Guerre globali Zelensky, platealmente insultato da Trump, è agli sgoccioli e quasi non c’eravamo accorti che l’Arabia saudita è già entrata, non ufficialmente, nel Patto di Abramo, il formato degli stati arabi […]
Matrioske russe raffigurante Putin e Trump – foto Ap
Zelensky, platealmente insultato da Trump, è agli sgoccioli e quasi non c’eravamo accorti che l’Arabia saudita è già entrata, non ufficialmente, nel Patto di Abramo, il formato degli stati arabi amici di Israele che si allarga sempre di più nei suoi obiettivi. Un segnale chiaro è l’ospitalità data dal principe Mohammed bin Salman al vertice tra Lavrov e Rubio.
Come è noto Riad è il paese guida dell’Opec, non ha mai messo sanzioni a Mosca ma è anche e soprattutto il faro del mondo musulmano e sunnita perché controlla i pellegrinaggi della Mecca.
Non ha particolarmente a cuore, come Trump del resto, il destino dell’Ucraina e neppure quello di Gaza. Se ora in Europa ci si straccia le vesti per Kiev, non lo si fa e non lo si farà per il futuro dei palestinesi.
La nuova diplomazia americana prevede premi per coloro che seguono i consigli di Washington e punizioni solide per quelli che si oppongono. E sul Patto di Abramo Trump non ammette defezioni, perché lo ha promosso lui nella sua prima presidenza e perché contempla di fare di Israele l’unica superpotenza che controlla la regione, eliminando o riducendo al minimo l’influenza dell’Iran.
Per Zelensky si è capito che ci sono solo punizioni se non accetta la pace con Putin, che nella visione di Trump deve servire come antemurale della Cina, e deve anche essere staccato dai suoi legami con Teheran che ha finora sostenuto lo sforzo bellico di Mosca. Questo aspetto per Trump forse è più importante del destino territoriale dell’Ucraina e si lega anche al suo piano per svuotare Gaza dai palestinesi. Kiev e la Striscia sono fastidiosi orpelli sulla carta geografica per la nuova amministrazione americana: assorbono energie da convogliare sul fronte cinese. Ecco perché Riad è il luogo ideale del vertice russo-americano: per l’Arabia saudita e le monarchie del Golfo la Repubblica islamica iraniana, ossessione del piano di sicurezza di Netanyahu, costituisce un nemico storico. Si regolano conti antichi ma anche recenti: nel 1980 quando Saddam Hussein attaccò l’Iran le monarchie del Golfo finanziarono l’Iraq con 50 miliardi di dollari – in termini attuali più di quanto sia arrivato in tre anni a Kiev – ma senza alcun risultato, anzi nel 1990 Baghdad invase il Kuwait. E nel 2003 la caduta del sunnita Saddam a opera degli Stati uniti venne percepita dai paesi del Golfo come una sconfitta che lasciava mano libera a Teheran e ai suoi alleati. In anni più vicini l’Iran appoggiando gli Houthi ha inferto una solenne sconfitta proprio ai sauditi sulle porte di casa. E Riad non dimentica gli attacchi filo-iraniani contro i suoi impianti petroliferi ai quali allora gli Usa risposero con un’alzata di spalle.
Ma con Trump tutto è cambiato. Lo si è capito molto bene quando Marco Rubio, prima di arrivare in Arabia saudita, ha fatto tappa in Israele. Che cosa può spingere i sauditi e il mondo arabo ad accettare l’inverosimile piano di Trump per Gaza che a parole respingono? Rubio si è presentato dal premier Netanyahu portandosi come regalo l’argomento più sensibile per il governo ebraico: bombe. Le MK-84 recentemente autorizzate dall’amministrazione Trump. Sono ordigni a caduta libera, entrati in servizio nella loro prima versione nella guerra del Vietnam. Alla MK-84 viene dato il soprannome Hammer, in inglese martello: un modo per sottolineare la sua grande capacità distruttiva.
A chi sono destinate? Certamente ad Hamas, che come hanno chiarito prima Trump e poi Rubio, in piena sintonia con Netanyahu, «deve essere eliminato», cosa che in fondo fa piacere a molti stati arabi. Ma soprattutto sono il preludio a una seconda fase nella guerra contro l’Iran: l’eliminazione o la neutralizzazione dell’apparato bellico della Repubblica islamica – nucleare compreso – sono il vero obiettivo strategico del complesso militare-industriale israelo-americano. E Riad e il Golfo, chiamati a pagare più o meno tutti i piani di Trump, possono dire di no? Un nuovo conflitto tra Iran e Israele è possibile, se non probabile: lo dicono gli americani, gli israeliani ma anche Teheran. Basta leggere le ultime dichiarazioni delle parti in causa. L’ammiraglio britannico Tony Radkin, in un discorso al Royal United Service Institute di Londra, ha affermato che Israele nei bombardamenti del 26 ottobre ha distrutto la quasi totalità delle difese aeree iraniane e la sua capacità di costruire missili balistici per almeno un anno. Gli F-35 israeliani hanno lanciato missili volando a una distanza di almeno 120 chilometri dai bersagli, fuori da ogni possibilità di intercettazione. Gli iraniani non li hanno visti neppure arrivare sui radar. «Il vantaggio militare e di intelligence israeliano – ha concluso Radkin – è fuori dalla portata di ogni avversario regionale».
E se ne sono accorti anche russi e cinesi perché questa guerra in Medio Oriente diretta all’Iran e ai suoi alleati va molto oltre i confini dell’area.
Il piano per Gaza e le eventuali concessioni territoriali a Putin sull’Ucraina hanno come corollario fondamentale, nelle intenzioni di Trump e Netanyahu, il riconoscimento americano dell’annessione della Cisgiordania. Perché fermarsi a Gaza? Il messaggio per i palestinesi è chiaro: non c’è possibilità di compromesso con Israele e il suo alleato americano, almeno nella sua forma attuale, perché sono determinati a eliminare il popolo palestinese. Con la complicità ipocrita e nascosta degli arabi e, naturalmente, anche della nostra.
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Tre anni dopo Ora che Volodymir Zelensky sta entrando nella lunga lista degli amici consumati e abbandonati dagli Stati uniti, è già pronta una nuova trappola logica per chi denuncia il vuoto di […]
Ora che Volodymir Zelensky sta entrando nella lunga lista degli amici consumati e abbandonati dagli Stati uniti, è già pronta una nuova trappola logica per chi denuncia il vuoto di politica e diplomazia che ha consentito tre anni di carneficina in Ucraina.
Se fin qui sarebbe stato un tradimento convincere il governo ucraino a negoziare per fermare la guerra – e fu dunque eroico far saltare ogni ipotesi di accordo già un mese dopo la brutale invasione russa, a condizioni migliori di quelle di oggi – adesso la pace di Trump andrebbe boicottata perché «pace imperiale».
Che sia tale non ci sono dubbi, ma non per questo è democratica la guerra portata avanti innanzitutto sulla pelle dei civili e dei soldati ucraini, oltre che di quelli russi. E non è irrilevante che, per quanto nobilissima e ardente possa essere stata la resistenza ucraina, ormai si calcolino 900mila tra renitenti alla leva e disertori: più di quanti stanno combattendo.
Scappare dalle trincee, come scappano anche i russi, persino fuggire da un paese che ha già perduto il 20% della sua popolazione sono scelte che meritano rispetto, quasi sempre obbligate. La guerra non è stata un episodio di autodeterminazione e non è dunque meno imperiale della pace che (non ancora e troppo tardi) si annuncia.
Il destino al quale Zelensky sembra irrimediabilmente avviato non fa che svelare l’inganno. Anche lui è una vittima della guerra per procura, subito dimenticati i tempi in cui viaggiava in trenta diversi paesi del mondo e appariva un po’ ovunque, da Cernobbio al festival di Cannes. Cinque mesi fa firmava le munizioni nelle fabbriche degli americani che adesso nemmeno lo ascoltano, mentre prova a chiedere un posto al tavolo dove si decide sulla sua testa. Tavolo dove la trattativa tra Usa e Russia non la conducono due funzionari o diplomatici, ma non a caso due uomini di affari come Witkoff e Dmitriev.
La guerra nel cuore dell’Europa è stata un affare per gli Stati uniti. Il fatto che la responsabilità dell’invasione sia tutta di Putin non cancella questo dato di realtà, casomai spiega perché dall’allargamento della Nato a Maidan e al non rispetto degli accordi di Minsk nulla è stato fatto per impedirglielo.
Tre anni di guerra oltre a devastare l’Ucraina hanno mortificato probabilmente per un lunga fase storica il ruolo politico dell’Europa. Che raccoglie quello che ha seminato, tenendosi sistematicamente lontana da ogni tentativo negoziale. Che la soluzione di un conflitto interamente sussidiato e armato dall’esterno dovesse essere lasciata nelle esclusive mani degli ucraini – ai quali si poteva tutt’al più consigliare di insistere (fino a sconfiggere la Russia?) – era un racconto tanto falso da crollare in poche ore. Adesso neanche della loro pace gli ucraini possono parlare.
E così il fatto che le intenzioni di Trump siano pessime non rende ottima la condotta tenuta da Biden in questi tre anni, né meno folle la scelta di Bruxelles, Roma o Berlino di seguirlo mentre le accompagnava verso il baratro.
Oggi gli europei pagano il gas in media cinque volte più degli Stati uniti (agli italiani va anche peggio) e comprano il doppio del gas americano rispetto a prima del conflitto.
Dovranno armarsi ancora di più, molto di più. E dovranno farlo sacrificando il welfare e comprando armi americane. Ma non è certo sostenendo la prosecuzione di una guerra che chiaramente poteva concludersi solo con un negoziato che ne usciranno. Perché è stata proprio l’ostinazione bellicista a condurre Macron, Meloni, Scholz e gli altri fin qui. In trappola.
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Ultradestre Questa ostilità e la plateale discesa in campo di Washington al fianco della destra nazionalista in Germania (che presto si estenderà in forme altrettanto cogenti a tutte le analoghe formazioni […]
Elonk Musk all'Ufficio ovale della Casa bianca insieme a Donald Trump – foto Alex Brandon/Ap
Questa ostilità e la plateale discesa in campo di Washington al fianco della destra nazionalista in Germania (che presto si estenderà in forme altrettanto cogenti a tutte le analoghe formazioni nazionalpopuliste nel resto d’Europa) sono strettamente connesse e funzionali a una politica che lavora non da ieri alla disgregazione dell’Unione europea, ma mai in forme così perentorie.
I rapporti tra gli Stati uniti e i gruppi dell’estrema destra eversiva in Europa hanno una lunga storia. Ma si è trattato, nella stagione della guerra fredda, di relazioni occulte, di reti ausiliarie destinate a entrare in funzione in particolari momenti di crisi e in chiave di repressione anticomunista. Non certo di una affinità ideologica baldanzosamente sbandierata, di modelli politici e culturali additati come valore comune ed esemplare. Chiunque sedesse alla Casa bianca prima di Trump, malgrado i più torbidi rapporti con golpisti e dittature, non poteva esimersi dal rimarcare una netta distanza tra la democrazia liberale e le dottrine autoritarie incistate nella tradizione dell’estrema destra.
Il quadro è ora completamente cambiato: Trump e il suo seguito si rispecchiano pienamente in una versione plebiscitaria dell’investitura popolare che non tollera ostacoli o limitazioni. Che pretende di incarnare la volontà del popolo e rivendica in conseguenza una pienezza di poteri senza regole e senza controlli.
È lo stesso ammodernamento del Führerprinzip, lo stesso strapotere dell’esecutivo cui aspira l’estrema destra europea. Dunque, per la nuova amministrazione statunitense, partiti come Afd in Germania, il Rassemblement national in Francia o il Fidesz di Viktor Orban in Ungheria, con le loro ossessioni xenofobe e identitarie e il patriottico rifiuto di ogni conflittualità sociale, rappresentano qualcosa di più di una sponda occasionale, quasi una sorta di «partiti fratelli» dai quali attendersi il superamento di quelle resistenze europee alla totale deregulation che non lasciano il campo sufficientemente libero ai colossi del capitalismo americano.
I centristi europei erano soliti discriminare queste formazioni della destra radicale accusandole, fra l’altro, di essere manovrate da Mosca. Ma dopo l’insediamento di Trump l’argomento deperisce: non sarebbe più Putin l’interlocutore privilegiato dei partiti nazionalisti, bensì proprio lo storico alleato d’oltreatlantico che li chiamerà semmai a fiancheggiare quel rapporto diretto con la Russia che non contempla il parere dell’Unione europea e ancor meno un qualche suo ruolo.
I nazionalismi europei sono in tutta evidenza lo strumento più adeguato allo scopo di spezzettare un’Europa già debolmente coesa a favore di interessi a dire il vero più americani che russi.
La minaccia che incombe su questa Unione, che avendo seminato molta retorica bellicista e poca intelligenza diplomatica non può aspettarsi un grande raccolto, non è un’improbabile espansione della Russia verso Ovest, da contrastare con una corsa al riarmo che dissanguerà i bilanci degli stati europei e rimpinguerà i profitti dell’industria bellica statunitense senza peraltro mettere davvero il Vecchio continente in condizione di difendersi dai giganteschi apparati militari delle superpotenze.
Il pericolo ben più reale e incombente sono le forze politiche dell’estrema destra dove già governano, dove condizionano i governi o dove si accingono a farlo. Sono queste forze che possono stravolgere completamente quel che resta delle democrazie del dopoguerra e mettere fine a ogni velleità di autonomia dell’Europa unita. Ed è proprio su queste formazioni che punta le sue carte la controrivoluzione trumpista.
Spostare risorse dal sostegno dei livelli di vita e di benessere della società civile europea, dai redditi e dal welfare all’escalation militare significa sguarnirsi sul fronte più reale e concreto del conflitto, quello contro il nazionalismo populista dell’estrema destra che si nutre della crisi economica e del malcontento popolare, per prepararsi invece a uno scontro immaginario e fuori dalla storia con l’armata bianca del nuovo Zar.
Non vi è saggezza né realismo nel lasciare a Trump il monopolio del dialogo diplomatico con Mosca per riservarsi il ruolo di falchi guerrieri. E Macron, prima di promettere truppe e armamenti sul fronte dell’est, dovrebbe preoccuparsi dei governi in ostaggio del Rassemblement national che insistentemente impone alla Francia. Perché è da lì che può arrivare il colpo mortale per l’Unione europea, così come da un grande successo, benedetto da Washington, dell’estrema destra in Germania. Tra pochi giorni.
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Commenti La strategia di Trump è gangsteristica, ma invece di intravvedere la possibilità che si apre, l’Europa ragiona come se incredibilmente la pace fosse un pericolo
C’è una parola in particolare che descrive quello che è diventata la guerra ucraina. La prendiamo dal vocabolario del grande scrittore Emilio Gadda, che la mutuò da quello romanesco per il romanzo Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana, ed è «gnommero». Vuol dire groviglio, garbuglio, matassa annodata, per la quale, se non si va al capo iniziale con cui il gomitolo è stato inizialmente avvolto, non c’è alcuna possibilità di sbrogliarlo. Perché è ormai proprio uno gnommero la crisi che da quasi tre anni si consuma nel sangue di tante giovani vite, ucraine e russe, una intera generazione mandata al macello nel cuore d’Europa. Ma non dimenticando, ecco il punto, l’inizio del 2014 con l’oscura vicenda di Majdan e gli otto anni di guerra civile interna tra esercito ucraino e milizie ucraine filo russe. Nei quali anni abbiamo sentito di tutto, quasi mai una parola di pace dalle leadership internazionali che dopo ben due negoziati, Minsk 1 e Minsk 2 abilmente fatti fallire, hanno abbandonato l’Ucraina al suo destino infausto. Perché bisognava, o meglio ancora bisogna, arrivare ad una «vittoria militare» dell’Ucraina, all’inflessibile ingresso di Kiev nella Nato che, dimenticando che è stata la «ragione» della guerra, è stato rivendicato e praticato fino a poche ore fa come obiettivo dall’Alleanza atlantica.
Da Zelenski da molti Paesi Ue e dai comandi militari in primis dal “nostro” Dragone, nonostante gli Stati uniti – che ne hanno la guida militare e politica – siano stati e sono contrari, prima di Trump lo stesso Biden, comprendendo che lo sbocco sarebbe quello di una guerra totale, atomica con la Russia.
Ora accade che l’isolazionista imperiale Trump – perché è chiaro che il suo isolazionismo lo paghiamo noi, con gli acquisti monopolisti di armi, di energia e sotto l’imposizione di feroci dazi economici – muova a una mediazione e trattativa con l’ultimo nemico dell’Occidente, zar Putin; dopo tre anni di combattimenti e di spargimento di sangue in Ucraina e anche in Russia. È pur vero che una pace fatta di sole imposizioni, sbilanciata e quindi ingiusta non sarebbe che l’anticamera di una nuova guerra come dichiarò Keynes per il trattato di Versailles dopo la Prima guerra mondiale. Ma resta sicuramente altrettanto vero e più accettabile che un cessate il fuoco subito e una trattativa di pace sostenuta dai protagonisti internazionali – non come quella di Istanbul, accettata sia da Kiev che da Mosca, che poteva far finire il conflitto e venne fatta fallire dall’ex leader britannico e transatlantico Boris Johnson – con la prospettiva di una accordo di non belligeranza sarebbe a questo punto meglio di qualsiasi guerra.
L’aspettativa diffusa tra i popoli è grande, come all’interno dei Paesi coinvolti, in Ucraina dove abbiamo sostenuto ogni addestramento alle nuove armi che per miliardi e miliardi abbiamo inviato a Kiev senza accorgerci che centinaia di migliaia di giovani si organizzavano per rifiutare il reclutamento, anche a rischio della loro vita e libertà; e in Russia dove solo la fine di questa guerra può aprire una prospettiva politica diversa dal neo-zarismo putiniano dando voce a quanti la guerra non l’hanno voluta e che rifiutano i processi autarchici del potere di Putin, che indubbiamente la rivendicherà come vittoria, ben misera però; perché a ben vedere a mala pena riuscirà a nascondere la ferita nel corpo sociale della Federazione russa e nel mondo con il chiaro timore della violenza sottesa ad ogni sua promessa. Una sorta di isolazionismo forzato, «rispettato» perché armato, vincente sul terreno dei rapporti di forza ma non del diritto, della civiltà e della democrazia.
Ora, invece di intravvedere le possibilità che si apre, si ragiona come se incredibilmente la pace fosse un pericolo, un rischio. E ogni armamentario ideologico è buono, sempre nella fretta di azzerare le nostre responsabilità e il passato, quello remoto e quello prossimo che più o meno consapevolmente abbiamo vissuto tutti noi. Si ripete dagli scranni del parlamento e dei giornali mainstream che «la sicurezza è stata rimessa in discussione dalla Russia con l’invasione dell’Ucraina» e che con Tump «stiamo abbandonando il canone occidentale». Ma la domanda è: tutte le guerre che negli ultimi 30 anni l’Occidente ha condotto, con massacri di massa e spargimento di sangue in Somalia, ex Jugoslavia, Iraq, Afghanistan, Libia e pure in Siria quale sicurezza hanno costruito nel mondo? E quale messaggio di sicurezza e canone occidentale sono arrivati a Putin che per anni ha chiesto di non allargare la Nato a est con basi militari, sistemi d’arma, missili ai confini russi? Cosa che inesorabilmente e perfino, militarmente tronfi, abbiamo fatto contro ogni evidenza e consapevolezza, diffusa perfino nelle alte gerarchie militari occidentali e nelle analisi dei promotori bipartisan della stessa politica estera Usa?
Sarà sfuggito al cattolico presidente Mattarella che perfino papa Bergoglio per spiegare quel che è accaduto con l’Ucraina abbia azzardato la metafora pungente dell’«abbaiare della Nato ai confini russi»? E quale canone occidentale è emerso da tutte le “nostre“ guerre se non quello del «domino espansivo» – proprio come da lectio magistralis presidenziale? E poi non è singolare il fatto che mentre si azzardano paragoni con il nazismo, a fomentare nella Germania i neonazisti sia l’amico amerikano?
Ma all’occasione di una trattativa di pace, certo ambigua e pericolosa e che può risolversi in un nulla d fatto e precipitarci ancora di più nel baratro, non solo non viene colta ma si risponde con l’impegno ad aumentare i già inutili finanziamenti miliardari in armi a Kiev perché continui la guerra a nome nostro e ora addirittura con la sospensione del famigerato Patto di stabilità per produrre nuove micidiali armi. Vale a dire più odio, più vittime, più guerra. Alimentando in modo cieco l’idea che raggiungere oltre il 35% della spesa atlantica e/o un modello unificato a forza della difesa europea comune – provate a mettere insieme il controllo dell’atomica francese con il comando delle autoblinde lituane -, rappresenti la risposta alla voragine aperta dalla nuova strategia compradora-gangsteristica di Trump – questo è con chiarezza in Medio Oriente, sulla pelle dei palestinesi.
No, la risposta non sono le armi. Il vero deficit dell’Europa unita fin qui realizzata, è un deficit politico. L’Unione non ha strutturalmente una sua politica estera che è stata fin qui guidata dall’Alleanza atlantica, e a dire eterodiretta da Washington.
Prima di ogni difesa comune, dai costi impensabili, è fondamentale che l’Unione europea decida quale è il suo ruolo nel mondo e se non è ora di tornare a ragionare, oltre i troppi muri e fili spinati, degli obiettivi internazionali, inclusivi e democratici verso tutto l’Est – fin qui fatto entrare tutto nella Nato a caccia del nuovo nemico – e verso il Mediterraneo, vale a dire il segmento orientale che è fa parte della sua storia. Solo una strategia estera di pace sarà capace di togliere acqua e alimento a ogni pretesa autarchica, che cresce solo sulla base della rivendicazione nazionalista-identitaria e violenta. Altrimenti le autocrazie e l’estrema destra suprematista cresceranno nel cuore d’Europa sempre più. E a ogni rifiuto di strategia di pace dell’Europa si apriranno, come ora, crisi locali che ingoieranno ogni futuro.
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Kurdistan/Italia Il dirigente di Rifondazione Comunista racconta l'arrivo del leader del Pkk in Italia e il ruolo del governo italiano, in risposta all'intervista dell'ex presidente del Consiglio uscita sul manifesto
Abdullah Ocalan incontra una delegazione di Rifondazione Comunista. Ramon Mantovani è alla sua sinistra
Mi fa estremamente piacere, lo dico sul serio, che Massimo D’Alema tenga ad apparire come amico del popolo kurdo e a cercare di autoassolversi dalle responsabilità che ebbe nella vicenda che portò al sequestro illegale del presidente Abdullah Ocalan. Significa, che nonostante tutto, il corso degli eventi e la statura politica di Ocalan lo hanno indotto ad esternare le cose che ha detto nell’intervista rilasciata a Chiara Cruciati sul manifesto del 14 febbraio 2025.
Mi corre però l’obbligo, per il rispetto che si deve al presidente Ocalan e al popolo kurdo, di fare alcune precisazioni su quanto dichiarato da D’Alema.
Ho più volte, ed anche recentemente a una agenzia kurda, detto che a Rifondazione Comunista, attraverso il sottoscritto, fu richiesto di aiutare il presidente Ocalan a venire nel nostro paese in quanto si trovava in pericolo di vita in Russia, dove i servizi di intelligenza di Eltsin, divisi al loro interno, potevano consegnarlo da un momento all’altro alla Turchia. Per farlo non esitammo a usare tutta la nostra capacità di relazioni interne ed esterne all’Italia e a mantenere, come chiunque sappia come funzionano queste cose può ben immaginare, il riserbo e la confidenzialità su tutti i nostri contatti.
IL NOSTRO AIUTO e la mia personale partecipazione nelle nostre intenzioni erano e dovevano rimanere riservate, sia perché non siamo mai stati abituati, come altri, ad usare lotte e drammi di altri popoli e movimenti per motivi di “visibilità”, sia per evitare che la provincialissima stampa italiana usasse il nostro coinvolgimento per miserabili polemiche interne che avrebbero nuociuto alla causa kurda. In altre parole, non fummo noi ad avere l’idea di “portare” (come scrissero e dissero tutti i giornali e tutte le tv) Ocalan in Italia per dare fastidio al governo o per altri strampalati obiettivi di politica interna. Come se il leader di un popolo di trenta e più milioni di persone si facesse “portare” dal sottoscritto come un pacco.
Anzi, mi preoccupai di spiegare bene ad Ocalan che l’Italia, fra i paesi Nato europei, era sempre stata il paese più servile ed obbediente agli ordini Usa. Ma il presidente Ocalan insistette per venire in Italia sostanzialmente per due motivi. Il parlamento italiano era stato un anno prima, approvando una mia risoluzione, l’unico parlamento europeo a riconoscere l’esistenza di un conflitto armato in Turchia e a impegnare il governo italiano ad adoperarsi per una soluzione negoziata e pacifica.
Il primo effetto che ebbe la risoluzione fu che vennero concessi da quel momento in poi migliaia di status di rifugiati a cittadini kurdi con passaporto turco. Lo stesso ministro degli interni Napolitano, rispondendo alla Camera ad interrogazioni della destra, disse che così si doveva fare in seguito a una decisione della commissione esteri.
Il secondo effetto fu un invito di Ocalan d incontrarlo in Siria al quale andammo Alfio Nicotra, Walter De Cesarias e io. Incontro di cui Liberazione dette notizia con tanto di fotografie. Ocalan era convinto che l’Italia, per questo e anche perché paese della Nato e sede del Vaticano, era il luogo migliore per proclamare un cessate il fuoco unilaterale da parte del Pkk e proporre alla Turchia di aprire un negoziato.
Questi, e non altri, furono i motivi che fecero scegliere al presidente Ocalan l’Italia, per cercare di trasformare una difficoltà in una opportunità. Questi, e non altri, furono i motivi che ci indussero a fare tutto il possibile per aiutare il Pkk e Ocalan sia per la solidarietà internazionalista, che era ed è un principio irrinunciabile del nostro partito, sia per far compiere, se possibile, dei passi al nostro paese per contribuire alla soluzione pacifica di un conflitto iniziato con il colpo di stato fascista dell’esercito turco agli inizi degli anni ’80.
Ciò che dice D’Alema sull’arresto di Ocalan è vero solo in parte. Io stesso dissi a Ocalan, arrivati a Fiumicino, di recarsi al passaggio dei passaporti diplomatici, di dichiarare la propria identità, di consegnare il passaporto falso che aveva con sé e di chiedere asilo politico. Tempo dopo scoprii che la relazione della polizia di stato alla magistratura diceva che Ocalan aveva tentato di attraversare la frontiera con un passaporto falso e, riconosciuto, era stato tratto in arresto.
Lo venni a sapere con precisione quando fui indagato come indiziato del reato di favoreggiamento di ingresso clandestino, avendo dovuto confermare le voci di una mia partecipazione, sicuramente fatte circolare da servizi di intelligenza prima in Grecia e poi in Italia.
SEPPI ANCHE da un deputato di Alleanza Nazionale che Berlusconi in persona si apprestava a diffondere la notizia del mio accompagnamento di Ocalan in una conferenza stampa. È così vero ciò che dico che il magistrato che mi interrogò concluse il mio interrogatorio quando spiegai che quel che dicevo circa Ocalan che si diresse al passaggio dei passaporti diplomatici, cosa piuttosto bizzarra per chi volesse entrare clandestinamente nel nostro paese, lo avrebbe potuto verificare visto che c’erano numerose telecamere che dovevano per forza aver registrato il fatto.
Del resto Ocalan era atteso da un nugolo di agenti che effettivamente lo arrestarono, ma dopo aver ascoltato la richiesta di asilo, e lo condussero fuori dalla sala della frontiera insieme alla sua segretaria e al portavoce in Italia dell’Ufficio di Informazione sul Kurdistan che fungeva anche da interprete. Il magistrato nel congedarmi mi disse che le registrazioni dell’aeroporto di quel giorno e di quell’ora erano sparite. L’accusa contro di me venne archiviata per questo.
Orbene, i casi sono due: o D’Alema, o chi per lui alle sue dipendenze, si è dimenticato di aver ordinato alla polizia di stato di redigere una relazione falsa sull’arresto di Ocalan, oppure ciò è stato fatto a sua insaputa autonomamente da apparati dello Stato deviati o al servizio di un altro paese. In entrambi i casi si tratta di cose gravissime che avrebbero dovuto avere un seguito giudiziario. Inoltre mi pare di ricordare che l’allora responsabile esteri dei Ds, Umberto Ranieri, qualche anno dopo scrisse che il governo era stato informato e che aveva commesso un grave errore ad accettare che Ocalan venisse in Italia. Ma forse la mia memoria è difettosa.
Quanto alle pressioni a me risulta che vennero da più parti. Certo i più attivi furono gli Usa come dice lo stesso D’Alema. Ma a parte le telefonate riservate che cita D’Alema la segretaria di stato Madeleine Albright disse pubblicamente che l’Italia doveva estradare Ocalan in Turchia, e cioè oltre a intromettersi in una vicenda che riguardava due stati sovrani (almeno formalmente) ordinava al governo italiano di violare una legge della Repubblica, che vieta esplicitamente di estradare chicchessia verso un paese che lo potrebbe condannare a morte.
AD ALBRIGHT nessuno del governo italiano rispose adeguatamente con una dichiarazione a tutela della nostra sovranità e anche della nostra dignità come paese. Anche le imprese belliche italiane, pubbliche e private, esercitarono le loro pressioni. E a me risulta che anche alti funzionari dello Stato compirono atti tesi a condizionare il governo.
Si può anche facilmente verificare, consultando gli archivi delle agenzie di stampa italiane, che ci fu un giorno nel quale la mattina il presidente del Consiglio e il ministro della giustizia dissero che il governo non era competente sulla concessione o meno dell’asilo (cosa che D’Alema nell’intervista non dice raccontando, invece, di aver consultato la commissione per l’asilo) e lo stesso giorno nel pomeriggio ben tre ministri, e non ministri qualsiasi perché erano Dini, ministro degli esteri, Scognamiglio, ministro della difesa, e Fassino, ministro del commercio con l’estero dissero che il governo NON DOVEVA CONCEDERE L’ASILO, in parte smentendo D’Alema e Diliberto. Strano che la stampa italiana composta in parte da un esercito di dietrologi, di pettegoli, di incompetenti sulla politica estera e di ricercatori di piccoli e grandi scoop, non si accorse di questo piccolo dettaglio.
Infine, io non posso dire nulla su cosa avvenne dopo la partenza di Ocalan dall’Italia tranne che alla fine dopo il suo sequestro illegale in Kenya dovettero dimettersi tre ministri greci, a cominciare dal ministro degli esteri.
Però posso portare una testimonianza perché prima della partenza, quando Ocalan valutava il da farsi anche sulla base di ciò che gli avevano consigliato gli avvocati Pisapia e Saraceni (che erano anche deputati della Repubblica) i quali, al contrario di quanto afferma D’Alema, a me risulta lo avessero consigliato di rimanere in Italia giacché le accuse che gli venivano rivolte nella richiesta di estradizione erano teoremi politici più che accuse circostanziate, e avrebbero superato la prova di qualsiasi tribunale italiano che le avesse esaminate.
Vero è invece, in esecuzione di un trattato fra Italia e Turchia precedente il colpo di stato militare e mai annullato, che un minuto dopo il rifiuto ufficiale dell’estradizione qualsiasi magistrato italiano avrebbe potuto arrestare Ocalan e sottoporlo a giudizio secondo le accuse della magistratura turca.
LA MIA TESTIMONIANZA è che Ocalan mi disse che se l’avessero arrestato in Italia secondo il trattato di cui sopra, pur non temendo il processo, pensava che il popolo kurdo avrebbe vissuto il suo arresto in Italia come una sconfitta che avrebbe potuto provocare reazioni disperate e incontrollate. Io, ovviamente, mi limitai a descrivere cosa sarebbe successo se fosse rimasto condividendo l’opinione degli avvocati e rassicurandolo sulla crescita del movimento di solidarietà con il popolo kurdo, ma non mi permisi di dare consigli e tanto meno indicazioni.
Poche ore dopo il mio colloquio vennero da me esponenti di primo piano del Pkk che mi informarono, dato il rapporto fraterno fra noi e loro, che il movimento pensava che il loro presidente avrebbe dovuto rimanere in Italia ma che, ovviamente, avrebbe avuto l’ultima parola sul da farsi. Solo a quel punto dissi loro a nome del mio partito che anche noi eravamo della stessa opinione e che se poteva servire usassero questa informazione per convincerlo a rimanere. Ho detto tutto questo per testimoniare dello spessore umano e politico di Ocalan che prima che a sé stesso pensò al suo popolo. Il che è più o meno il contrario di quel che fanno i governanti europei e italiani in particolare.
Abdullah Ocalan è il Nelson Mandela (chissà come sarebbe passato alla storia chi non avesse concesso asilo al Mandela capo militare della Anc) del popolo kurdo. I suoi scritti in carcere sono una elaborazione che tutta la sinistra mondiale dovrebbe studiare e sono alla base del fatto che il Rojava è l’unico posto in Medio Oriente dove c’è democrazia, dove le donne hanno gli stessi diritti degli uomini e dove le persone di diverse etnie e religioni convivono pacificamente. Invece è tutt’oggi bersaglio di bombardamenti e di attacchi continui da parte della Turchia (con le armi fornite dalle industrie belliche italiane) e dell’Isis.
Noi combatteremo sempre per la liberazione di Abdullah Ocalan che consideriamo anche un nostro punto di riferimento politico e teorico.
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