Intervista Il presidente Arci Walter Massa spiega il senso di non unirsi alla piazza convocata da Michele Serra: «Ma faremo da pontieri. Non servono ulteriori spaccature»
«Lo diceva sempre Tom Benetollo: bisogna scegliere di stare dalla parte giusta». Per spiegare la scelta della sua organizzazione di restare fuori dalla piazza per l’Europa del 15 marzo, Walter Massa, presidente nazionale dell’Arci, fa ricorso ai padri nobili. E a Benetollo, che condusse l’associazione oltre il Novecento all’insegna della rivendicazione dell’autonomia della società. Oggi Massa guida la storica associazione che conta quasi mezzo milione di iscritti e che afferma in un comunicato che la manifestazione convocata da Michele Serra «rischia di trasformare un giusto sentimento in un sostegno incondizionato alle politiche di guerra che l’attuale Commissione d’intesa con gli stati membri sta portando avanti».
Perché avete preso questa decisione?
Pensiamo che soltanto restando fuori possiamo svolgere il nostro ruolo. Siamo gli unici che possono permettere che non ci sia una rottura tra la piazza e il resto. Siamo convinti che dentro quella piazza non saranno tutti guerrafondai così come siamo convinti che fuori da quella piazza non ci saranno tutti i putiniani. E dobbiamo fare da ponte tra queste dimensioni, perché il mondo non finisce il 15 marzo.
Essere pontieri tra diversi è la cosa che vi caratterizza quasi da sempre.
È il nostro lavoro. Pensa a Genova contro il G8, nel 2001, quando manifestammo senza che ci fosse nessuno dei nostri amici storici. Adesso il mondo è cambiato e in questo momento c’è bisogno di dare un segnale.
È stato difficile prendere questa decisione?
Consideriamo che la nostra sia una scelta al servizio del movimento pacifista, che non può permettersi di spaccarsi ancora una volta.
Non c’era altro modo?
Si trattava di scegliere: se esserci con le nostre posizioni o non esserci. Ma in questa epoca di grande caos occorrono tre cose soprattutto: chiarezza delle posizioni, fermezza nei valori e disponibilità a discutere. Cerchiamo di rispettarle tutte e tre.
Dal 16 marzo cosa succederà?
Tutti e tutte, con altre parole potranno ritrovarsi in altre mobilitazioni contro il riarmo, non solo nazionali ma europee. Crediamo che sia sbagliata la posizione secondo la quale l’Europa debba fare quello che gli Stati uniti non vogliono più fare. Senza metterci alla testa di niente, come è il nostro stile, vogliamo mobilitarci in questo senso. E offriamo questo terreno da dopo il 15 marzo.
Una cosa possiamo dire con certezza, dopo anni di combattimenti ai bordi dell’Europa: non è stato quello della guerra il terreno della ricomposizione delle lotte. Eppure la pace lo era stata tante volte. Perché?
Non lo è stato, lo abbiamo verificato sia in Italia che nei rapporti internazionali che abbiamo. Non lo è stato perché la cultura bellicista è tornata ad essere unico strumento possibile per risolvere le questioni, di qualunque natura. E perché il confronto politico troppo spesso è fatto da bolle che ti costringono di stare o da una parte o dall’altra.
Si inaridisce lo spazio pubblico.
C’è anche che dobbiamo recuperare una capacità di analisi. Ad esempio c’è un documento che mi ha fatto scoprire il professor Stefano Zamagni, risale ad anni fa e porta la firma dei nuovi oligarchi digitali. In questo testo si sostiene che la democrazia è ormai un ostacolo allo sviluppo. Dunque, quando il vicepresidente degli Stati uniti va in Germania e incontra solo quelli Afd lo fa perché considera che quello è il grimaldello che fa saltare il sistema.
È quello che negli anni precedenti ha fatto Putin, investendo sulle estreme destre.
Ecco: questo è il mondo dei forti che si mettono d’accordo alle spalle dei deboli.
La vostra gente capirà il senso di questa decisione?
Se dovessi rappresentare con un immagine la scelta che facciamo come Arci lo farei dicendo che non stiamo a questo gioco e mi viene in mente l’appello di Öcalan, che dal carcere dice basta alle armi proprio mentre sta per scoppiare la terza guerra mondiale. Mi riconosco in quella volontà e nel messaggio che ci dà: è che quello il gioco fa far saltare, il piano della guerra.
Crisi ucraina L’economista e analista Jeffrey Sachs al Parlamento europeo: serve una politica estera e, certo, una difesa comune, ma in primis una Costituzione e la memoria della pace per cui era nata
I militari alla cerimonia dell'alzabandiera per l'inizio della decima legislatura di fronte al Parlamento europeo a Strasburgo – foto Ap
Il 19 febbraio scorso Jeffrey Sachs ha tenuto una mirabile conferenza alla sede del Parlamento europeo, nella cornice dell’incontro “The Geopolitics of Peace”, seguita da una batteria di domande – e di risposte capaci di risvegliare il cuore di molti da questo sonnambulismo che sta spingendo l’Europa ad armarsi in ordine sparso e folle, alla guerra contro la Russia.
Vi prego, ascoltate quest’uomo che supplica l’Unione europea di darsi una politica estera indipendente e una difesa comune, certo, ma soprattutto una Costituzione – e la memoria di ciò per cui l’Unione era nata. Che l’invita ad aprire subito, in autonomia, un tavolo di negoziati di pace con la Russia, senza supplicare Trump di essere ammessa al suo commercio. Che vede nella spaventosa confusione fra Unione Europea e Nato, le quali di fatto hanno agito come fossero una cosa sola negli ultimi trent’anni, la tragedia peggiore della nostra storia. Che ripete con dolcezza, con anti-kissingeriana profondità d’amore per l’Europa dell’Est cui appartengono sua moglie, ceca, e i suoi figli e nipoti, la battuta di Kissinger: essere nemici degli Usa è pericoloso, ma esserne amici è fatale”.
Chi è Jeffrey Sachs? Molti lo sanno: economista e analista politico, già consigliere economico di Gorbaciov nel 1990 e 1991 e, prima, della Polonia, il primo paese a instaurare un governo non comunista nel 1989, poi di Leonid Kravchuk, presidente dell’Ucraina, nel 193-94; aiutò a introdurre e stabilizzare la nuova moneta dell’Estonia, fu consulente anche in ex Jugoslavia, Special Advisor all’Onu dai tempi di Khofi Annan e attualmente di Antonio Guterres, già direttore dello Earth Institute for Sustainable Development a Columbia University dove ancora insegna, autore fra l’altro del recente A New Foregn Policy – Beyond American Exceptionalism (2020). Già – qualcuno si chiederà – non era l’uomo che ha rovinato con politiche liberiste di austerità mezza Europa dell’Est oltre ad aprire la via agli oligarchi in Russia?
Nel libro, ma anche nella conferenza, si difende da queste accuse. Cito dal libro. Le misure per l’Unione sovietica prevedevano «una sorta di Piano Marshall che aiutasse Gorbaciov a ricostruire e ammodernare la sua economia in base a principi di mercato…L’Unione Sovietica avrebbe dovuto ricevere un cospicuo finanziamento….mentre attuava le sue riforme politiche e la democratizzazione. Il piano fu rapidamente bocciato dalla Casa Bianca nell’estate del ’91. Gorbaciov fece un fervente e dettagliato appello al G7 di Londra nel luglio del ’91. Quando l’appello fallì, tornò a casa e si trovò il tentato golpe in agosto». Eppure, alla Polonia tutto questo era stato concesso. «Alla Polonia, sì. Alla Russia, niet».
Ascoltate questo discorso, si trova facilmente in rete. Trentasei anni e più di esperienza diretta degli eventi si srotolano davanti a noi, da lasciarci increduli di fronte a questa testimonianza in prima persona dell’«oceano di ferocia e idiozia» (copyright Altiero Spinelli) che ha sommerso il lume acceso da Michail Gorbaciov, da lui definito «il più grande statista dei nostri tempi». Ed è di Gorbaciov l’idea dominante in questa lezione, quindi la cito direttamente dall’ultimo libro dello statista sconfitto, La posta in gioco (2020): «Nella politica mondiale odierna non c’è compito più importante e complicato di quello di ristabilire la fiducia fra la Russia e l’Occidente». E Gorbaciov intendeva in primo luogo l’Europa, che sognava una, libera e democratica da Lisbona a Vladivostock. Questa idea, Sachs l’aggiorna: «L’Occidente collettivo? Non esiste». E come dubitarne, ascoltando le memorie di quest’uomo che ha vissuto in prima persona le angosce e le speranze degli europei dell’Est e dei Paesi baltici. L’unipolarismo statunitense comincia nei primi anni ’90. Dick Cheney e altri ci credevano letteralmente: il mondo è degli US ormai e faremo quello che ci pare. Nel 1997 Brzezinski pubblica La grande scacchiera: il primato americano e i suoi imperativi geostrategici. Non un semplice libro, ma «la descrizione pubblica del progetto americano» per i trent’anni a venire. Brzezinski, «uomo gentile», non aveva capito niente. Credeva impossibile l’alleanza con altre potenze, da parte della Russia, che «ha solo vocazione europea». Per questo il piano era di bloccarla, questa vocazione. Lui «sapeva», come gli strateghi americani «che praticano la teoria dei giochi: non parli all’altra parte. Non ti informi, non discuti. Lo sai».
Chiavi del progetto erano la Georgia e l’Ucraina, ultima Thule dopo l’espansione a Est della Nato (e dell’Unione europea, come fosse la stessa cosa). Alla faccia dell’impegno preso con Gorbaciov in cambio della riunificazione tedesca, non un pollice a est di Berlino. D’altronde, tutto quello che gli Usa sanno dell’Europa viene dal Regno Unito, sorride Sachs. È ancora la dottrina di Lord Palmerston e della guerra di Crimea del 1853. Privare la Russia di status internazionale bloccando l’accesso al Mar Nero. «Da questo punto di vista, nulla cambia da Bush a Clinton a Obama a Trump1 a Biden. Ma è così anche in Kosovo e South Sudan. Progetti americani, non guerre tribali autoctone. Chiunque c’è stato l’ha visto. E lui c’è stato: perfino a Nairobi, più e più volte. E Israele? Risale al primo governo Netanyhau, 1996 la strategia anti-russa in Medio Oriente. Il progetto di annessione dei territori occupati è lì da 25 anni, lo trovate in rete col Clean Brake Report.
Nel 2002 sono gli Stati Uniti a uscire unilateralmente dal Trattato sulla riduzione dei missili balistici, e porre fine al framework per il controllo delle armi nucleari. Dopo l’allargamento alla Nato degli stati baltici e di altri quattro paesi, Romania Bulgaria Slovenia e Slovacchia, nel 2007, a Monaco, Putin dice basta. Ma nel 2008 gli Usa invitano ad entrare nelll’Alleanza atlantica Georgia e Ucraina. Nel 2014 Sachs vola in Ucraina: ascoltate i dati su quanto gli americani avevano pagato per il regime change ai danni di Janukovic. Nel 2022, quando pochi giorni dopo l’inizio dell’invasione russa si profila la possibilità di un negoziato, Sachs vola ad Ankara, per vedere con i propri occhi. È in contatto con i funzionari statunitensi e britannici, parla con tutte le parti. Non è per averlo sentito dire in giro, che ci spiega perché Zelensky abbandona unilateralmente il negoziato, a documento accettato da Putin e Lavrov. Boris Johnson aveva dichiarato in gioco l’egemonia occidentale. Forse un milione fra morti e mutilati di entrambe le parti, per questo.
Jeffrey Sachs si rivolge ai parlamentari europei. La limpidezza del suo pensiero ci rende nativa la lingua in cui lo esprime. Che qualcuno lo ascolti.
Commenta (0 Commenti)L’Europa come fede Per gli agnostici non è facile entrare nel merito delle convinzioni religiose altrui. Si prova un certo imbarazzo, perché ci si rende conto di essere in una posizione difficile: anche […]
Per gli agnostici non è facile entrare nel merito delle convinzioni religiose altrui. Si prova un certo imbarazzo, perché ci si rende conto di essere in una posizione difficile: anche se accompagnato dalle migliori intenzioni, un argomento formulato “da chi sta fuori” può essere facilmente frainteso, esponendo chi lo ha proposto all’accusa di mancanza di rispetto per la fede altrui. Forse qualcosa di simile a questo meccanismo psicologico di estrema cautela può aiutarci a comprendere perché, anche quando ce ne sarebbe un grande bisogno, il dibattito sull’Europa è così povero. Si convocano marce, ma si evitano le discussioni nel merito di scelte politiche dalle conseguenze di grande importanza. L’Europeismo è stata l’unica fede sopravvissuta a un’epoca di profondo disincanto. Una fede difesa dai suoi vescovi e cardinali, la cui parola autorevole può essere ripresa dai pulpiti parrocchiali, ma non discussa come si farebbe in un dibattito laico, e aperto al contributo dei “gentili”.
Per una parte della sinistra italiana dopo la caduta del muro di Berlino, la scelta europeista è stata un conveniente sostituto del comunismo, e anche un modo per darsi una patina di legittimità nel nuovo mondo post guerra fredda, senza passare per le forche Caudine della socialdemocrazia. In fondo, non c’era Delors tra i padri della nuova Europa sociale che stava nascendo? Perché attardarsi su una vecchia cultura socialista che, anche quando aveva accettato il metodo riformista, aveva conservato una sana diffidenza nei confronti del capitalismo (e dei capitalisti), si teneva stretto il rapporto (anche se non sempre facile) col sindacato, e difendeva il welfare universalista come una conquista di civiltà? Nel nuovo catechismo ordoliberale era possibile conservare i benefici di un secolo di lotte del movimento operaio e al tempo stesso arricchirsi, liberandosi anche dalla seccatura della partecipazione politica, perché il mercato funziona come un orologio, e segna sempre l’ora giusta. Al massimo, ogni tanto, deve essere revisionato da un orologiaio di quelli bravi.
Nel vuoto politico che si è creato nel nuovo secolo, rifugiarsi nel conforto della fede è servito a non farsi fuorviare troppo dai cambiamenti che avvenivano nella prassi e sotto la spinta degli eventi. Non che mancassero i segnali preoccupanti e chi li richiamava all’attenzione del pubblico (tra gli altri spiccano i nomi di Ralf Dahrendorf e di Tony Judt). Ma i cardinali non discutono di dottrina con gli scettici, al massimo li ascoltano con garbo nell’ambito di quelle lodevoli istituzioni che sono le “cattedre dei non credenti”. Questa neutralizzazione della critica per custodire la fede dei credenti, anche quando a criticare sono interlocutori non ostili, ha fatto molto male all’Europa negli ultimi anni, in maniera sempre più evidente a partire dalla crisi del debito greco, ed è una delle cause principali (ma accuratamente rimossa dal clero europeista) della violenta reazione nazionalista che ha portato al governo, o nell’anticamera del potere, forze politiche cresciute proprio proponendosi come alternative all’Europa come è diventata (più neoliberale e molto meno sociale).
Alla fine degli anni Novanta, ragionando sulla possibile crisi della futura moneta unica (un tema che era dibattuto tra gli economisti) Timothy Garton Ash scriveva: «Gli euro-ottimisti sperano che questa crisi catalizzerà la liberalizzazione economica, la solidarietà europea e forse anche quei passi di unificazione politica che storicamente hanno preceduto, non seguito, le unioni monetarie di successo. Una paura condivisa delle conseguenze catastrofiche di un fallimento dell’unione monetaria unirà gli europei, come ha fatto in passato la paura condivisa di un nemico esterno comune (mongoli, turchi, sovietici). Ma è un vero e proprio salto di fede dialettico suggerire che una crisi che esacerba le differenze e le tensioni tra i paesi europei sia la strada migliore per unirli». Oggi siamo arrivati proprio dove immaginava Garton Ash: il nemico è alle porte, ci dicono, e dobbiamo fare un altro salto. O meglio, dovremmo marciare per testimoniare la nostra fede, confidando ancora una volta nella provvidenza che ci porterà a riunirci. Se la sinistra vuole sopravvivere, invece, è arrivato il momento di mettere in discussione i dogmi e tornare a ragionare.
Commenta (0 Commenti)Corsa alle armi Per quale Europa scendere in piazza? La domanda può apparire oziosa, considerata la brutalità dei tempi in cui viviamo. Una brutalità, oltretutto, in rapido deterioramento. Eppure, se – come scriveva […]
Per quale Europa scendere in piazza? La domanda può apparire oziosa, considerata la brutalità dei tempi in cui viviamo. Una brutalità, oltretutto, in rapido deterioramento. Eppure, se – come scriveva ieri Andrea Fabozzi – vogliamo evitare il rischio di un’iniziativa meramente autoconsolatoria, non si può non chiedersi quale Europa sia quella che immaginiamo debba porsi in alternativa agli Stati uniti di Trump, Vance e Musk.
Non è necessario richiamarsi al Manifesto di Ventotene per guardare all’Europa odierna con un senso di profondo disagio. Quella che abbiamo innanzi è un’Europa che, in tre anni di guerra alle proprie porte, non è stata in grado di articolare il minimo discorso di pace. Non un’iniziativa diplomatica, non un tentativo di individuare una via d’uscita non violenta. Hanno aperto tavoli di trattativa autocrati come Erdogan e bin Salman. L’Europa no. L’Europa si è data per obiettivo la sconfitta militare della Russia, il crollo della sua economia, la fine politica e personale di Putin. E, ora, a guerra persa, non sa reagire diversamente che progettando di armarsi fino ai denti, derogando, per le spese militari, a quelle medesime regole che per le scuole e gli ospedali ha sempre proclamato inderogabili. Con l’aggravante di un riarmo che non varrebbe, nemmeno in prospettiva, a conquistare una reale autonomia strategica, dal momento che sarebbe realizzato in condizioni di completa sudditanza tecnologica nei confronti degli Stati uniti.
Quantomeno – si dirà – l’Europa non ha ceduto sul piano dei valori. Tra l’aggressore e l’aggredito ha scelto senza tentennamenti, dimostrando di saper stare dalla parte giusta. È fin troppo facile replicare che in Medio Oriente l’Europa ha fatto la scelta opposta: dalla parte del carnefice, contro la vittima, sino alla soglia della plausibilità del genocidio. “Dal fiume al mare” è la realtà dei fatti: solo che è la realtà imposta da Israele. Quel che i palestinesi nemmeno possono dire, gli israeliani possono fare. È questa la giustizia dell’Europa? Farsi scudo dei valori quando conviene, ignorarli quando non conviene? I valori o valgono o non valgono. E se non valgono per alcuni, non valgono per nessuno: divengono il velo d’ipocrisia dietro cui nascondere l’interesse.
D’altro canto, gli Stati europei che si ergono a difensori dell’aggredito ucraino non hanno avuto scrupolo a farsi essi stessi aggressori in anni recentissimi: in Iraq, in Afghanistan, in Siria, in Libia. E quando, dopo aver raso al suolo quei Paesi, ampie fasce di popolazioni si sono mosse alla ricerca di una vita decente, l’Europa ha reagito alzando muri e affidando la propria “sicurezza esterna” ad aguzzini e torturatori conclamati.
Ora è in vista la negazione di un diritto umano centrale nell’ordinamento internazionale successivo alla seconda guerra mondiale: il diritto d’asilo, che la Commissione chiede alla Corte di Giustizia di negare senza nemmeno il fastidio di dover cambiare la normativa in materia. Sicuri saranno i Paesi che i governi europei proclameranno tali; e, in attesa di esservi ricondotti, gli esseri umani in fuga dalle persecuzioni saranno detenuti in campi collocati al di fuori dai confini dell’Europa, là dove persino il diritto alla difesa non potrà essere pienamente esercitato.
Quanto alle politiche interne destinate ai cittadini europei, nessun cedimento al dogma della società di mercato è concepibile. Lo Stato dev’essere ridotto ai minimi termini, perché il solo principio d’ordine sociale accettabile è quello della concorrenza economica: sia essa tra persone, aziende o territori. I cittadini sono ridotti a consumatori; e se lotta alla discriminazione vi dev’essere, è sempre per il medesimo motivo: evitare qualsivoglia distorsione alla regola aurea dell’assoluta libertà dei fattori produttivi (merci, servizi, capitali, persone). La moneta – con la connessa sottrazione del suo governo alla politica, e quindi al controllo democratico – rimane il cuore del sistema. Costi quel che costi. Anche la devastazione sociale di un intero Paese, come la tragedia inflitta alla Grecia dovrebbe ricordarci.
È dunque per l’Europa delle armi, dell’ingiustizia internazionale, dei muri, della moneta che dovremmo scendere in piazza? Per l’Europa, cioè, che, promuovendo le disuguaglianze e alimentando la violenza nelle relazioni internazionali, costruisce all’estrema destra neofascista un presente, e un futuro, di trionfi elettorali?
L’urgenza è la pace. Come insegnava Norberto Bobbio, il primo effetto della guerra è la riduzione della democrazia e dei diritti a formule vuote, di cui si può fare a meno. Il momento è drammatico ed è certamente positivo che ce ne sia consapevolezza, ma se davvero vogliamo dare forza alla bandiera dell’Europa, issiamo al suo fianco il vessillo della pace.
Commenta (0 Commenti)States/Ucraina La rapida trasformazione dell’Ue in una potenza militare non sembra molto più realistica del “piano per la vittoria” sbandierato irresponsabilmente solo poco tempo fa da Zelensky
Quella geopolitica è una dimensione schematica, ripetitiva e povera di varianti. Con diversi nomi, relativi a luoghi geografici e contesti storici differenti, (come vietnamizzazione, irakizzazione o afghanizzazione) gli Stati Uniti hanno sempre indicato il proprio ritrarsi dai teatri di guerra che avevano imposto, costruito o inglobato, lasciando agli alleati la gestione dell’ultima perdente resistenza, dell’inevitabile crollo e dei suoi costi umani ed economici.
Con il conflitto in Ucraina sta accadendo qualcosa di simile: una “europeizzazione” della guerra con esiti altrettanto drammatici e fallimentari a carico di Kiev e della Unione europea, prima sospinti dagli Stati uniti a una linea che non contemplava soluzioni diverse dalla vittoria militare totale contro Mosca, poi lasciati in prima linea a constatare la patente assurdità di una simile pretesa e trarne le dovute conseguenze. Dopo aver abbandonato tutti quei criteri di prudenza (adottati soprattutto da parte di Berlino) volti a chiarire che la Ue non era in guerra con la Russia, né intendeva disporsi a una simile eventualità.
L’Europa non è certo paragonabile per storia e peso economico ai teatri asiatici e medio orientali nei quali Washington ha applicato questo schema facendo perdere ad altri le guerre che aveva incominciato. Trump aggiunge però in questo nuovo scenario una buona dose di azzardo e di brutalità imperiale ritirando il suo aiuto militare a Kiev e minacciando in prospettiva di lesinarlo anche a un alleato storico come l’Europa. La guerra, in questo caso, è stata voluta e iniziata dalla Russia, l’America l’ha però alimentata e virata a proprio favore fino al voltafaccia filorusso. All’Ucraina e all’Unione europea non resta che il compito di perderla nel miglior modo possibile.
Per l’Europa si tratta di un colpo inatteso, di una realtà quasi inconcepibile, qualcosa di abnorme che mette in questione la stessa autorappresentazione degli europei, da sempre convinti che esista l’Occidente e che questo feticcio politico-culturale sarebbe tramontato tutto insieme o tutto insieme fiorito. L’alleanza “occidentalista” con gli Stati uniti e il processo di costruzione dell’Unione europea avevano inoltre illuso i cittadini d’Europa che il nazionalismo che aveva funestato e insanguinato la storia del Vecchio continente non avrebbe mai più preso il sopravvento. Si è invece aggressivamente riaffacciato sulla scena oltre ad essersi saldamente insediato alla Casa bianca e nel governo di alcuni paesi europei.
La risposta della Ue non è delle migliori. Con grande enfasi retorica, ma badando a non offendere il suscettibile Trump, la presidente della Commissione Ursula von der Leyen dichiara giunta l’«ora dell’Europa» annunciando un gigantesco piano di riarmo da 800 miliardi di euro. Per il rafforzamento militare della Ue saranno attivati fondi comuni, previste deroghe al Patto di stabilità, concessi prestiti, mobilitati i capitali privati. Tutto quello insomma che per l’Europa sociale, per la difesa del clima, per la salute, la ricerca o l’istruzione è stato sdegnosamente escluso.
Tuttavia anche la rapida trasformazione dell’Unione europea in una potenza militare non sembra molto più realistica del “piano per la vittoria” irresponsabilmente sbandierato solo poco tempo fa dal presidente ucraino Zelensky.
L’Europa politica non è mai giunta a compimento, gli interessi economici al suo interno divergono quando non confliggono aspramente come durante la crisi dei debiti sovrani e le sue istituzioni faticano perfino a imporre lo stato di diritto ai paesi membri più inclini all’autoritarismo di regime. Può esistere un esercito comune senza una razionalità politica unitaria che lo governi? E non è forse un pericoloso rovesciamento dell’ordine di priorità conferire all’elemento militare una tardiva funzione fondativa? Il riarmo, tuttavia, fa gola a molti: la spesa militare otterrà le sue risorse con devastanti effetti sul bilancio degli stati (e l’industria bellica le sue commesse) ben prima che gli infiniti problemi della difesa comune europea e del rapporto tra eserciti nazionali e forze armate comunitarie possano essere risolti, semmai lo saranno. Da scommettere c’è solo che sulle bombe e sui missili non graveranno dazi.
L’Europa ha nemici ben più insidiosi e diretti di quelli da cui un esercito, comunque mai all’altezza delle superpotenze nucleari, potrebbe difenderla. Si tratta delle destre nazionaliste che insediate direttamente nei governi, o comunque in grado di condizionarli e ricattarli, avversano da sempre l’evoluzione dell’Europa politica e sociale. Sono queste forze le sponde e gli interlocutori di Putin e di Trump che, ben più realisticamente di un’improbabile invasione dell’armata zarista, lavorano alla disgregazione dell’Unione. C’è in realtà un solo grande movimento europeista che abbiamo visto formarsi nelle ultime settimane: è quello che in Germania ha portato in piazza più di due milioni di persone contro il rischio che l’ultradestra di Afd potesse accedere al potere. È questo il modello che si deve seguire senza nascondere, sventolando la bandiera ucraina, ciò che più direttamente minaccia la democrazia in Europa.
Commenta (0 Commenti)Forzare il patto di stabilità, usare i fondi russi congelati all’estero, racimolare i soldi non spesi del Pnrr, riformare il mercato dei capitali per la felicità dell’industria bellica. L’Europa accelera sul riarmo per l’Ucraina, mentre Trump rincara la dose: «Resterete soli»
15 marzo Manifestare nel nome dell’Europa e basta, con la sua bandiera e nessun’altra, come hanno chiesto di fare Michele Serra e Repubblica, esprime la nostalgia di un orizzonte perduto ma può funzionare anche da incoraggiamento per chi continua ad allontanarsi da quello
C’era la bandiera blu con le dodici stelle gialle quando il parlamento europeo approvava l’uso delle armi dell’Unione in territorio russo. C’era quando Ursula von der Leyen ha cominciato ad accarezzare gli obici nei video di propaganda e a parlare del nostro come di un continente “minacciato ai confini”, bisognoso di una “maxi ricarica” di armamenti.
Faceva da sfondo, quella bandiera, anche alla tesi che le munizioni sono ormai “come i vaccini”, non ancora per fare debito comune ma già per concedere ai paesi membri di indebitarsi oltre i limiti per comprare o fabbricare nuovi missili e cannoni. Non per ospedali o scuole, non per completare il Pnrr.
Era stato impossibile, per decenni, scalfire il rigore sul debito, anche quando l’austerità schiantava la Grecia, deprimeva le economie nazionali e più di tutte quella del nostro paese, favoriva un immenso trasferimento di ricchezza dal lavoro alla rendita finanziaria. E sempre la bandiera blu con le stelle garriva a coprire queste scelte: “Ce lo chiede l’Europa”. Poi la crisi ha gonfiato le destre, le stesse che oggi sono formalmente fuori dalla maggioranza di Bruxelles ma sostanzialmente dentro a condizionare ogni scelta. Nell’Unione come nei singoli stati, non solo in Italia visto che tanto nel governo francese quanto nel programma del prossimo cancellierato anche gli ultra europeisti Macron e Merz hanno spalancato le porte ai sovranisti.
Nel frattempo l’Unione non è riuscita a dire una parola netta contro il genocidio di Gaza ma ha continuato ad armare Israele. E la bandiera europea è cucita sulle divise degli agenti di Frontex quando scatenano i cani contro i migranti ai confini est o collaborano con i trafficanti libici per
Leggi tutto: L’Europa non è solo una bandiera - di Andrea Fabozzi
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