Germania al voto Dialogo tra Jan van Haken, capolista della Linke e il portavoce della politica di disarmo della Spd, Ralf Stegner. Divisi ma non confusi: «Se lasciamo il movimento per la pace a populisti e ultra-destra, buonanotte»
Una manifestazione pacifista a Berlino – foto Fabian Sommer/Ap
Il confronto fra lo Spitzenkandidat della Linke, Jan van Aken, e il portavoce della politica di disarmo della Spd, Ralf Stegner, restituisce le prove di dialogo fra le anime pacifiste della Germania, sparpagliate ma tutt’altro che confuse. Così lontane, così vicine: a poche ore dal voto due voci autorevoli della sinistra tedesca discutono insieme di guerra e pace e soprattutto del nuovo rapporto fra Europa e Usa che cambia, non solo il futuro della Germania.
Signor Stegner, Trump ha aperto la porta alla pace in Ucraina telefonando a Putin e annunciando i negoziati. Un passo avanti, anche se governa in modo autoritario e ha consegnato il potere politico ai boss delle imprese?
In linea di principio tutto ciò che va nella direzione di chiudere la guerra può essere inizialmente positivo, ma non sono particolarmente fiducioso che finisca così. Una decisione presa senza Ucraina ed Europa probabilmente non andrà bene. Potrebbe finire come in Afghanistan dove gli Usa hanno solo raggiunto un accordo con i Talebani e il risultato è stato la disfatta. L’idea che Trump si accorda con Putin, prende le risorse naturali dell’Ucraina e poi gli europei inviano le truppe in sua difesa è avventata. Ma la guerra deve finire prima possibile.
Van Aken, da tempo la Linke chiede cessate il fuoco e trattative e pensa che l’adesione dell’Ucraina alla Nato è un problema. Il governo Usa si muove quindi nella giusta direzione?
Non è la nostra posizione. Non spetta a noi decidere se debba entrare, solo gli ucraini possono farlo. Sono convinto che per la Russia sia molto importante che l’Ucraina non entri nella Nato – dato che l’ha posta come condizione per il cessate il fuoco – ma sarebbe fatale se dal negoziato Trump-Putin uscisse una “pace dettata” a Kiev. Vedremo, Al momento sembra che gli Usa stiano gettando l’Ucraina sotto l’autobus perché si aspettano di trarre vantaggi dall’accordo con la Russia.
L’anno scorso Rolf Mützenich della Spd fece scalpore con il suo appello a congelare il conflitto. Non è ciò che dicono ora gli Usa?
Stegner – No. Mützenich è stato criticato ingiustamente. Non parlava di permafrost, ma della necessità di tregue regionali temporanee per avviare i negoziati. All’epoca chi parlava di diplomazia era bollato come amico di Putin e pro-appeasement. Oggi possiamo constatare che chi ha puntato solo sulla logica militare si sbagliava: la convinzione che Putin potesse essere tirato con la forza al tavolo dei negoziati non si è concretizzata. Però non mi sta bene neppure la prospettiva di assoggettare l’Ucraina di Afd e Bsw. Sosteniamo Kiev nella sua difesa e allo stesso tempo sollecitiamo gli sforzi diplomatici.
Van Aken – Sembra un déjà vu. Ho passato 8 anni al Bundestag a discutere contro l’impiego della Bundeswehr in Afghanistan. Mi hanno sempre risposto così: Volete davvero abbandonare le ragazze afgane? Dopo 20 anni, la Bundeswehr è stata evacuata ed era chiaro che la missione era fallita. La Linke ha ribadito la necessità di negoziare ma anche che per farlo abbiamo bisogno di Cina e Brics. Non ci hanno mai ascoltato. Ora arriva Trump e sembra voler svendere l’Ucraina, e l’Europa è scioccata. Gli Usa stanno sbagliando ma si è trascurato di promuovere un’iniziativa con la Cina.
Si può raggiungere un accordo che includa la rinuncia ai territori occupati o così si prolunga solo il conflitto?
Stegner – Difficile giudicare. L’esperienza dimostra che a volte ci vuole un po’ di tempo prima che gli eventi si sviluppino in direzioni accettabili. La diplomazia è noiosa e nascosta; al contrario qualsiasi idiota può parlare pubblicamente di armi anche se non distingue un ombrello da una pistola.
Van Aken – Guardo alla soluzione che fu adottata per la Saar (che oggi è un Land della Germania, ndr) dopo la Seconda guerra mondiale. Per molti anni non fu chiaro quale fosse il suo posto in Europa prima dei referendum tra la popolazione. Qualcosa di simile è stato preso in considerazione anche per l’Ucraina a Istanbul 2022.
L’accordo deve essere accettato dalla maggioranza degli ucraini. Ma nessuno sa cosa vogliano davvero né di quanto sostegno goda ancora Zelensky.
Van Aken – Sono stato in Ucraina prima delle elezioni Usa e ho parlato con le organizzazioni umanitarie chiedendo cosa si aspettassero dal voto. Ho riscontrato la totale mancanza di interesse. Molti mi hanno risposto di essere allo stremo delle forze, che continuano a fare il necessario ma senza prospettive. I nostri compagni di sinistra ci hanno spiegato che più ci si avvicina al fronte, più la gente è disposta a dare qualcosa per la pace. L’umore è difficile da valutare, anche se credo che alla fine ci sia la possibilità di accettare un accordo. Certo mi sono reso pure conto che Zelenskyi ha problemi di politica interna, ma onestamente temo che gli ucraini non abbiano più valide scelte: la guerra deve finire.
Con gli accordi di Minsk del 2014 questa cornice non sembra aver funzionato.
Stegner – Se qualcosa non ha funzionato una volta, non significa che non lo farà mai.
L’Ue è stata tagliata fuori dall’iniziativa Usa, e la prima cosa che i leader europei dicono è: mandiamo le nostre truppe. Qual è la logica politica?
Stegner – È una pseudo-verità che riguarda le condizioni critiche che prevalgono in Europa dove governi e partiti nazionalisti sono le versioni in miniatura dell’America first. Prima l’Austria! Prima l’Ungheria! E così via. Non voglio che lo stile-Trump diventi il modello in Europa, dobbiamo trovare altre strade e serve più cooperazione fra democratici.
È possibile immaginare i soldati tedeschi in Ucraina come parte di una forza di pace?
Van Aken – No. Devi pensarci tre volte quando parli di un soldato tedesco poco prima di Stalingrado. Il vero nodo è: di che tipo di peacekeepers si tratta? Non è chiaro. Si ipotizza che alcuni Stati Ue possano inviare truppe in Ucraina, ma prima o dopo il cessate il fuoco? Posso solo immaginarlo nel formato dei caschi blu Onu dopo che tutte le parti hanno accettato. Sono osservatori neutrali e disarmati e fanno ciò da tempo in Corea e a Cipro. Qualsiasi alternativa è folle. Tutte gli altri tipi di missioni sono falliti.
La politica di sicurezza Ue è declinata quasi solo in termini militari. Il ministro della difesa Pistorius della Spd vuole moltiplicare il bilancio della Bundeswehr. Come può il suo partito, che lei considera parte del movimento pacifista, risultare credibile?
Stegner – Capisco che il ministro faccia il suo lavoro e parli dello stato della Bundeswehr. Non nego che la Germania debba essere capace di difendersi, ma sono contrario a leggere negli occhi dell’industria bellica i loro desideri diventando il campione mondiale delle esportazioni di armi. Obiettivi irreali come 5% del Pil per le armi sono l’ultima cosa che possiamo permetterci. Non c’è alcuna carenza di armi nel mondo, mentre mancano risorse per risolvere fame, distruzione dell’ambiente e le cause dei movimenti migratori. Se lasciamo il movimento per la pace a populisti e ultra-destra, allora buonanotte!. Nella Spd mi batto per avere la maggioranza attorno a questa posizione.
E la sua approvazione del fondo speciale da 100 miliardi di euro per la Bundeswehr?
Stegner – Sono a favore perché la Bundeswehr si trova in uno stato deplorevole. Si può dirlo senza essere a favore del riarmo illimitato e ritenere che ciò sarà il futuro della nostra industria. Dobbiamo tornare agli accordi sul disarmo che, tra l’altro, si sono sempre conclusi in tempi di tensione. Mi contattano molti cittadini preoccupati della pace; non mi pare che la gente desideri il ritorno della Germania come grande potenza militare.
Van Aken – Herr Stegner, ma il suo partito non condivide le sue posizioni. O sbaglio?
Stegner – Si sbaglia. La maggioranza dell’Spd crede che dovremmo muoverci verso il disarmo e la diplomazia rimanendo parte del movimento per la pace.
Van Aken – Il pacchetto da 100 miliardi è riarmo concreto, così come lo è il dispiegamento di missili Usa a medio raggio. E il riarmo è sbagliato.
La Linke si è spaccata sulla guerra in Ucraina e il conflitto in Medio Oriente resta una fonte di discordia. Come potete essere credibili su questi temi?
Van Aken – Non vedo la disputa. Ovvio, in un partito ci sono posizioni diverse, ma lo abbiamo chiarito in modo intelligente all’ultimo congresso. La Linke si è riunita e ora parla con una sola voce: non c’è posto per chi celebra le atrocità commesse dall’esercito israeliano a Gaza o da Hamas. Sono pochissimi i contrari a questa linea. Sull’Ucraina, chi aveva una prospettiva puramente cremlinista se n’è già andato ed è un bene.
* giornalisti del quotidiano n.d., partnership editoriale dell’intervista
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Elezioni tedesche Un pur modesto ridimensionamento del grande successo che si attribuisce all’ultra destra di Afd, carico per giunta delle aspettative e delle mire conquistatrici d’oltreatlantico, potrebbe modificare la percezione del clima politico e i comportamenti degli altri partiti
I risultati elettorali di questa sera nella Repubblica federale tedesca ci diranno come è andata, ma non come andrà, l’aria che tira, ma non la sua precisa direzione e intensità. Troppe incognite gravano sul quadro politico che probabilmente ne verrà fuori. Quanto alle percentuali, le grandi sorprese sono altamente improbabili.
I sondaggi restano stabili da tempo (ad eccezione dell’exploit attribuito alla Linke) e corrispondono tutto sommato alla penalizzazione dei fattori che hanno eroso e poi affossato la coalizione guidata da Olaf Scholz: scarso contrasto al declino economico, conseguenza del perduto rapporto con la Russia e dell’ottuso catechismo di bilancio imposto dai falchi liberali; l’abbandono da parte dei Verdi dei loro temi storici e della loro ragione sociale a favore di un opportunismo governativo industrialista sempre più disinibito.
Tuttavia, in una situazione così delicata come quella in cui si svolge questa consultazione, nel mezzo di un’Europa che frana disastrosamente verso destra, anche un lieve spostamento delle percentuali da quelle indicate, abbastanza omogeneamente, dai sondaggi merita attenzione.
Un pur modesto ridimensionamento del grande successo che si attribuisce all’ultra destra di Afd, carico per giunta delle aspettative e delle mire conquistatrici d’oltreatlantico, potrebbe modificare la percezione del clima politico e i comportamenti degli altri partiti.
Soprattutto se l’emorragia dei voti della Spd dovesse rivelarsi meno copiosa del previsto. E se il partito liberale, che vive fuori dal mondo reale nelle nuvole della dottrina, dovesse restare fuori anche dal Bundestag. Infine, se le urne dovessero confermare il deludente risultato del nuovo partito di Sahra Wagenknecht indicato dai sondaggi, sarà finalmente chiarito lo scarso appeal di un ritorno a stili sovietici e all’incrocio tra temi classici del movimento operaio e posizioni nazionaliste.
La Cdu-Csu si appresta ad appuntarsi sul petto la medaglia della vittoria, ma su un campo quasi irriconoscibile per un partito ultra atlantistico abituato ad essere senza sforzo il principale interlocutore di Washington nell’Europa continentale. Merz dovrà vedersela ora con forti e insistenti pressioni americane per spingerlo a una collaborazione con l’estrema destra, divenuta nella fase finale della campagna elettorale la sponda privilegiata di Trump.
Ma questo cozzerebbe con l’umore di gran parte del paese e con la leggenda del centrismo antifascista e della moderazione. Oltre che con le posizioni assunte nel conflitto tra Russia e Ucraina dalla Germania che si trova ad aver perso in un colpo solo il rapporto vitale con il grande vicino dell’Est e la coesione protettiva della Nato. È tra queste affilate tagliole che dopo le elezioni dovrà formarsi un governo di coalizione in balia di ardui equilibri, rapporti tesi e innumerevoli incertezze.
Con a fianco, incombente, un venti per cento dell’elettorato, in buona parte estraneo a passioni estremiste ma confluito comunque senza problemi sotto le bandiere della destra radicale. Questo esodo non è affatto inspiegabile: ha radici nel rigorismo economico che dal severo ministro delle finanze (ai tempi della crisi del debito greco) Wolfgang Schäuble transita ai professori e agli imprenditori che fondarono l’Afd nel 2013, con l’idea che la ricchezza e la stabilità finanziaria della Repubblica federale fossero insidiate da un eccesso di assistenzialismo a favore di poveri, disoccupati e richiedenti asilo, nonché dal costo dei paesi Ue più indebitati.
Una volta messa a fuoco la figura del parassita (non a caso uno stigma caro all’antisemitismo) la strada verso la radicalizzazione nazionalista e xenofoba era completamente aperta. Forse la crescita della Linke, soprattutto tra i giovani, (confermata da tutti i sondaggi), dipende proprio dall’aver messo in luce questo nesso, sottraendosi alla narrazione dominante di un liberismo del tutto innocente ed estraneo, addirittura antitetico, alle derive neofasciste dell’egoismo sociale.
Commenta (0 Commenti)SFRATTO ATLANTICO L’ipotetico raddoppiamento della spesa militare richiesto dall’amministrazione Trump non prevede una maggiore autonomia, ma l’esatto contrario
A partire dal Dopoguerra, Europa occidentale e Giappone hanno goduto per decenni di un grado invidiabile di sicurezza e di pace, pur devolvendo una cifra irrisoria alle spese militari. A proteggerli era il potere di deterrenza della macchina militare americana.
Che all’epoca imponeva agli alleati un notevole costo politico ma un prezzo economico molto contenuto. Il costo politico era misurato dal cosiddetto fattore K: l’impossibilità tassativa che un partito o movimento d’ispirazione comunista si avvicinasse ai centri del potere, fosse anche attraverso libere elezioni. In compenso, alle imprese e ai capitali era permesso muoversi con ampia autonomia nei mercati globali, al punto che i maggiori rivali degli Stati uniti si ritrovarono ad essere Germania e Giappone, smilitarizzati dopo la guerra e perciò liberi dall’onere di spese militari inutilmente gravose.
La liberalità della superpotenza nasceva dall’intento di estendere la propria egemonia a livello planetario, legandola all’apertura dei mercati e all’esportazione della democrazia liberale: un progetto di «nuovo ordine globale» oggi archiviato, cui si va sostituendo l’idea di un mondo diviso in grandi spazi continentali, ciascuno consegnato a una singola potenza dominante.
Nei piani americani, il rapporto con l’Europa dovrebbe evolversi in consonanza con questo cambio di paradigma. L’egemonia benevola dovrebbe lasciare il posto a un vassallaggio esplicito, che preveda un costo salato per la protezione militare e una subordinazione sistematica ai colossi finanziari e tecnologici statunitensi. Non è un ordine, almeno per ora, ma una proposta a cui l’Europa può dire di sì o di no. Data però l’enormità della posta in palio, è bene avere le idee chiare sulle condizioni e sui rischi impliciti nell’una o l’altra scelta.
Va osservato, in primo luogo, che l’aumento delle spese militari è compatibile di fatto con entrambe le opzioni. Cambiano però le dimensioni e il senso dell’eventuale aggravio di spesa. L’ipotetico raddoppiamento della spesa militare richiesto dall’amministrazione Trump non prevede una maggiore autonomia dei paesi europei, ma l’esatto contrario. Si pagherebbe per ratificare la propria dipendenza, impegnandosi ad assecondare ogni futura decisione della potenza dominante non solo in campo militare ma anche energetico e tariffario. Costrette a ridimensionare l’export o persino a spostare gli impianti negli Stati uniti per tamponare la deindustrializzazione americana (esasperando così quella di casa nostra), le imprese europee non avrebbero altra via per salvare i profitti che comprimere i salari e accentuare la corsa alla privatizzazione delle risorse. Una ricetta autoritaria per la quale l’amministrazione Trump ha già riconosciuto nelle nuove destre radicali il candidato ideale.
L’opzione alternativa è riorganizzare e potenziare la difesa per acquisire un’effettiva autonomia strategica. Si tratterebbe, per citare Mario Draghi, di imparare ad agire «come un unico Stato», coordinando le spese militari e affidandole a un titolo di debito comune, per acquisire un peso adeguato nell’alleanza atlantica e ottenere così una libertà di scelta paragonabile almeno a quella di potenze intermedie come l’India o la Turchia.
Va ricordato che, già quest’anno, la spesa militare complessiva dei paesi europei ha largamente superato i trecento miliardi: quanto la Cina, quindi, e circa il doppio della Russia. Se non fosse diluito fra trenta eserciti distinti e separati, un simile impegno di spesa potrebbe già bastare a garantire una deterrenza difensiva. Non è insomma l’eventuale aumento il vero scoglio, ma l’assenza di coordinazione, il che porta a galla le debolezze strutturali dell’Unione. In questioni di guerra e di pace, è difficile agire «come un unico Stato» senza disporre di un’autorità politica legittima, procedure di decisione efficaci e trasparenti, una visione condivisa dell’interesse comune. Ed è improbabile che decolli un debito comune senza una regolamentazione ragionevole dei rapporti fra creditori e debitori e un’armonizzazione dei diversi sistemi fiscali.
Per aspirare a un’autonomia strategica, insomma, l’Europa dovrebbe mettere mano alle riforme strutturali in senso federalista che da decenni le maggiori forze politiche dicono di volere ma che, di fatto, non hanno mai avviato. E dovrebbe farlo in tempi stretti, in condizioni di emergenza e con l’aperta ostilità dell’alleato atlantico.
Ciò che più sconcerta è l’ostinata convinzione che un passo tanto arrischiato possa marciare a colpi di austerità, lacrime e sangue, rinunciando a priori a ogni coinvolgimento della società civile e regalando la protesta popolare a quei sovranismi nazionalisti che di un tale programma sono i diretti avversari. Tutto suonerebbe più credibile se l’appello all’orgoglio europeo si legasse a una lotta alle disuguaglianze, all’immunità fiscale dei grandi patrimoni e allo strapotere degli oligopoli finanziari. Se una risposta unitaria all’emergenza abitativa restituisse vitalità ai centri storici delle città europee, anziché farne dei parchi di divertimento per turisti. Se l’esercito di giovani ricercatori iperqualificati, di cui l’Europa dispone, fosse mobilitato per una rivoluzione creativa, anziché languire nel precariato perenne. Per tutto questo occorrerebbe però qualcosa di cui l’Europa al momento è sprovvista: una classe dirigente, e non un semplice apparato di comando. In sua assenza, non resterà altra opzione che la sottomissione supina all’amministrazione americana di turno, quali che ne siano le condizioni.
Commenta (0 Commenti)Il volto della guerra Bare sul palco di Hamas e sacchi blu nelle fosse israeliane. Il dominio sulla vita e sulla morte - cosa e quando mangiare, dove e come vivere, in quali condizioni essere seppelliti - nell’occupazione e nella guerra tocca apici di disumanità che chi vive in pace non comprende. Va spezzato il circolo di disumanizzazione e colonialismo
Palestinesi pregano prima della sepoltura dei caduti all'ospedale al Shifa di Gaza – Ap
Bare nere sul palco, uomini armati, una caricatura di Netanyahu vampiro. Hamas, in un macabro show, consegna i corpi di quattro ostaggi israeliani. Usa di nuovo un palcoscenico per parlare a Israele: siamo ancora qui, Netanyahu ha massacrato due popoli invano.
Importa poco: Hamas ha le uniformi stirate ma è debole, senza alleati, scaduta a guerriglia.
RESTA la spettacolarizzazione della morte e l’esposizione dei corpi. Va fatto uno sforzo per non cadere nella trappola tesa alla sensibilità occidentale da 16 mesi e 77 anni, ovvero che non c’è altro modo di leggere la società palestinese se non con il paradigma del selvaggio. Gli occhi di chi vive in pace e dignità non sanno cos’è la guerra, la riduzione del nemico a carne da macello, senz’anima né diritti. L’altro va disumanizzato per poterlo ammazzare.
Non è solo che ti rapiscono in casa o la casa te la abbattono con le bombe, con tutta la famiglia dentro. La guerra è la fame che costringe a mangiare cibo per animali, sono le esecuzioni sul posto, i soldati israeliani che nelle scuole-rifugio dividono uomini e donne e sparano in testa a chi non deve vivere. La guerra è il vilipendio dei corpi, lasciati a marcire per strada, sbranati dai cani.
È la riconsegna da parte di Tel Aviv dei cadaveri palestinesi senza nome, esumati dalle fosse comuni, stipati nei sacchi blu, mescolati, impossibili da riconoscere. È la «procedura mosquito», palestinesi usati come scudi umani tra le rovine delle case per cercare ordigni. A “lavoro” finito, sono giustiziati con un colpo alla schiena, come scrivono i giornali israeliani.
È il manuale della necropolitica, il potere – di Israele, di Hamas – che decide dei vivi e dei morti. È successo, succede ancora. Accade non solo a Gaza, perché la guerra è disgustosa. Ma va guardata con gli occhi di chi vive dentro lo sterminio per non fermarsi a uno sdegno lungo un’ora e a una disumanizzazione lunga per sempre.
IL DOMINIO sulla vita e sulla morte – cosa e quando mangiare, dove e come vivere, in quali condizioni di integrità e dignità essere seppelliti – nell’occupazione e nella guerra tocca apici di disumanità che chi ha il privilegio di scegliere (o pensa di poterlo fare) non comprende e scaccia con categorie semplici e inutili (il selvaggio), quando si dovrebbe spezzare il circolo di umiliazione e necropolitica coloniale.
Si può fare, con la politica e la giustizia. Con un processo che porti i due popoli sullo stesso piano, quindi in grado di riconoscersi prima come umani e poi come vicini. E riconoscendo le responsabilità dell’Occidente che a Israele garantisce armi e impunità. La via per l’imbarbarimento, la copertura morale al genocidio.
Commenta (0 Commenti)Fdi Si tratta di una vicenda prima che giudiziaria, tutta politica e di singolare gravità: un esponente del governo ha approfittato della sua posizione di potere per tendere una trappola agli avversari politici
Dagli alla sinistra e ai suoi torbidi traffici. E dagli alle toghe rosse. Si torna lì, al punto di partenza, a quando, gennaio 2023, Fratello Giovanni Donzelli si sgolava nell’aula di Montecitorio: «Questa sinistra sta con lo Stato o con i terroristi e con la mafia?».
Due anni dopo un altro Fratello, secondo Donzelli «una delle persone più intelligenti che esistono», quello che si vestiva da nazista e ora presiede il gruppo di Fdi alla Camera, insiste: «Perché i deputati del Pd sono andati a trovare i mafiosi? Cosa dovevano dire loro?».
A un’intelligenza così sopraffina non può sfuggire che visitare i detenuti rientra tra i compiti dei parlamentari. Forse il genio in questione, al secolo Galeazzo Bignami, sta cercando di spostare l’attenzione dall’altro amico geniale della truppa, il sottosegretario alla giustizia Delmastro, al Pd?
Perché la notizia è che il sottosegretario, meloniano tutto d’un pezzo, quello che ai detenuti vorrebbe togliere il respiro e agli occupanti di case prenderli «per la pelle del culo», è stato condannato a otto mesi di carcere per aver spifferato a Fratel Donzelli, che poi le usò come arma impropria contro le opposizione, conversazioni avvenute tra l’anarchico Cospito e alcuni mafiosi detenuti al 41 bis (qui il genio tocca il suo apice: per difendere il carcere duro dal lassismo del Pd il sottosegretario tutto d’un pezzo rivelò conversazioni che in base al 41 bis dovevano restare murate).
Sentenza di primo grado, figurarsi, «il garantismo è un principio fondamentale, che vale sempre e per chiunque», se la cava il moderato Maurizio Lupi. Peccato che malgrado lo «sconcerto» della premier per la condanna del suo pupillo il garantismo in questo caso non c’entri niente. A prescindere dal processo, dalla condanna in primo o secondo grado, dal numero di mesi comminati a Delmastro, si tratta di una vicenda prima che giudiziaria, tutta politica e di singolare gravità: un esponente del governo ha approfittato della sua posizione di potere per tendere una trappola agli avversari politici.
La destra paranoica sempre pronta a denunciare complotti immaginari ha messo in chiaro da allora e una volta per tutte – come confermavano ieri le dichiarazioni fotocopia di Fdi – qual è il suo stile di comando. Colpi sotto la cintura, regole calpestate, tentativo di ridimensionare se non assoggettare e delegittimare gli altri poteri dello stato quando considerati un intralcio al proprio. A Delmastro non auguriamo certo il carcere: rischierebbe di avere a che fare con uno come lui. O di ricevere una visita dai parlamentari dell’opposizione.
Commenta (0 Commenti)Vaticano Involontariamente, è Giorgia Meloni, in visita dal Papa al Gemelli, a smentire le vulgate più estremiste sulla salute di Bergoglio. La premier dice di aver trovato Francesco «vigile e reattivo. […]
Involontariamente, è Giorgia Meloni, in visita dal Papa al Gemelli, a smentire le vulgate più estremiste sulla salute di Bergoglio. La premier dice di aver trovato Francesco «vigile e reattivo. Abbiamo scherzato come sempre. Non ha perso il suo proverbiale senso dell’umorismo».
A conferma del fatto che, seppure complesse, le condizioni fisiche di Bergoglio restano al momento stazionarie con un «lieve miglioramento», come ha comunicato ieri il Vaticano. Certo, il futuro è un’incognita, avendo il Papa 88 anni compiuti, ma nello stesso tempo le parole di Meloni spingono a pensare che la possibilità che si ristabilisca c’è e non è campata per aria.
Da tempo, tuttavia, si rincorrono voci sulla possibilità di dimissioni che aprano la strada a un nuovo conclave. Nelle scorse ore, addirittura, il rientro a Roma del cardinale Pietro Parolin dal Burkina Faso, è stato letto dai settori più anti bergogliani come un segnale di aggravamento della salute di Bergoglio, tralasciando tuttavia che l’agenda del segretario di Stato era già stata decisa da cinque mesi. E fra l’altro, ignorando il fatto che, in caso di sede vacante, non è il segretario di Stato a dover gestire l’eventuale post pontificato, ma rispettivamente il camerlengo e il decano del collegio cardinalizio, Kevin Joseph Farrell e Giovanni Battista Re.
Voci che coprono altre voci. Da giorni le diverse fazioni presenti nella Chiesa provano a tirare acqua al proprio mulino. Da una parte ci sono quelli che descrivono lo stato di salute di Francesco come ormai irreversibilmente compromesso per spingerlo alle dimissioni, forti del fatto che fu lo stesso Pontefice a dichiarare che si sarebbe fatto da parte se non fosse stato più in grado di svolgere pienamente le proprie mansioni.
Dall’altra, c’è chi minimizza e parla al massimo della necessità di una riduzione degli impegni nel caso di un ritorno a Santa Marta, senza però comprendere che Francesco decide da solo e che, insieme, difficilmente accetterebbe un ridimensionamento nelle proprie funzioni. Certo, nei prossimi mesi, se riprenderà in mano l’attività pubblica ordinaria, non è escluso che venga rimodulato il calendario delle presenze papali agli eventi giubilari in modo da impedire ricadute a quel punto assai pericolose.
Ma la rimodulazione sarebbe solo temporanea e non sarebbe in alcun modo un ridimensionamento.
L’antagonismo a Bergoglio ha radici lontane e non è una novità. Dall’inizio del pontificato c’è chi pensa al dopo, senza così fermarsi a cogliere e a comprendere la spinta di novità del suo magistero. All’inizio un’importante opposizione fu alimentata da una parte dell’episcopato nordamericano, vicino a un mondo repubblicano statunitense spaventato dall’imprevedibilità e dalla non controllabilità del primo Papa venuto dal Sudamerica, dalla sua visione sull’ambiente, le migrazioni, gli armamenti, e dalle sue aperture a Est, alla Cina soprattutto. Settori romani minoritari, ma combattivi, hanno cavalcato quest’onda antagonista, nel tempo tuttavia perdendo terreno.
L’arrivo a Roma di Victor Manuel Fernandez come prefetto dell’ex Sant’Uffizio, quello stesso Fernandez contro il quale durante il pontificato di Ratzinger erano stati costruiti dossier per bloccarne l’ascesa, ha sancito definitivamente e fragorosamente la vittoria di un’altra linea teologica: dai princìpi non negoziabili di ratzingeriana memoria alla «Chiesa per tutti», che accoglie senza chiedere patenti d’identità, di Francesco.
Che a primeggiare, oggi, sia questa visione lo dimostra anche quanto avvenuto recentemente negli Stati uniti. Dopo anni di ammiccamenti al mondo repubblicano, l’episcopato del Paese si è espresso pubblicamente contro le politiche migratorie di Trump facendo sentire nei palazzi che contano l’eco di una sola voce.
Francesco è stato comunque capace di aggregare un certo consenso anche nel mondo sulla carta a lui più ostile. Ricevendo a Santa Marta anche in forma privata diversi capi di Stato di destra, fra cui Meloni, e dicendo a tutti di lavorare al di là delle rispettive appartenenze politiche – «Quello è di sinistra, tu sei di destra, ma siete giovani ambedue, parlate», ha detto recentemente – si è smarcato dalle diverse fazioni che tendono a usarlo per i propri interessi. Gli intramontabili bergogliani e antibergogliani.
* Giornalista della Radiotelevisione della Svizzera italiana, ha iniziato al Riformista, poi al Foglio, quindi inviato a Repubblica
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