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da huffingtonpost.it

Solo in Italia può accadere che un'eccellenza industriale e una donna di valore finiscano nell'occhio del ciclone per una legge scritta male. Novamont e la sua Ad Catia Bastioli raccontano il volto migliore del paese fatto d'innovazione industriale e di persone che sanno unire le competenze tecnico scientifiche a capacità manageriali. Altrove diventerebbero un esempio, in Italia vengono trascinati nel fango. Cosa è successo? Con il nuovo anno è scattata la messa al bando dei sacchetti ultraleggeri gratuiti destinati agli alimenti e la loro sostituzione con buste a pagamento biodegradabili.

 La direttiva europea che la legge recepisce è del 2015 e punta alla consapevolezza dei consumatori sul fronte della riduzione dei rifiuti. La direttiva non dice che bisogna pagare i sacchetti in bioplastica con cui sono stati sostituiti quelli in plastica tradizionale, ma che il costo dei sacchetti va reso trasparente nello scontrino, cosicché i consumatori sappiano che quello che consumiamo "usa e getta" e senza preoccuparci di dove finisce ha un costo e che quindi bisogna dargli valore. Ecco, quello che questo Governo avrebbe dovuto fare insieme al recepimento della direttiva sarebbe stato preparare i cittadini a questo ennesimo passaggio giusto e necessario verso una trasformazione in senso ecologico di consumi e comportamenti.
 
Si potevano magari fare campagne di comunicazione in cui si spiegava il perché e il come ci sarebbe stata questa novità; si poteva chiedere al Ministero della Salute di modificare le norme sanitarie che impediscono l'uso di sacchetti in tela o comunque personali e riutilizzabili per pesare ed etichettare i prodotti sfusi in un supermercato; si poteva lavorare sulla diffusione di sacchetti in carta come nei mercati oppure spingere le catene della grande distribuzione a fornire ai propri clienti alternative riutilizzabili come accade nella coop in Svizzera.
 Si poteva... certo... si poteva avendo a disposizione un Ministero dell'Ambiente consapevole e responsabile del proprio ruolo verso i cittadini consumatori. Tutto invece è stato fatto in maniera tecnicista e burocratica e magari con la malizia di rendere invisa ai cittadini una delle scoperte e innovazioni ambientali più straordinarie degli ultimi anni: il biopolimero vegetale, che ha sostituito la plastica e che ci aiuterà a ripulire le nostre città e i nostri mari dalla plastica oltreché a riutilizzare gli scarti vegetali e a creare nuovi posti di lavoro specializzati qualificati e competitivi a livello internazionale.
 I produttori di plastica e gli estrattori di petrolio ringraziano per questa ennesima cialtroneria di Stato che fa passare l'innovazione ambientale al reparto "costi e tasse per i cittadini". La nuova norma ha lo scopo di ridurre la dispersione della plastica nell'ambiente, quindi di tutelare la biodiversità e la nostra salute. Se il prezzo sarà giusto (il costo del sacchetto non supera i 2 centesimi, per una spesa annua per famiglia minore di un pacchetto di sigarette se la grande distribuzione organizzata non ci specula sopra) sono convinta che gli italiani capiranno in fretta il valore di questo piccolo grande cambiamento. Come hanno dimostrato di apprezzare gli effetti della legge contro le buste della spesa non compostabili entrata in vigore nel 2011 e che ha portato a una riduzione del 55% dell'uso dei sacchetti di plastica nonostante non sia ancora pienamente rispettata.

In Europa, secondo le stime dell'Epa, si consumano circa 100 miliardi di sacchetti all'anno: un'enormità, di cui buona parte finisce dispersa in particolare in mare. Un biopolimero come il Mater-bi di cui sono composti i nuovi shopper si degrada negli impianti di compostaggio completamente. Puntare, dunque, sulla sostituzione delle buste di plastica tradizionali con prodotti compostabili è una partita che vale la pena giocare con un po' di lungimiranza.

Anche perché la chimica verde - che utilizza materie prime rinnovabili di origine agricola per realizzare una nuova generazione di prodotti e composti chimici a basso impatto per l'ambiente e per la salute - è uno dei fiori all'occhiello del nostro paese e, se sapremo giocare bene la partita, uno dei tasselli fondamentali del nuovo sviluppo italiano. Le bioplastiche non sono solo un'opportunità per minimizzare i rifiuti in plastica, ma una chiave per risolvere problemi ambientali, riducendo l'uso di materie prime fossili, le emissioni di anidride carbonica e i rischi legati alla dispersione di prodotti inquinanti nell'ambiente.

Sarà una coincidenza (non ci credo) ma aumentano gas e luce e la responsabilità secondo alcuni è delle rinnovabili; passa la norma sui sacchetti biodegradabili e la colpa è "dell'amica di Renzi" e dell'innovazione ambientale (Bastioli è amica dell'ambiente e le attività industriali sviluppatesi grazie alle sue invenzioni sono amiche del paese). A me tutto questo puzza di Medioevo: vogliono tenerci nell'era dei fossili e di come i cittadini possano vivere meglio non importa a nessuno! Possiamo, per esempio, legare la diffusione delle buste a una riduzione dei costi della tassa sui rifiuti fatta ai commercianti? Possiamo passare dalla tassa alla tariffa per premiare chi produce meno rifiuti dentro casa o nella propria attività commerciale? Possiamo essere un paese moderno e civile? Io ci credo. Venerdì 5 gennaio io e Pietro Grasso saremo in un impianto Novamont per parlare di lavoro pulito, di innovazione e di ricerca ovvero di quello che serve all'Italia... oltre a un Ministero dell'Ambiente che sappia fare il suo lavoro.

 Rossella Muroni

* Coordinatrice della campagna elettorale di Liberi e Uguali. Già presidente Nazionale di Legambiente

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Riportiamo dal Corriere di Romagna, edizione Forlì-Cesena del 29/12, l'articolo sulla nascita di ALEA, società pubblica che subentra ad Hera nella raccolta dei rifiuti dei comuni del forlivese; oltre che l'intervista ad Alberto Bellini, ex assessore all'Ambiente, tra gli ideatori del progetto. Come si è sostenuto in diverse occasioni, anche su questo sito, si può fare. Quando c'è la volontà politica.

 

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Il caso. A Berlusconi e Di Maio replica Renzi. E anche a Liberi e Uguali serve un ripasso del termine. Ciascuno ha il suo "reddito", e tutti parlano d'altro, in una continua strumentalizzazione. Su tutto divisa, la “sinistra” trova la sua ultima unità contro il reddito. Una mappa per capire di cosa si parla quando davvero si parla di reddito di base

 

 

Dopo Natale il “reddito di dignità” è diventato il primo argomento di campagna elettorale. Il gigantesco teatro degli equivoci è iniziato quando Silvio Berlusconi ha rilanciato l’idea. Luigi Di Maio (Movimento Cinque Stelle) ha risposto che Forza Italia ha fotocopiato il suo “reddito di cittadinanza”. Renzi è intervenuto con la consueta sagacia, sparando cifre immaginarie: “Costo totale: 84 miliardi di euro. Come li coprono? Coi soldi del Monopoli?” ha twittato. Il Vicesegretario Pd Maurizio Martina ha sventolato il vessillo sbiadito del reddito di inclusione” approvato dal governo Gentiloni: un sussidio di ultima istanza per i poverissimi; sotto-finanziato (un paio di miliardi contro i sette necessari all’anno); condizionato all’accettazione di un lavoro coatto (workfare) che imprigionerà 500 mila persone nella trappola della povertà.

Liberi e Uguali ha fatto sentire la classica posizione della sinistra “lavorista” con il presidente della Toscana Enrico Rossi. In nome di un’interpretazione della Costituzione, niente reddito ma lavoro. Per Rossi con il reddito si finisce per “starsene a casa senza fare nulla. Distrugge la dignità delle persone”. Variante apocalittica del classico: “Passano le giornate a mangiare pastasciutta al sole”. Posizioni simili le ha Renzi, secondo il quale il reddito di cittadinanza è incostituzionale”. Su tutto divisa, la “sinistra” trova unità contro il reddito, un’istanza di giustizia sociale travisata – per gravi equivoci ideologici – per una misura a favore del lazzaronismo oppure per agente infiltrato del capitalismo. Questo è lo spaccato a tre mesi dalle elezioni. E non potrà che peggiorare.

Per mettere ordine in questo caos propagandistico di definizioni, ai danni dei poveri e dei precari, bisogna rifare la storia delle parole e del loro uso strategicamente errato. La definizione di “reddito di dignità” è stata lanciata due anni fa da una campagna di Libera, Basic Income Network-Italia, il Cilap e altre associazioni è già strumentalizzata dal governatore pugliese Michele Emiliano (Pd) che ha varato un sussidio di tutt’altra natura nella sua regione.

Con questa misura di reddito di dignità si intende un “reddito minimo universale” contro la povertà e il precariato, un intervento immediato di natura sia strutturale che redistributiva. Il senso di questa politica lo comprese già nel 1966 l’economista neo-keynesiano James Tobin, premio Nobel nel 1981 e inventore della tassa sui capitali: il reddito serve a «assicurare ad ogni famiglia un tenore di vita dignitoso a prescindere dalla sua capacità di guadagno» e a “costruire la capacità di ognuno di guadagnare un reddito”. Rifiutando il ricatto del lavoro povero, ad esempio. Dunque il “reddito” non esclude il “lavoro” e il “Welfare”. Implica cioè un’altra idea sia di lavoro che di Welfare, entrambe estranee ai “lavorismi” dominanti a “sinistra”.

Di tutt’altra natura è il “reddito di dignità” di cui parla Berlusconi secondo il quale sarebbe analogo all’imposta negativa sul reddito teorizzata dal fondatore del neoliberismo Milton Friedman, un trasferimento pubblico di contrasto alla povertà destinato a coloro che sono sotto il livello povertà assoluta. Alle accuse di Di Maio di avere “copiato”, Berlusconi ha risposto: “Caso mai ho copiato Milton Friedman, il quale sosteneva che una famiglia che guadagnasse bene dovesse dare un contributo allo Stato mentre dovesse essere lo Stato a sostenere la famiglia in difficoltà”.

In questa formulazione il reddito di dignità sarebbe pari a mille euro – come la proposta sulle “pensioni minime” di Forza Italia – ma non si sa ancora se è una misura incondizionata che non richiede al beneficiario di accettare un lavoro qualsiasi, come invece pensava il liberista Friedman. In ogni caso ha un duplice difetto: il povero è considerato un individuo assoluto, separato dalla società; tale imposta contribuisce allo smantellamento del Welfare, quello accelerato dai governi presieduti dall’ex Cavaliere famoso per il taglio alla spesa sociale, alla scuola e all’università. “Sono le politiche economiche e sociali di Berlusconi, e quelle degli altri governi dopo di lui ad aver fatto triplicare i numeri della povertà sino a 5 milioni ed a 18 milioni quelli a rischio esclusione sociale, mentre i miliardari nel paese sono triplicati arrivando ad essere 342” sostiene Giuseppe De Marzo (Rete dei numeri pari, già sostenitrice del “reddito di dignità” due anni fa).

Resta da capire cosa sia il “reddito di cittadinanza” dei Cinque Stelle che tutti attaccano, senza capirne il senso. Alla base, come scriviamo dall’inizio di questa legislatura, c’è una truffa lessicale che, tra l’altro, si è trasformato in un boomerang per questo movimento. Il reddito di cittadinanza va a tutti i residenti con la cittadinanza a vita. In questa forma è applicato solo in Alaska. Quello M5S è invece un reddito minimo condizionato dallo scambio con un lavoro. È lo stesso meccanismo del “reddito di inclusione” approvato dal Pd, ma ben più generoso e rivolto a una platea molto più ampia: 780 euro a individuo contro i 190-massimo 485 euro a famiglia numerosa. La spesa è 17 miliardi all’anno, non 84. Poi scenderebbero a 14 nel secondo anno di applicazione. E via a scendere, man mano che aumenta l’occupazione. Un impianto in realtà discutibile, e una visione del ciclo economico non proprio realistica. Questa misura costa, a dire dei Cinque Stelle, sette miliardi in più rispetto alla spesa per il bonus degli 80 euro ai lavoratori dipendenti che Renzi considera una conquista di civiltà.

*** Per la comprensione del “reddito di base”, l’intervista a Philippe Van Parjis, principale teorico di questa proposta a livello mondiale >>>> Philippe Van Parjis: Il reddito di base non è utopia.

Oppure questa intervista a Stefano Rodotà: Il reddito di cittadinanza è un diritto universale

 

 

 

 

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1947-2017. La Carta come una bussola nella sfida del voto.

di Anna Falcone

da "Il Manifesto" del 28.12.2017

Sarà la cifra tonda, sarà che questo compleanno della Costituzione arriva dopo la schiacciante vittoria referendaria del 4 dicembre, fatto sta che mai come quest’anno la ricorrenza della firma è stata fortemente sentita dagli italiani, che hanno partecipato in tanti alle iniziative organizzate per l’occasione in tutta Italia. E non solo per rinnovare il ricordo: questa celebrazione e il messaggio che ne scaturisce assumono un valore cruciale per le prossime elezioni politiche.
Lo hanno giustamente sottolineato Felice Besostri ed Enzo Paolini nell’articolo pubblicato ieri sulle pagine di questo giornale. Perché chi ha vinto la battaglia referendaria, e continua a difendere davanti alle Corti le ragioni della legittimità costituzionale delle leggi elettorali, o a sostenere chi lo fa, non potrà sottrarsi, al momento del voto, a un giudizio di coerenza fra schieramenti politici e rispetto del voto referendario.
Il fatto che a 70 anni dalla sua entrata in vigore la Costituzione è e rimane, in gran parte, inattuata rappresenta – per chi voglia raccoglierla seriamente – la sfida politica per eccellenza delle prossime elezioni. Non a caso, molti elettori ed elettrici, che non si rassegnano all’esistente, chiedono agli schieramenti in campo di ripartire proprio dall’attuazione della Costituzione e dalla implementazione dei diritti già riconosciuti dalla Carta quale antidoto

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 Italia in Africa. No allo ius soli, sì a una nuova avventura militare. L'annuncio della nuova missione militare in Niger.

Da una guerra «umanitaria» all’altra. La scia nefasta non si ferma. Nemmeno a Natale, nemmeno per le feste. Così il presidente del Consiglio Gentiloni, ex pacifista – insieme all’altra ex pacifista, la ministra della difesa Pinotti – proprio dal ponte di una nave militare ha annunciato l’ennesimo intervento militare mascherato da soccorso umanitario. Dove? Siccome abbiamo sconfitto il jihadismo dell’Isis a Mosul, sposteremo quelle truppe nell’Africa sub-sahariana, per fermare «i flussi dei migranti e il terrorismo». A Mosul i bersaglieri ufficialmente proteggevano la diga di Mosul e gli investimenti lì dell’impresa italiana del gruppo Trevi (famosa per i rcenti crolli in borsa). A Mosul l’estremismo jihadista, la cui origine deriva dalla distruzione dello Stato iracheno per effetto di tre guerre occidentali – del terrore provocato da queste guerre si preferisce tacere -, lascia sul campo il corpo dilaniato dell’Iraq in un conflitto intestino che ancora brucia.

La frontiera del sud-Sahara è lunga più di 5mila chilometri, più che impossibili da controllare, più che permeabili alle fughe dei disperati dall’Africa in generale e dal Sahel in particolare; da quell’Africa dove divampano 35 guerre e dove il nostro modello di rapina depreda le risorse e per farlo unge le corrotte leadership locali (dalla Nigeria al Niger, dal Mali al Ciad al Burkina Faso, ecc.).

In questa situazione il governo che si avvia a chiudere i battenti, dentro una legislatura finita, annuncia l’invio di centinaia di soldati italiani, facendo perfino trapelare la possibilità – e sarebbe la vergogna delle vergogne – che sulla missione, della quale non sappiamo nemmeno il costo e chi la pagherà, si voti subito. Insomma, no allo ius soli ma sì ad una nuova avventura militare africana.

Come se quella in Libia del 2011 non si fosse dimostrata insieme fallimentare e generatrice del disastro che ne è seguito e del quale vediamo le conseguenze ogni giorno, nelle morti a mare e nelle guerre mediorientali che non finiscono. Dobbiamo però stare tranquilli dicono i generali che già prendono armi e parole: sarà una missione «no combat». Ma che senso hanno regole d’ingaggio affidate alla televisione e che presentano i militari italiani come «addestratori», quando in loco – in Niger – invece già si combatte duramente e da tempo, come dimostra la recente uccisione proprio in Niger – con tanto di polemica tra le famiglie delle vittime e uno sprezzante Donald Trump – di quattro marines delle forze speciali Usa?

Naturalmente «addestrarli» – facendo un favore al neocolonialismo francese di Macron che in Niger è di casa – vuol dire «aiutarli a casa loro», aiutarli a rinfocolare la guerra che alimenta il circolo vizioso delle stragi, delle fughe e dei profughi. Per le quali c’è una svolta: una sorta di Concordato sulle migrazioni.

È stato in questi giorni l’altro campione governativo, il coloniale Minniti che ha ricevuto, insieme al benedicente cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Conferenza episcopale italiana (Cei) l’arrivo di 162 migranti salvati con un corridoio umanitario «legale» dai centri di detenzione in Libia, indicando anche che potrebbero essere 10mila i migranti che potranno arrivare in Europa regolarmente dai campi e dalle carceri libiche, con la garanzia dell’Unhcr, che verificherà in Libia chi ha diritto alla condizione di rifugiato e chi no, e della Conferenza episcopale italiana; e poi, secondo gli obiettivi attribuiti all’Organizzazione mondiale dei migranti (Oim), dovrebbero essere invece 30mila i migranti giudicati senza diritto d’asilo, che dovranno tornare a casa con rimpatri «volontari».

Onestamente, siamo davvero contenti per i primi arrivati, i 162 liberati dalle condizioni di detenzione in Libia, e davvero felici per l’annuncio dei, forse, 10mila nel 2018 – meno invece per i 30mila già previsti come «ricacciati» a casa. Ma perché intanto il governo italiano ha contribuito a chiudere la rotta del Mediterraneo intrappolando in Libia da 700mila a un milione di persone – dalle stime della stessa Onu?

Perché, per un esodo che è epocale, abbiamo criminalizzato le Ong che soccorrono sulle coste libiche i migranti? Perché li abbiamo consegnati al controllo delle cosiddette autorità libiche, le stesse che dovrebbero garantire la svolta natalizia-concordataria di Minniti, e che invece continuano a non controllare alcunché, in un Paese in guerra e in mano a centinaia di milizie che volta a volta si chiamano esercito governativo o guardia costiera, ognuna delle quali gestisce centri di detenzione e di tortura fin qui per conto nostro?

Di quell’Italia ormai capofila, con il Codice Minniti, dell’Unione europea sui migranti, mentre i Paesi europei a ovest si aprono a parole e a Est si chiudono minacciosi e razzisti con i muri, rifiutando perfino la misera ripartizione di un’accoglienza che invece dovrebbe essere epocale. Mentre scriviamo è stato salvato nella notte un barcone con 250 migranti, ma si teme per la sorte di altre due imbarcazioni di fortuna per ora pericolosamente disperse tra Libia e Canale di Sicilia.

Francamente, gli annunci del trio Gentiloni-Minniti-Pinotti risultano angusti e oscuri anche da un punto di vista elettorale. Così accontentiamoci del solo principio che avanza, anche quello fortunato per chi capita. È il principio della lotteria. Come per il migrante numero centomila sbarcato a Lampedusa prima dell’estate: grazie alla nascita miracolosa della piccola Miracle, avrà l’atto di nascita della figlia e quindi forse la possibilità di ottenere il diritto d’asilo.

 

 

 

 

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