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Palestina/Israele Hamas: ora seconda fase, lo dice l’accordo. Netanyahu temporeggia per poter riprendere la guerra. Unicef: aprite le porte della Striscia. Il primo iftar tra le macerie: lunghe tavolate di palestinesi da Rafah a Khan Younis

Khan Younis, la prima rottura del digiuno di Ramadan tra le macerie foto Ap/Jehad Alshrafi Khan Younis, la prima rottura del digiuno di Ramadan tra le macerie – Ap/Jehad Alshrafi

È scaduta ieri la prima fase del cessate il fuoco tra Israele e Hamas. I negoziatori sono rientrati con un nulla di fatto e non si ha idea di quando e se i colloqui riprenderanno. Le trattative per il secondo ciclo dovevano iniziare quasi un mese fa ma solo lo scorso giovedì Tel Aviv ha accettato di inviare una delegazione al Cairo.

Netanyahu vorrebbe estendere di 42 giorni la fase uno, Hamas ha respinto la proposta e intende entrare nella seconda, come stabilito, durante la quale tutti i 59 ostaggi (di cui probabilmente 24 ancora vivi) dovrebbero essere consegnati, i soldati si ritirerebbero da Gaza e il cessate il fuoco diverrebbe definitivo. P

er mettere pressione a Netanyahu e al suo governo, Hamas ha reso pubblico un video che mostra due fratelli, Eitan e Iar Horn, entrambi ostaggi a Gaza, salutarsi e abbracciarsi in lacrime prima del rilascio di uno di loro. Eitan è rimasto nella Striscia e nel filmato girato dal gruppo islamico chiede a Netanyahu di accettare la seconda fase dell’accordo e riportare tutti a casa: «Se hai un cuore, una coscienza anche piccola, firma, firma oggi».

L’UFFICIO del primo ministro ha accusato il gruppo islamico di «brutale propaganda». Manifestazioni si sono tenute ieri in tutto il Paese per chiedere di completare l’accordo. Hamas ha anche pubblicato un appello alla Lega araba, che si riunirà al Cairo il prossimo martedì, ribadendo il rifiuto di qualsiasi amministrazione non palestinese per la Striscia e della presenza straniera nell’enclave. Durante il vertice sarà presentato ufficialmente il piano arabo per la Gaza del dopoguerra, un’alternativa alla pulizia etnica proposta dal presidente Usa, Donald Trump.

Netanyahu, che già venerdì sera ha tenuto una serie di colloqui con ministri e membri dell’intelligence, ha iniziato un nuovo ciclo di consultazioni ieri sera, per discutere del futuro dei negoziati e di un’eventuale ripresa degli attacchi. A Gaza il Ramadan, il cui inizio è coinciso con la fine della tregua, è cominciato tra l’incertezza e i timori per ciò che potrà accadere. Centinaia di palestinesi hanno tenuto insieme il primo Iftar, il pasto serale che rompe il digiuno, con una lunghissima tavolata tra le macerie di Rafah.

Il ministero della salute palestinese ha fatto sapere che negli ultimi due giorni sono stati registrati ventitré decessi, di cui due persone uccise e ventuno corpi recuperati, aggiornando così il numero dei morti a 48.388. Saleem Oweis, portavoce di Unicef a Gaza, ha dichiarato che sei settimane dopo l’inizio del cessate il fuoco le necessità della popolazione restano enormi: «Riparo, cibo, acqua pulita, che non è ancora disponibile per molti».

Anche se la tregua ha permesso l’ingresso di beni sul mercato, ha aggiunto Oweis, «è tutto troppo costoso per la maggior parte di coloro che sono stati tagliati fuori da qualsiasi reddito negli ultimi 16 mesi. Tutto quello che dobbiamo fare è aprire le porte e far entrare tutto l’aiuto necessario, senza alcuna restrizione».

IN CISGIORDANIA, durante le ormai abituali violenze dei coloni per la festività religiosa dello Shabbat, un veicolo palestinese è stato incendiato a Silwad, nei pressi di Ramallah. Il sabato ebraico, momento rituale di riposo in cui dedicarsi alla famiglia e alla preghiera, è divenuto un appuntamento costante per i coloni, soprattutto per gli ultranazionalisti religiosi, che effettuano raid nei villaggi palestinesi, occupano terre, attaccano la popolazione residente e le proprietà.

Anche l’esercito non interrompe la sua operazione nella Cisgiordania occupata. Secondo diversi analisti l’attacco sta causando il più grande sfollamento di palestinesi dal 1967. L’agenzia di stampa Wafa fa sapere che tre bambini sono stati feriti a Beit Furik, a est di Nablus, dove l’esercito israeliano ha portato avanti, ieri, un violento raid. Anche Fawwar è stata presa d’assalto e diversi palestinesi sono stati arrestati e percossi.

I militari hanno ordinato invece alle persone rimaste nel campo profughi di Nur Shams di lasciare tutto e andare via, minacciando detonazioni su larga scala. Le ruspe hanno abbattuto varie case, costringendo gli abitanti a sfollare.

L’attacco israeliano in Cisgiordania, cominciato il 21 gennaio, ha causato almeno 55 morti e 40mila profughi. Mentre si moltiplicano gli appelli internazionali per proseguire il cessate il fuoco, il segretario di stato Usa Marco Rubio ha richiesto l’invio di altri 2,04 miliardi di dollari in munizioni e attrezzatura militare per Israele. Motivato da «ragioni di emergenza» e negli «interessi di sicurezza nazionale degli Stati uniti», il nuovo lotto verrà consegnato nel 2026 e comprende 35.529 bombe, 4.000 testate a penetrazione, materiale per i ricambi, supporto per il trasporto e altro ancora.

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Il giorno dopo l’aggressione subita da Trump nello studio ovale, Zelensky vola tra le braccia amiche del premier britannico Starmer. E oggi riceve l’abbraccio degli alleati che gli sono rimasti, dopo il voltafaccia Usa, nel summit in programma a Londra sulle sorti dell’Ucraina

Welcome refugee

Vertice di emergenza a Londra Zelensky ricevuto a Downing sreet. Oggi sarà alla riunione, anche Rutte e Trudeau

olodymyr Zelensky e Keir Starmer a Downing Street - Ap Volodymyr Zelensky e Keir Starmer a Downing Street – Ap

Dopo l’accelerazione della storia avvenuta nello studio ovale venerdì, la riunione allargata di crisi che era già prevista per oggi a Londra si è trasformata in un appuntamento di svolta per il sostegno all’Ucraina, in seguito all’annunciato disimpegno Usa. Zelensky è stato ricevuto ieri da Keir Starmer e accolto a Downing street da una folla di persone: «Saremo al vostro fianco per tutto il tempo necessario», gli ha assicurato il primo ministro britannico parlando di «assoluta determinazione» nel sostenere l’Ucraina con l’obiettivo di «una pace duratura basata sulla sovranità territoriale e sulla sicurezza» dello Stato. «Siamo felici di avere questi partner e amici», gli ha risposto il presidente ucraino.

Oggi a Londra Zelensky partecipa al vertice assieme a una decina di paesi Ue (Francia, Germania, Italia, Danimarca, Olanda, Polonia, Spagna, Svezia, Repubblica ceca, Romania). Presenti anche Norvegia, Turchia, il premier canadese Trudeau che si è aggiunto dopo l’attacco di venerdì alla Casa Bianca, i presidenti di Commissione e Consiglio Ue e il segretario Nato, Rutte. Prima del vertice, Starmer sentirà i paesi baltici, esposti al rischio di una nuova aggressione russa e ci sarà un bilaterale Starmer-Meloni. L’ungherese Orbán, assente, esalta Trump e minaccia di bloccare il Consiglio europeo del 6 marzo se la Ue non avvia negoziati con la Russia.

Starmer aveva pensato di poter fare da “ponte” tra le due sponde dell’Atlantico. Ma da venerdì questa posizione è difficile, così come il tentativo di Macron di attenuare l’abbandono Usa. Il rovesciamento delle alleanze di Washington si è realizzato in tre mosse: prima l’attacco contro gli europei del vice-presidente J.D.Vance alla Conferenza di Monaco, poi il voto all’Onu, con gli Usa allineati a Russia, Cina e Corea del Nord. L’ultimo atto si è svolto nello studio ovale, con l’umiliazione di Zelensky.

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Il presidente ucraino ha ricevuto solidarietà dalle istituzioni Ue e Macron ha risposto a Trump che «se qualcuno gioca con la terza guerra mondiale, questo è Putin». Per la ministra degli Esteri tedesca, Annalena Baerbock, «una nuova era d’infamia è iniziata». Ma come aiutare l’Ucraina, con la Russia che conferma i suoi obiettivi di guerra: demilitarizzazione e “denazificazione” dell’Ucraina oltre al riconoscimento delle conquiste di territori? Come arrivare a una pace «giusta e durevole», mentre Usa e Russia continuano a parlare di cessate-il-fuoco, un termine che si riferisce a uno stato di guerra, non a un trattato di pace? Starmer confermerà la sua proposta di

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Ambiente La fissione costa più del triplo rispetto a solare ed eolico

Il ministro Gilberto Pichetto Fratin Il ministro Gilberto Pichetto Fratin – LaPresse

La risposta fossile alla crisi energetica, quella basata su petrolio e metano, è lenta e incapace di affrontare in modo strutturale i problemi: non è un caso, forse, se ieri il governo si è trovato a discutere di un bonus per ridurre le bollette energetiche delle famiglie, nello stesso giorno in cui è arrivata al largo del porto di Ravenna la nave rigassificatrice Bw Singapore: è una delle infrastruttura che era stata acquistata nel 2022, a seguito dello scoppio del conflitto in Ucraina, per affrontare l’emergenza gas, in grado di stoccare 170mila metri cubi di gas liquefatto e rigassificarlo per una capacità complessiva di 5 miliardi di metri cubi l’anno.

Quando il progetto di Snam diventerà operativo saranno passati oltre tre anni dall’avvio del conflitto, anni persi rinunciando ad affrontare la questione della dipendenza dell’Italia da Paesi terzi: al posto della Russia, i nuovi «padroni del gas» sono gli Usa, grazie allo sfruttamento dei giacimenti di gas di scisto attraverso il fracking, la fratturazione idraulica che comporta (ovviamente) l’emissione in atmosfera di gas climalteranti. Il contributo di 200 euro a famiglia, quindi, rappresenta il tentativo di nascondere l’incapacità di «affrontare un problema sistemico», come evidenzia in una nota il Wwf: «La soluzione bonus una tantum se in minima parte tampona la grave condizione di disagio di moltissime famiglie italiane, di certo non offre soluzioni di medio-lungo periodo. Il tema della povertà energetica e del caro bollette necessita di politiche pubbliche di sistema, che puntino ad affrontare i veri problemi del costo dell’energia elettrica».

Ieri in consiglio dei ministri è stata avanzata una risposta a questa obiezione che però è sempre la stessa e si ripete dagli anni Ottanta, bocciata da due referendum e oggi ammantata da un’aurea di novità: il nucleare. Che sarebbe, però, una nuova «energia nucleare sostenibile» o anche il «nucleare di nuova generazione», secondo il ministro dell’Ambiente Pichetto Fratin, anche grazie alla «creazione della newco tra Ansaldo Nucleare, Enel e Leonardo» che avrà come obiettivo «ricerca e sperimentazione nell’ottica di una produzione». Le nuove centrali, secondo alcune stime diffuse ieri, potrebbero essere disponibili a partire dal 2030. La delega approvata in consiglio dei ministri prevede intanto che il governo adotti una serie di decreti legislativi, entro 12 mesi dall’entrata in vigore della legge approvata ieri, per disciplinare in maniera organica l’intero ciclo di vita del nucleare, con un Programma nazionale che affronti i temi della sperimentazione, della localizzazione, della costruzione e dell’esercizio dei nuovi «moduli», che non si chiamano più reattori per non ricordare gravi episodi del passato.

Poco importa ai pasdaran del nucleare che secondo l’Agenzia internazionale per l’energia (non estremisti ambientalisti, basti pensare che il direttore viene da un passato all’Opec, l’organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio), l’energia elettrica prodotta attraverso la tecnologia della fissione nucleare costa più del triplo di quella prodotta con il solare e l’eolico, anche gli impianti di terza o quarta generazione (di cui si riempiono la bocca i membri dell’esecutivo) producono rilevanti quantità di rifiuti altamente radioattivi e pericolosi come il plutonio, la cui radioattività si dimezza dopo 24 mila anni e hanno causato incidenti devastanti a Chernobyl e a Fukushima. Non è un caso, forse, se nel decreto delega si parla esplicitamente del fatto che i promotori dei progetti nucleari devono fornire adeguate garanzie finanziarie e giuridiche per coprire i costi di costruzione, gestione e smantellamento degli impianti e per i rischi, anche a loro non direttamente imputabili, derivanti dall’attività nucleare. Il dibattito su dove trasferire le scorie degli impianti chiusi dopo il referendum del 1987 è ancora aperto.

«È possibile, più ecologico ed economicamente conveniente decarbonizzare l’elettricità puntando solo sulle rinnovabili, come sta facendo la maggioranza dei Paesi europei» sottolinea in una nota la coalizione 100% Rinnovabili Network, formata da Università e centri di ricerca, imprese, sindacati, terzo settore, Fondazione per lo sviluppo sostenibile, Greenpeace Italia, Kyoto Club, Legambiente e Wwf. Anche perché sole, vento e acqua sono risorse nazionali, mentre l’uranio no e al pari dei combustibili fossili metterebbe l’Italia in condizione di dipendenza da Paesi terzi, come l’Australia, il Kazakistan e il Canada, che ne detengono le maggiori riserve. Eppure, per l’esecutivo il nucleare sostenibile servirebbe a «favorire il raggiungimento dell’indipendenza energetica».

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Melina Galleggiare in attesa del bel tempo. Il governo Meloni aspetta che il gas scenda dopo la spartizione Usa-Russia dell’Ucraina, nel frattempo non risolve nessun problema strutturale. Il WWF: «L'esecutivo usa in maniera illegittima il fondo sociale per il clima»

Il Ministro dell'economia Giancarlo Giorgetti durante la conferenza stampa dopo il Consiglio dei Ministri tenutosi a Palazzo Chigi a Roma, Venerdì 28 Febbraio 2025 (foto Mauro Scrobogna / LaPresse)

I tre miliardi di euro scarsi stanziati ieri dal governo nel «decreto bollette» saranno mangiati dall’inflazione che ieri è cresciuta all’1,7% a causa del caro-energia. L’andamento al rialzo dei prezzi potrebbe continuare nei prossimi tre mesi, tanto durerà il provvedimento-spot varato dal Consiglio dei ministri, se il prossimo 2 aprile applicherà i dazi al 25% all’Unione Europea. Il nuovo sussidio di ultima istanza, stavolta contro la povertà energetica, destinerà fino a «500 euro» per chi ha un reddito Isee entro i 9350 euro e, a scendere, fino a «200 euro» per chi ha un reddito Isee fino a 25 mila euro.

SONO CIFRE che, se richieste (e non è detto), da una platea teorica fino a 8 milioni di «famiglie», potranno alleviare il peso di un paio di bollette. Ma non rimedieranno all’aumento stimato del caro-vita per il 2025. È stato calcolato un costo aggiuntivo di 589 euro per una coppia con due figli. In questa cifra sono contemplati anche l’aumento del «carrello della spesa» con i prodotti alimentari e le bevande analcoliche. «Un pannicello caldo», ha commentato Massimiliano Dona dell’Unione nazionale dei Consumatori. «Tradotti i numeri in vita reale questo significa che le tante famiglie che vivono già in condizioni di povertà non potranno assicurarsi una vita dignitosa» ha osservato Antonio Russo, portavoce di Alleanza contro la povertà in Italia.

L’ISTAT HA CERTIFICATO che il mercato tutelato è rincarato molto di più di quello libero. Un paradosso, apparentemente. Il mercato «tutelato» dovrebbe essere meno soggetto ai tormenti di quello «libero» attraversato di più alle variazioni dei prezzi. E invece non funziona così, perlomeno nel periodo analizzato dall’Istat. Se continua così sarebbe vanificata un’altra delle decisioni prese ieri dal governo; la proroga di due anni al mercato tutelato per i clienti «vulnerabili».

LA COINCIDENZA tra la tardiva decisione presa ieri dall’esecutivo con i dati sull’inflazione pubblicati dall’Istat ha reso in fondo superflua la conferenza stampa organizzata dopo il Consiglio dei ministri e boicottata dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Quest’ultima ha preferito inviare un video in cui ha parlato del provvedimento e ha bruciato i malcapitati ministri dell’Economia Giorgetti e dell’Ambiente Pichetto Fratin incaricati di intrattenere i giornalisti in una recita durante la quale ci sono state molte domande e poche risposte. Ne è venuta fuori una delle migliori metafore del governo Meloni: si varano decreti più o meno dispendiosi, si inviano gli effetti-placebo della propaganda «alla Nazione», non si risolvono i problemi strutturali del caro-bollette. Sono sia nazionali, che sovranazionali, a cominciare dal disaccoppiamento del prezzo del gas da quello dell’energia o dal tetto al «libero mercato» dei prezzi.

LO SCOPO DEL DECRETO è arrivare alla stagione calda quando, si presume, si spegneranno i riscaldamenti ma non i condizionatori, calerà il prezzo dell’energia e ci si aspetta la spartizione dell’Ucraina tra Usa e Russia. Magari questo riporterà in Europa il gas russo, ha ipotizzato in settimana il solitamente loquace ministro Pichetto Fratin. Più che sulla strategia, bella pretesa, il governo punta sul galleggiamento. Per risolvere un problema strutturale si affida, da un lato, ai meteorologi e dall’altro lato, a Putin e a Trump, lo stesso che metterà i dazi. In sostanza è quello che ha detto ieri l’evasivo Giorgetti che ha confermato la linea-Salvini e non ha escluso accordi bilaterali sui dazi. Non è dato sapere cosa pensi a tale proposito Meloni. Per ora. «L’auspicio di una pace giusta e duratura in Ucraina mi rende fiducioso perché a nessuno sfugge che l’inflazione è dipesa dalla fiammata dei prezzi energetici e dalla guerra» ha detto Giorgetti. In realtà il dibattito sull’inflazione degli ultimi 3 anni è ben più ampio e su di essa hanno pesato anche i mega-profitti garantiti dagli alti tassi di interesse (che Giorgetti chiede alla Bce di tagliare) e dalla non volontà di tutti i governi di intervenire veramente su banche, farmaceutica, armi, energia: i vincitori delle ultime crisi.

UN MILIARDO e 400 milioni sui quasi 3 del decreto andranno alle imprese 600 milioni sono destinati alle agevolazioni per la fornitura di luce e gas alle piccole e medie imprese; a quelle «energivore» sono anticipati i 600 milioni derivanti dalle aste Ets. Questi soldi «vengono dalla Cassa servizi energetici e ambientali, il che evita di ricorrere a maggiore indebitamento e deficit» ha aggiunto Giorgetti. «Questi soldi sono stati presi dal Fondo sociale per il clima e saranno usati per ammortizzare il caro energia – ha sostenuto il WWF – Si usano i soldi della transizione per incentivare il combustibile fossile. Il provvedimento attinge ai fondi derivanti dalle aste delle quote ETS per darli alle imprese, nonché al maggior gettito Iva derivante dall’aumento dei prezzi del gas. I cittadini, tramite lo Stato, rinunciano agli extra profitti, le aziende energetiche no. Questa non è una transizione e non è affatto giusta».

 

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«Stai giocando con la terza guerra mondiale», «firma o siamo fuori». Alla Casa bianca, Trump bullizza Zelensky in diretta. Che reagisce: «Putin è un killer». Ma il presidente Usa lo insulta, chiude lo show e lo mette alla porta. L’accordo con la Russia vuole farlo senza di lui

Crisi Ucraina Imboscata nello Studio ovale: «Putin vuole l’accordo, il problema sei tu. Non hai le carte». L’ospite risponde a tono e viene cacciato. Niente firma sulle Terre rare. Choc e orgoglio in Ucraina

Zelensky, Trump e Vance nello Studio ovale Epa/Jim Lo ScalzoZelensky, Trump e Vance nello Studio ovale – Epa/Jim Lo Scalzo

Se ieri abbiamo assistito alla fine dei rapporti privilegiati tra Ucraina e Stati Uniti è stato un finale col botto. «Ma lo stai vedendo?» decine di messaggi in pochi minuti dai conoscenti ucraini, tutte le tv sintonizzate nei ristoranti e nei bar. Le persone in strada che camminavano come inebetiti fissando lo schermo dello smartphone.

Zelensky ha dato all’Ucraina venti minuti di orgoglio nazionale da manuale. Le conseguenze della mancata sottomissione ai bulli della Casa bianca saranno gravi, glielo ricorda Trump prima di congedare i giornalisti: «Putin vuole fare un accordo, non so se riusciremo a concluderlo, il problema è… – allarga un braccio verso lo sconsolato interlocutore, teso come una corda di violino -. Ti ho rafforzato per diventare un duro, ma non credo che sarai un duro senza gli Usa. Il tuo popolo è molto coraggioso – grazie, lo interrompe Zelensky ironico – ma o accettate un accordo o noi ce ne tiriamo fuori. E se noi ce ne tiriamo fuori, be’ te ne accorgerai da solo… non sarà bello, vedrai. Stai giocando con la Terza guerra mondiale, Ma non hai le carte. Non ti stai comportando come una persona grata, e questo non va bene, sarò onesto, non va affatto bene».

ANCORA UNA VOLTA Don Vito Corleone incontra Jordan Belfort (The Wolf of Wall Street, ndr) per convincere l’ex alleato che non solo gli conviene cedere alle richieste senza troppe storie, ma che se non lo fa saranno guai seri. «Sei venuto qui a mancare di rispetto al popolo americano e al suo presidente davanti ai giornali» ha accusato Vance, la prima di tante accuse che sono sfociate quasi subito nell’insulto. «Non ti sei mai mostrato grato!».

Trump coglie l’imbeccata: «Io ti ho dato i Javelin, io ti ho permesso…» e inizia la gogna. Tuttavia, nonostante l’atteggiamento da bullo di quartiere, gli sfottò con le vocine e le smorfie, Trump ieri ha tradito la stanchezza dei suoi 78 anni: è un uomo che non sopporta di essere contraddetto perché dopo poco non regge più lo scontro, per questo Vance gli è ormai fondamentale. Senza il suo vice come spalla, l’incontro televisivo dell’anno si sarebbe chiuso molto prima.

«ERA TUTTO PREPARATO, gli hanno teso una trappola!» commenta qualcuno tra gli ucraini. Difficile saperlo, ma osservando il tenore delle risposte di Trump e, soprattutto, di Vance è plausibile pensare che i due avessero perlomeno in mente un copione.

«Non ci hai mai ringraziato, anzi sei andato in Pennsylvania a fare campagna per i democratici…» il vice-presidente richiama la visita di Zelensky a fabbrica di armi con una delegazione democratica poco prima delle elezioni Usa. Ma cosa c’entra? Dice con tutta la sua mimica corporale Zelensky ed è l’espressione che a ogni nuova accusa il presidente messo all’angolo oppone alla totale assenza di logica dei suoi due aguzzini. È una rissa, non una conferenza stampa per annunciare la firma di un accordo che vale centinaia di miliardi di dollari. E i due aggressori, nonostante fossero di più, più forti e giocassero in casa, non hanno vinto.

Zelesky non ha mai perso le staffe, mantenendo sempre un atteggiamento dignitoso ma fermo. L’unica smorfia che gli scappa, irrefrenabile per l’ex-showman, la vediamo quando Trump dice che «Putin ha rotto gli accordi con Obama e con Biden, ma non li romperà con me perché mi rispetta». Il presidente ucraino alza le sopracciglia e abbozza un sorriso, come a dire «se lo dici tu». Fuori da questo scontro deprimente per l’Occidente dove si situa il piano per il cessate il fuoco? A questo punto tra la lesa vanità e la voglia di vendetta di Trump.

ZELENSKY, secondo la parte che gli era stata assegnata, doveva starsene docile davanti alle telecamere a farsi schernire, ad ammettere che il messia Trump era l’unico in grado di salvare il suo Paese e ringraziare anche quando veniva insultato. L’Accordo-quadro per le terre rare sarebbe stato firmato, le aziende amiche dei repubblicani avrebbero stappato diverse bottiglie a cena e il presidente ucraino sarebbe tornato a casa con un po’ di mascoline pacche sulle spalle e qualche pernacchia per suscitare l’ironia dei presenti al momento dei saluti. Nulla di tutto ciò. Zelensky è stato addirittura cacciato dallo Studio ovale: niente accordo sulle terre rare, niente garanzie di sicurezza, niente primo passo per

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ADDIO ALLE ARMI A dieci anni dall’ultima lettera, il fondatore del partito curdo manda un messaggio al suo popolo e alla Turchia: è tempo di pace

L’annuncio di Ocalan: «Abbassiamo le armi e sciogliamo il Pkk»

 

«Convocate il vostro congresso e prendete una decisione; tutti i gruppi devono deporre le armi e il Pkk deve sciogliersi». È la voce di Ahmet Türk a leggere, in curdo, la lettera di tre pagine che Abdullah Ocalan, storico fondatore del Partito dei Lavoratori del Kurdistan, ha consegnato nelle mani della delegazione del partito Dem nell’isola-carcere di Imrali. Quando Türk termina, passa il microfono alla co-presidente del Dem, Pervin Buldan. Sarà lei a leggere le stesse pagine, in turco: il messaggio è chiaramente diretto ai due protagonisti di quasi cinque decenni di scontro, repressione coloniale e lotta armata, il Pkk e la Turchia.

L’appello lanciato da Devlet Bahceli ha creato le condizioni: chiedo di deporre le armi e me ne assumo la responsabilità storicaAbdullah Ocalan


LE PAROLE, attese da dieci anni, dall’ultimo messaggio del leader curdo, risuonano nella sala dell’Elit World Hotel di Istanbul. Di fronte alla delegazione dei sette membri del Dem appena rientrati da Imrali, non c’è una sedia vuota. Attendono tutti, in silenzio.

Poi, sullo schermo, appare la foto di Apo: è seduto circondato dalla delegazione, indossa una giacca blu e un golf rosso scuro. In mano tiene dei fogli, lo sguardo è dritto in camera. Una foto storica, il volto del leader più amato si infila nelle menti di chi negli ultimi dieci anni poteva solo immaginarselo e ora lo guarda dai maxi schermi nelle piazze puntinate di bandiere gialle a Diyarbakir e Van, nelle assemblee popolari dell’ezida Shengal, nello stadio 12 Marzo di Qamishlo in Siria, nel campo profughi di Makhmour in Iraq, l’embrione da cui tutto è risorto, trent’anni fa. Un maxi-schermo è comparso anche a Berlino, a Pariser Square.

Il suo messaggio è altrettanto storico: Ocalan invita il suo movimento ad avviare una discussione interna che conduca ad abbandonare le armi e a dissolversi. Il leader alla soglia dei 76 anni, prigioniero politico da 26, prosegue così in un percorso politico rivoluzionario, che ha portato il Pkk a trasformarsi, a partire dalla fine degli anni Novanta, da movimento nazionalista e socialista che sognava uno stato al fautore di un nuovo modello, quel confederalismo democratico che ha rinunciato all’idea fallace dello stato-nazione come strumento di autodeterminazione. Ha dato a milioni di persone mezzi di partecipazione diretta alla cosa comune e una prospettiva di convivenza come alternativa strutturale alle divisioni settarie imposte dai regimi mediorientali e dagli alleati occidentali.

IN QUELLE tre pagine Ocalan ricostruisce passo per passo l’evoluzione del movimento che creò alla fine degli anni Settanta e che imbracciò le armi nel 1984: «Il Pkk è nato nel XX secolo, nell’epoca più violenta della storia dell’umanità, tra le due guerre mondiali, all’ombra dell’esperienza del socialismo reale e della guerra fredda nel mondo. La negazione della realtà curda, le restrizioni ai diritti e alle libertà fondamentali hanno giocato un ruolo significativo nella sua nascita e nel suo sviluppo», scrive.

«Il Pkk, l’insurrezione e il movimento armato più lungo ed esteso nella storia della Repubblica (turca), ha trovato base sociale e sostegno ed è stato ispirato principalmente dal fatto che i canali della politica democratica erano chiusi», prosegue. Fino ad arrivare alla realtà di oggi, figlia delle pratiche confederali che hanno avuto la loro culla nel campo profughi di Mahkmour, in Iraq, e sono poi maturate nell’esperienza del Rojava, in Siria.

«IL LINGUAGGIO dell’epoca della pace e della società democratica deve essere sviluppato in base a questa realtà – conclude Ocalan – L’appello lanciato da Devlet Bahceli, insieme alla volontà espressa dal presidente, ha creato le condizioni per cui lancio una richiesta a deporre le armi e me ne assumo la responsabilità storica». Fa un riferimento diretto all’uomo politico che in pochi si sarebbero aspettati potesse vestire i panni del negoziatore: Bahceli, il leader dell’Mhp, il partito ultranazionalista che siede al governo e che ha fatto della lotta all’autodeterminazione curda una delle chiavi del proprio discorso politico.

È al governo turco, a Bahceli come al presidente Erdogan, che Ocalan ieri ha passato la palla: tocca a loro dimostrare che si è estinto davvero quel «ruolo storico» del Pkk che il suo fondatore ritiene terminato. Dimostrare che l’abbandono delle armi e il dissolvimento del partito possano sfociare in una pace democratica e giusta. Gli eventi delle ultime settimane non fanno ben sperare: mentre al Dem veniva permesso di proseguire nel lavoro di tessitura e di dialogo con il Pkk a Imrali, Ankara continuava a commissariare i comuni curdi e trascinare in carcere centinaia di attivisti, politici, giornalisti, intellettuali.

E poi c’è il Pkk e il congresso che verrà. Il partito ha fatto della lotta armata uno degli strumenti pratici di avanzamento della teorizzazione politica, con la lotta all’Isis in Rojava e a Shengal e la liberazione dall’occupazione islamista.

LE DOMANDE sono molte: quale sarà il risultato della discussione interna al Pkk, quanto sarà pesante – o fragile – il consenso intorno alla nuova trasformazione che il fondatore gli chiede, quale sarà il futuro di una forza che ha segnato il destino di milioni di persone, curdi, arabi, ezidi, turkmeni, assiri, siriaci, e ha mostrato che un’alternativa ai regimi nazionalisti è possibile.

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