Costituzione Malgrado il ricorso alla legislazione di urgenza sia ormai prassi consolidata, non era immaginabile che lo strumento diventasse un mezzo per superare il dibattito parlamentare. Un provvedimento di «controllo» che muta il paradigma della penalità: da repressione di fatti costituenti reati a individuazione di soggettività pericolose
Illustrazione Gary Waters – Ikon Images
Forse bisognerebbe ricordare le perplessità di Costantino Mortati nel corso della discussione che avrebbe portato alla formulazione dell’articolo 77 della Costituzione, quello che prevede la possibilità per il governo di adottare decreti-legge in caso di necessità e urgenza.
Il grande costituzionalista intervenne nel settembre del 1947 nel dibattito che si era aperto con la constatazione che il Progetto predisposto dal Comitato ristretto dell’Assemblea costituente non li prevedeva e che, secondo quanto suggerito da Pietro Calamandrei, un qualche spiraglio andava lasciato, per esempio, per provvedere urgentemente in caso di terremoti o simili situazioni: «Bisognerà pure prevedere la possibilità di questi cataclismi e disporre una forma di legislazione di urgenza, che è più provvido disciplinare e limitare piuttosto che ignorarla».
Mortati metteva in guardia rispetto al rischio estensivo di quel concetto di urgenza e di necessità, negando a quest’ultima la possibilità di esondare dal normale procedere legislativo, quasi configurandola come «fonte autonoma di diritto». E, proprio per questo ammoniva: «L’esperienza ha infatti dimostrato come qualsiasi tentativo di regolamentazione e di disciplina dell’emissione dei decreti-legge sia stata sempre esiziale, e non soltanto sotto il regime fascista. Essa ingenera da una parte la tentazione da parte del governo di abusarne per la più rapida realizzazione dei fini della sua politica; dall’altra parte, vorrei dire, eccita la condiscendenza del parlamento, il quale tende a scaricarsi dei compiti di sua spettanza».
Il testo poi adottato nella Costituzione prevede una forma di “catenaccio” teoricamente volto a evitare il rischio di debordare. Certamente, però, quel dibattito non poteva prefigurare una situazione in cui allo strumento di legiferare per decreto, con successiva conversione, avrebbero fatto ricorso bulimico molti governi futuri – di vario orientamento politico – fino a svuotare il ruolo effettivo di almeno di una delle due camere, chiamata a ratificare a scatola chiusa quanto nell’altra si era dibattuto. Così come usualmente avviene ora.
Soprattutto non poteva prevedere il ricorso al decreto-legge per superare un dibattito parlamentare attorno a un disegno di legge la cui approvazione fosse divenuta ardua proprio per le molte perplessità espresse da associazioni professionali, realtà sociali, esperti nonché da parlamentari stessi sul testo in esame. Ancor più nel caso in cui tale disegno di legge riguardasse quel bene che l’articolo 13 della Carta definisce come «inviolabile»: la libertà personale. Lorenza Carlassare si chiese anni fa se un decreto-legge potesse costituire quella tutela che la Costituzione richiede per tale bene.
Invece, è proprio ciò che è avvenuto in questi giorni, con il disegno di legge cosiddetto «sicurezza» che era da più di un anno all’esame del senato, in maniera congiunta da parte della commissione per gli affari costituzionali e di quella per la giustizia e che ora si trasforma, con qualche attenuazione, ma con la stessa fisionomia, in decreto-legge.
Non un testo qualsiasi, bensì un articolato che tocca vari aspetti e che sarebbe stato meglio definire di esteso «controllo» invece che non di «sicurezza», perché i due termini non sono sinonimi e, al contrario, se il secondo esprime un valore da tutelare per la collettività nel contesto di garanzia dell’effettività dei diritti per tutti, il primo rappresenta un’inaccettabile intrusione nella espressione del dissenso. Un controllo che, nel testo del decreto-legge, muta anche il paradigma della penalità trasferendone la funzione da repressione di fatti costituenti reati a individuazione di soggettività di per sé assunte come potenzialmente pericolose.
Non è possibile leggere altrimenti, per esempio, il mantenimento, pur attenuato rispetto al testo del discusso disegno di legge, della possibilità di restringere in dipartimenti detentivi donne incinte e madri di bimbi di età inferiore a un anno – nonostante sia per loro riservata la sistemazione in un Icam (Istituto a custodia attenuata per madri con bambini), considerato che ne esistono solo tre al Nord e uno in Campania e che così si porrà facilmente il problema della distanza dal proprio luogo familiare. Come pure è difficile leggere altrimenti le attenuazioni impresse all’originario nuovo reato di rivolta in carcere perché queste non risolvono la gravità di penalizzare l’inadempienza a ordini impartiti, soltanto col prevedere che tale passiva resistenza debba essere tale da incidere sul mantenimento dell’ordine e della sicurezza. Come non cambia il senso del provvedimento, l’aver circoscritto le opere pubbliche o i servizi la cui interruzione determina, anche nel nuovo testo, forti aggravanti sul piano penale. Né incidono altre attenuazioni sul piano della facoltatività – e non l’obbligatorietà – per le università e gli enti di ricerca a collaborare con i Servizi di sicurezza per fornire informazioni e dati o, ancora, le attenuazioni nella politica repressiva nei confronti delle persone migranti irregolari.
Sono attenuazioni che evitano il rischio di palese bocciatura e che sono state presentate enfaticamente, con anche lo sgarbo istituzionale di voler sottintendere l’intrinseca approvazione del Quirinale; ma che non mutano l’ambito paradigmatico del provvedimento. Che ruota appunto attorno a quella «necessità e urgenza» che il dibattito costituente aveva posto proprio per configurare un “catenaccio” che evitasse l’affermazione primaziale del potere esecutivo sulla produzione di norme da mantenere invece affidata al doveroso e libero dibattito parlamentare.
Questo è il vulnus che tale modo di legiferare determina nell’ordinato sviluppo democratico centrato sul bilanciamento dei poteri e che è stato ed è l’asse centrale su cui la nostra Carta tesse il proprio filo. Perché di fatto – nonostante l’occhio vigile volto a far cadere le più palesi connotazioni poliziesche del provvedimento – si è azzerato un dibattito prolungato che aveva il segno di richiamare l’attenzione sul principio del limite che deve essere criterio regolatore dell’attività di governo e dello stesso potere legiferante. Qui il limite viene visto come un impaccio e per questo lo si supera forzando quello strumento che aveva costituito la lunghissima discussione nell’Assemblea costituente, protrattosi per più mesi, proprio per i rischi che si intravedevano. Anche molto inferiori a quelli che la realtà ci sta presentando.
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Liberation Day Il terzo giorno di caduta verticale delle borse ha trasformato i titoli dei giornali americani in cronaca monotematica dell’implosione economica. Primo fra tutti il Wall Street Journal, voce dell’establishment di […]
Donald Trump al Trump National Golf Club - Ap
Il terzo giorno di caduta verticale delle borse ha trasformato i titoli dei giornali americani in cronaca monotematica dell’implosione economica. Primo fra tutti il Wall Street Journal, voce dell’establishment di Wall street e paludato organo del Dow Jones che dall’infausto mercoledì «della liberazione», suona un’incessante marcia funebre.
E indirizza editoriali sempre più stridenti all’indirizzo della politica che ha capovolto il mondo del commercio e della finanza globale. Sono indicativi i titoli di una singola edizione: Trump continua imperterrito a imporre cambiamenti su scala raramente vista prima; La borsa in tilt su notizie di nuovi dazi, Wall street inizia ad esprimersi contro la politica di Trump; Trump sostiene che i dazi sono reciproci; non lo sono.
Una rassegna del terrore e del disgusto che serpeggiano ormai apertamente ai piani alti del capitalismo mondiale. Nulla ha fatto per lenirli il fatto che dopo aver appiccato l’incendio all’economia mondiale, il presidente bancarottiere si sia ritirato sui campi di golf per un torneo sponsorizzato dai partner sauditi (la Casa bianca ha anche diramato un comunicato ufficiale per dar conto della vittoria di Trump che sarebbe passato al girone finale del torneo). Ma mentre il presidente piromane si diletta come Nerone fra le fiamme, sale l’angoscia non solo fra i capitalisti ma soprattutto fra i piccoli risparmiatori che stanno assistendo al falò dei fondi pensione (e al concomitante sabotaggio della previdenza pubblica martoriata dai licenziamenti del Doge).
Eppure perfino Elon Musk si sta pronunciando contro le barriere commerciali di Trump aggiungendo la propria voce a colleghi come Jamie Dimon, Ceo di JP Morgan Chase e Larry Fink di Blackrock, che ritiene ormai iniziata la recessione, e altri multimiliardari come Bill Ackman, direttore di hedge fund e ardente sostenitore della campagna elettorale di Trump che in un post ha scritto: «Applicare dazi sproporzionati ad amici e nemici innescando una guerra economica contro il mondo intero, rischia di distruggere ogni fiducia nei confronti del nostro paese». «Avevo immaginato che sarebbe prevalsa la razionalità. Colpa mia».
Le lacrime di coccodrillo di Ackman e dei suoi colleghi non hanno impressionato l’economista Paul Krugman, che ha definito il finanziere uno «stolto». «Mentre affrontiamo ogni inferno che porta il nuovo giorno – ha scritto il premio Nobel – sorge ovvia la domanda : chi ha messo al comando questi malevoli pagliacci?».
Il caosintanto sta mettendo a fuoco il dilemma di un paese che è ormai avviato su una china autodistruttiva. Anche prima dell’assetto “plenipotenziario” inventato per Trump dall’attuale Corte suprema, infatti, l’ordinamento americano non prevedeva crisi o rimpasti di governo né una sfiducia politica formale al presidente. Unica via percorribile per arginare le politiche distruttive di Trump sembrerebbe dunque la strada della lotta e della mobilitazione di massa, di un inasprimento del conflitto sociale. Ma a questo riguardo il presidente autocrate starebbe valutando di giocare nuovamente la carta dei poteri speciali – stavolta quella dell’Insurrection Act del 1807, una legge marziale che sarebbe pronto a invocare preventivamente già dal 20 aprile, data in cui i ministri della sicurezza e della difesa presenteranno un rapporto sulla «messa in sicurezza» del confine. Una loro valutazione negativa potrebbe servire da facile pretesto per un ulteriore giro di vite contro il dissenso in quella che somiglia sempre più ad una rappresaglia del presidente contro il proprio paese.
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PORTICO Della PACE
rete interculturale interreligiosa intergenerazionale
degli artigiani di pace a Bologna
LE PAROLE CHE PORTIAMO IN QUESTA PIAZZA
La prima parola che portiamo in questa piazza è EUROPA, certo! Ma un’Europa che fa politiche di disarmo e legifera contro la proliferazione degli armamenti. Un’Europa come i Padri fondatori l’hanno sognata:
- che non riaccende i nazionalismi, non arma fino ai denti gli eserciti nazionali
- che non ritorna alle mine antiuomo e delle munizioni a grappolo, stracciando le convenzioni
- che non ci porta all’apocalisse atomica cui mancano solo 89 secondi.
Soprattutto: un’Europa che si dà un Modello di difesa popolare, un Dipartimento per la difesa civile non armata e nonviolenta, effettivi Corpi civili di pace. Coinvolgenti tutta la popolazione: è il modello di difesa più efficace, per la ricerca storica e scientifica.
Finalmente, un’Europa che si dà strumenti di governo della pace: un Commissario alla Pace a Bruxelles, un Ministero della Pace in ogni Paese membro, un Assessore alla Pace in ogni Comune e in ogni Regione.
Se la prima parola è Europa, la seconda è simile alla prima: PACE certo! Ma non una parola vuota, bensì piena di politiche di pace: distensione, amicizia, mediazione e regolazione dei conflitti; STOP all'economia di guerra, STOP ai sacrifici dei cittadini, STOP ai tagli di istruzione salute lavoro e diritti, STOP alla devastazione ambientale.
Come ha ben detto Cecilia Strada al Parlamento europeo, nel kit di sopravvivenza mettiamo:
- tasse agli extra-profitti dell’industria bellica
- lotta alle disuguaglianze per la giustizia sociale
- diritto internazionale umanitario, stracciato da Putin così come da Netanyahu
- la Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione
Se in nome della sicurezza l’Europa rinuncia a proteggere i diritti delle persone e i valori costituzionali, se armata fino ai denti si trasforma una jungla di ingiustizie sociali, alla fine non ci rimarrà molto da difendere! (Strada)
La pace non è assenza di guerra: comincia con la rinuncia alla violenza, si fa abitando i conflitti e rimuovendo le cause dell’ingiustizia, si realizza nella PIENEZZA DEI DIRITTI, nella PIENEZZA DI VITA DI OGNUNO, nella PIENEZZA DI PARTECIPAZIONE PER TUTTI!
La Rete Italiana Pace Disarmo (ACLI ARCI e CGIL tra gli altri, alcune qui presenti oggi), ci pone il grande tema: l’Europa è ancora un’Arca di pace o diventa un arco di guerra? Difesa europea sia prima di tutto disarmo, mediazione politica e sicurezza condivisa. Perché la sicurezza o è condivisa, di tutti, o semplicemente non è!
UN’ECONOMIA DI PACE NON DI GUERRA. Un’Europa FORTE e NONVIOLENTA, che sa difendersi con politiche di distensione, amicizia e mediazione prima di tutto verso il mondo che è sempre stato il suo ed è la culla della civiltà: il Mediterraneo, l’Africa, l’Oriente!
Le ultime parole. E proviamo a unirle nel discorso: CONFLITTI, GUERRA, VIOLENZA
Che un sistema fondato sulla PACE sia meglio di uno fondato sulla GUERRA lo dicono le leggi dell’economia e la storia della prosperità dei popoli. La pace conviene a tutti!
Lo dicono storici, sociologi, politologi, giuristi, filosofi, fisici e matematici.
Lo dicono le scienze dure, i diagrammi e gli studi dei sistemi complessi.
È ora di riprendere in mano i nostri sogni e imboccare una strada nuova!
È ora di dare spazio e fondi in tutta Europa alle Scienze per la Pace. I conflitti saranno sempre tra noi, sono necessari, positivi, generatori di cambiamenti, vanno abbracciati e abitati. È la scorciatoia della guerra, che è violenza e necropolitica massimizzata, che va espulsa dalla storia! Il fatto è che noi siamo analfabeti dei conflitti perché non li studiamo. Non sappiamo gestire i conflitti perché finanziamo solo ricerche militari. E così la pace non avanza. I fondi pubblici vadano in entrambe le direzioni. Avviene già in Francia. Questo soprattutto diceva profeticamente il compianto Alexander Langer (ci manca da 30 anni!): si incontrino Scienze per la Pace e Scienze della Guerra, accademie militari e atenei civili, a viso aperto! Studino il CONFLITTO e la DIFESA, e non già la migliore VIOLENZA: con il potere tecnologico odierno nessuna violenza vince più nessun conflitto. Un’alleanza per la pace fra gli apparati politico-militari e le istituzioni scientifiche! LIBERA! dagli inconfessabili interessi dell’apparato industriale militare, l’industria più prospera con affari oggi da capogiro, grazie al carburante più squallido e inquinante: la PAURA instillata nel cuore di ognuno di noi.
RITORNI LA POLITICA! Non sottomessa né umiliata dal potere economico, torni al suo compito: non tradisca la nostra anima, ci dia ancora visione, indichi ancora il nostro sogno con la necessaria utopia.
La pace è sexy, per dirla con l’amico Bergonzoni!
È forza. È compimento. È solidità risolta.
È ambizione di puntare a cambiare il modo di vedere le cose.
È coraggio di tendere al cambiamento dell’altro nell’incontro con noi.
Al cambiamento di noi nell’incontro con l’altro
Da Europeo invito tutti gli Europei ad essere all’altezza della storia. RIBELLIAMOCI, personalmente e comunitariamente dal più giovane al più anziano, per una definitiva OBIEZIONE ALLA GUERRA. Un conclusivo e irreversibile atto di OBIEZIONE DI COSCIENZA.
Il grido dimenticato dei nostri Padri, sia anche il nostro e dei nostri figli: MAI PIU’ LA GUERRA, MAI PIU’ LA GUERRA, MAI PIU’ LA GUERRA!
Lo storico: "Pare che la nostra epoca assomigli al periodo che ha preceduto la Prima guerra mondiale"
“A noi storici spesso chiedono a quale periodo del passato assomiglia la nostra epoca. Purtroppo, negli ultimi tempi comincio ad avere sempre di più l’impressione che la nostra epoca assomigli al periodo che ha preceduto la Prima guerra mondiale, nel 1914″.
Ha iniziato così il suo intervento lo storico Alessandro Barbero, che è intervenuto con un videomessaggio registrato alla manifestazione contro il riarmo organizzata a Roma dal Movimento 5 stelle.
E ha aggiunto: “Allora l’Europa usciva da un lungo periodo di pace (…) e anche adesso usciamo da un lungo periodo di pace, quasi, se dimentichiamo i Balcani e le guerre coloniali”
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Da disegno di legge a decreto. Entrano subito in vigore le norme securitarie che lasciano mano libera alla polizia e perseguitano chi protesta. Il governo calpesta Costituzione e parlamento, copre le sue divisioni e fa un altro passo verso l’Ungheria di Orbán. La risposta è in piazza
La stretta «Non funziona più così», risponde l’agente di polizia al professore arrestato perché appoggia le proteste contro il collasso climatico, quando chiede il rispetto delle garanzie costituzionali. Siamo nel 2030 negli […]
Giorgia Meloni e Matteo Piantedosi – Ansa
«Non funziona più così», risponde l’agente di polizia al professore arrestato perché appoggia le proteste contro il collasso climatico, quando chiede il rispetto delle garanzie costituzionali. Siamo nel 2030 negli Usa e in Diluvio, romanzo di Stephen Markley, ma la scena potrebbe ripetersi in una qualsiasi città italiana. E non tra qualche anno ma già domani, perché il governo ha trasformato in decreto il disegno di legge «sicurezza» che limita i diritti e aumenta le pene. Meloni stringe i bulloni della repressione, guarda caso – dalla finzione alla realtà – anche contro gli attivisti del clima. Lo fa con un provvedimento immediatamente in vigore che dovrebbe, per Costituzione, essere di «straordinaria necessità e urgenza» e invece è diventato prassi per il governo. A domanda su dove diavolo sia l’urgenza, il ministro Piantedosi ha risposto candido: «In parlamento si è perso troppo tempo».
Un anno e mezzo di discussioni, «tempo perso» durante il quale tutti gli emendamenti delle opposizioni sono stati respinti, quindi è falsa la spiegazione del ministro per cui il decreto «recepisce il dibattito parlamentare». E poi l’iter di approvazione era ormai quasi concluso, dunque le motivazioni di questa ennesima umiliazione delle camere sono evidentemente altre. Essenzialmente due.
La prima è far digerire alla Lega qualche modifica richiesta dal Quirinale, offrendo in cambio un’approvazione immediata. Il congresso della Lega che comincia oggi è il vero motivo di urgenza del decreto. Salvini ha rivendicato tutto postando immediatamente e pieno di gioia le foto di tutti i corpi di polizia.
La legge è infatti un omaggio delle destre ai sindacati delle Forze dell’ordine, che avranno le mani più libere e soprattutto diecimila euro di soldi pubblici per ogni grado di giudizio per difendersi se accusati, come capita, di reati commessi in servizio. Questo nel paese dove non ci sono i fondi per risarcire le ingiuste detenzioni e un’elementare misura di garanzia come le body cam sulle divise degli agenti è ridimensionata (in questo stesso decreto) a «possibilità» e finanziata con fondi insufficienti. Ma il messaggio è chiaro: la premier (certo non solo Salvini) sta con le divise, del resto non si era fatta scrupolo di correggere persino il presidente della Repubblica quando aveva criticato le botte agli studenti di Pisa. Le divise ricambiano e da un po’ di tempo i sindacati hanno preso l’abitudine di commentare l’attualità a colpi di comunicati stampa come un Gasparri qualunque, l’altro giorno anche per criticare una sentenza, quella su Askatasuna.
La seconda ragione che ha spinto il governo a lasciar morire uno dei rari disegni di legge per sostituirlo in corsa con l’ennesimo decreto è che
Leggi tutto: Repressione senza alternativa - di Andrea Fabozzi
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