra una nuova partita, sia sul piano parlamentare, sia su quello sociale, rispetto alla quale è necessaria una forte volontà politica. Rosy Bindi ha ricordato che i problemi della sanità riguardano l’intero paese, e ha prospettato la possibilità che i gruppi parlamentari di opposizione presentino un disegno di legge volto a recepire le indicazioni della Corte costituzionale in materia.

Dall’incontro fiorentino si avvia un percorso di analisi e proposte comuni alla luce di una crescente partecipazione. Serve una visione alternativa alla retorica secondo cui non possiamo più permetterci un Servizio sanitario pubblico, falsamente dichiarato «insostenibile». Quello che non possiamo permetterci è invece il silenzio. La scommessa è costruire – a partire dalle mobilitazioni in corso – convergenze sulla priorità della salute tanto nell’allocazione delle risorse nazionali, quanto in un rinnovato modello di sanità pubblica e di cura.

Chiara Giorgi

Insegna storia contemporanea alla Sapienza, Università di Roma. I suoi temi di ricerca sono l’evoluzione dei sistemi di sicurezza sociale e welfare, la storia della salute e della sanità, la storia del socialismo, la storia delle donne, alcuni temi riguardanti la storia del marxismo

 

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