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Ne dà notizia oggi 10/2 il Resto del Carlino...

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Dopo l'intervento di Giorgio Gatta,  pubblichiamo anche questo articolo da il manifesto dell'8/2 proprio sulla situazione in città a Macerata.

Lo stop di Minniti non ferma la manifestazione di Macerata - di Mario di Vito

In piazza. La questura, «per ora», non conferma il divieto della prefettura

All’ingresso della città, sul cartello che reca la scritta di «Macerata città della pace» una mano anonima ha aggiunto a bomboletta una parola che dice molto su queste giornate infinite: «Eterna».

Il vertice della tensione è stato toccato ieri sera, all’ora di cena, con la calata di Roberto Fiore e di Forza Nuova, che si sono visti per un comizio elettorale in piazza Oberdan, in una zona defilata del centro di Macerata, malgrado i tentativi di vietare qualsiasi manifestazione lanciati prima dal sindaco Pd Romano Carancini e poi dalla prefettura con il Viminale pronto a dare manforte.

La sortita del movimento di estrema destra è rimasta blindata e non ha fatto registrare una grande partecipazione, in compenso una trentina di persone si è fatta vedere per contestarli al grido di «terroristi» e «assassini». Tra i due blocchi, una corposa cortina di agenti in assetto antisommossa.

L’appello a non manifestare di Carancini, comunque, era già caduto nel vuoto nel pomeriggio di mercoledì, quando nella centralissima piazza della Libertà il capo di Casapound Simone Di Stefano ha inscenato la sua passeggiata elettorale con dieci militanti e venti cronisti al seguito. In tutto questo la città vive da quasi due settimane con il fiato sospeso, nell’incertezza di una situazione pesantissima, tra l’omicidio della giovane Pamela, la sparatoria di Traini e il successivo clima tesissimo.

Nel pomeriggio di ieri il leader della Lega Matteo Salvini è andato prima a Camerino dai terremotati e poi a Civitanova. Sulla costa ha trovato ad accoglierlo degli striscioni con scritto «sciacallo», mentre in montagna una ventina di ragazzi ha deciso di contestarlo al grido di «siamo tutti antirazzisti».
Il giorno dopo la clamorosa spaccatura del fronte antifascista, intanto, fioccano le adesioni per il corteo che partirà domani pomeriggio alle 14 .30, davanti alla stazione.

«Marceremo contro il razzismo, contro il fascismo e per la democrazia», confermano i militanti del centro sociale Sisma, che aggiungono: «I militanti di base delle associazioni che hanno ritirato la loro adesioni verranno di sicuro, indipendentemente da quello che hanno detto i loro vertici».

Ieri in città è arrivato il leader di Liberi e Uguali Pietro Grasso, che, dopo la sua visita ai feriti in ospedale e alla madre di Pamela Mastropietro, ha preso le parti dei manifestanti. «Non si può pensare che le manifestazioni fasciste e quelle antifasciste siano la stessa cosa – ha detto ai cronisti –, capisco le tensioni ma bisogna difendere i valori della nostra democrazia». Il presidente del Senato ha anche parlato di «perplessità per le decisioni delle segreterie nazionali della associazioni di rinunciare alla propria presenza».

C’è confusione sul fronte istituzionale: nella tarda serata di mercoledì la prefettura ha reso pubblica una nota con cui accoglieva l’invito del sindaco Romano Carancini, imponendo uno stop a tutte le manifestazioni. Ancora ieri pomeriggio dalla questura hanno fatto sapere che nessuna manifestazione era stata vietata.

Due posizioni in apparente contrasto, se si considera che il ministro degli Interni Marco Minniti era stato piuttosto chiaro sul punto: «Mi auguro che chi ha annunciato manifestazioni accolga l’invito del sindaco, se qusto non avverrà, ci penserò io ad evitare tali manifestazioni». Tutto questo dopo essersi fatto i complimenti da solo, a modo suo: «Traini, l’attentatore di Macerata, l’avevo visto all’orizzonte dieci mesi fa, quando poi abbiamo cambiato la politica dell’immigrazione».

Le invidiabili doti da veggente del ministro – tra l’altro apprezzate dal segretario dem Matteo Renzi a Cartabianca su Raitre -, non hanno comunque impedito al 28enne militante leghista di aprire il fuoco contro sei ragazzi africani.

 

 

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Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in occasione della Giornata della memoria il 25 gennaio 2018 ha pronunciato un discorso nel quale ribadisce con forza l'attualità dell'antifascismo come fondamento della Repubblica e come antidoto contro "la predicazione dell'odio (...) di vecchi e nuovi profeti di morte. (...)".
I valori della Costituzione, l'eredità della Resistenza, sono ciò che oggi consente al nostro Paese di "riconoscere che un crimine turpe e inaccettabile è stato commesso, con l'approvazione delle leggi razziali, nei confronti dei nostri concittadini ebrei.
La Repubblica italiana, proprio perché forte e radicata nella democrazia, non ha timore di fare i conti con la storia d'Italia, non dimenticando né nascondendo quanto di terribile e di inumano è stato commesso nel nostro Paese, con la complicità di organismi dello Stato, di intellettuali, giuristi, magistrati, cittadini, asserviti a una ideologia nemica dell'uomo.
La Repubblica e la sua Costituzione sono il baluardo perché tutto questo non possa mai più avvenire."

Pensiamo che questo discorso meriti davvero la più larga diffusione.
la redazione

Intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella alla celebrazione del “Giorno della Memoria”

Palazzo del Quirinale 25/01/2018

Rivolgo un saluto ai presidenti del Senato, della Camera dei Deputati e della Corte costituzionale, ai membri del governo, a tutti i presenti, a coloro che ci ascoltano attraverso la tv.
Un saluto particolare ai superstiti dei campi di sterminio, alla senatrice Segre, ai ragazzi.
Il 27 gennaio del 1945 le truppe russe varcavano i cancelli di Auschwitz, spalancando, davanti al mondo attonito, le porte dell'abisso.
Quei corpi ammassati, i volti dei pochi sopravvissuti dallo sguardo spento e atterrito, i resti delle baracche, delle camere a gas, dei forni crematori erano il simbolo estremo della scellerata ideologia nazista.
Un virus letale - quello del razzismo omicida - era esploso al centro dell'Europa, contagiando nazioni e popoli fino a pochi anni prima emblema della civiltà, del progresso, dell'arte. Auschwitz era il frutto più emblematico di questa perversione.
Ancora oggi ciò che ci interroga e sgomenta maggiormente, di un mare di violenza e di abominio, sono la metodicità ossessiva, l'odio razziale divenuto sistema, la macchina lugubre e solerte degli apparati di sterminio di massa, sostenuta da una complessa organizzazione che estendeva i suoi gangli nella società tedesca.
Il cammino dell'umanità è purtroppo costellato di stragi, uccisioni, genocidi.
Tutte le vittime dell'odio sono uguali e meritano uguale rispetto. Ma la Shoah - per la sua micidiale combinazione di delirio razzista, volontà di sterminio, pianificazione burocratica, efficienza criminale - resta unica nella storia d'Europa.
Come fu possibile che anziani, donne, bambini anche di pochi mesi, stremati dalle lunghe persecuzioni, potessero essere sistematicamente eliminati, perché considerati pericolosi nemici? Che fine aveva fatto tra gli ufficiali di un esercito prestigioso, dalle grandi tradizioni, il senso dell'onore, quello per cui, quanto meno, non si uccidono gli inermi? Dove era finito il sentimento più elementare di umanità e di pietà di una nazione, evoluta e sviluppata, di fronte alle moltitudini di innocenti avviati, con zelo e nella generale indifferenza, verso le camere a gas? Migliaia di cittadini, i "volenterosi carnefici di Hitler", come li ha definiti lo storico Goldhagen, cooperavano alla distruzione degli ebrei.
Con questo consenso il nazismo riuscì a sterminare milioni di ebrei, di oppositori politici e di altri gruppi sociali - gitani, omosessuali, testimoni di Geova, disabili - considerati inferiori e ritenuti un ostacolo per il progresso della nazione.
Saluto e ringrazio per la loro presenza il presidente della Federazione dei Rom e Sinti, il presidente dell'Associazione deportati politici. Saluto anche il presidente degli internati militari: 800 mila soldati che, per il rifiuto di collaborare con i nazisti e di arruolarsi sotto le insegne di Salò, patirono privazioni, persecuzioni e violenze.
Da Liliana Segre e Pietro Terracina abbiamo sentito poc'anzi il racconto diretto, sconvolgente e inestimabile, dell'inferno dei campi, avvertendo la stessa emozione provata, nei giorni scorsi, ascoltando le parole, anch'esse essenziali e penetranti, di Sami Modiano. Agli internati venivano negati il nome, gli affetti, la memoria e il futuro, il diritto a essere persone.
Tutti i sentimenti erano brutalmente proibiti, tranne quello della paura.
Si possono uccidere, a freddo, senza remore, sei milioni di individui inermi se si nega non soltanto la loro appartenenza al genere umano

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A legislatura finita, mentre chiude i battenti, come di sfuggita, il governo Gentiloni che, in chiave di preoccupazione elettorale, ha deciso di non mettere all’approvazione lo Ius soli perché «manca la maggioranza» per via del voto contrario in Parlamento della destra (e l’astensione del M5s), sceglie ora una nuova avventura militare con un voto bipartisan, con l’appoggio in Parlamento della destra, da Forza Italia a Fratelli d’Italia e l’astensione della Lega pur d’accordo con la missione: in fondo è così che li «aiutiamo a casa loro».

Siamo in campagna elettorale e siccome è stato valutato il «valore positivo» nell’urna perfino delle dichiarazioni razziste del leghista «costituzionalista» Fontana, va da sé che anche il valore elettorale di questa missione militare in Niger è altissimo.

Come preminente è l’emergere del ruolo centrale di Minniti che, da ministro di polizia, ha coordinato e coordina la crisi nigerina, dopo la crisi in Libia, con la carta bianca e i finanziamenti elargiti alle “autorità” di Tripoli – sempre più nel pieno di una guerra per bande – per fermare ad ogni costo – con la detenzione, le minacce, le violenze – i migranti. Colpevoli tra l’altro di alimentare un immaginario che metterebbe in discussione «le basi della democrazia» – parola del ministro degli interni. Che ha preferito la guerra ai soccorsi a mare delle Ong contribuendo a chiudere ai profughi la rotta del Mediterraneo.

E che ora con tutto il governo Gentiloni si è attivato per una estensione del modello libico, perché la frontiera dell’Italia e dell’Europa «è il Niger», la sponda sud dei paesi del Sahel, oltre il deserto del Sahara.

Lì vanno fermati i disperati e coraggiosi in fuga dalle nostre troppe guerre e da quelle intestine di un’Africa martoriata che in questo momento sopporta 35 conflitti armati ed è sempre sottoposta alla rapina delle sue risorse necessarie al nostro modello di sviluppo e sfruttamento.

Un modello che per dominare ha bisogno di corrompere le leadership locali (dalla Nigeria, alla Costa d’Avorio, al Niger, al Mali, al Ciad, al Burkina Faso, al Camerun, al Congo, ecc.).

Sconcertanti le motivazioni che arrivano dal governo Gentiloni.

In Senato la ministra della difesa Pinotti ha ribadito l’incredibile versione che «quella che sta per partire non è una missione combat ma di addestramento per il controllo dei confini che si coordinerà con i francesi con gli americani», spiegando che «appena il parlamento approverà la deliberazione sono pronti a partire 120 militari che, secondo le esigenze, potranno arrivare a 470», più 130 mezzi terrestri e due aerei da guerra.

Sembra un’operazione contabile: verranno stornati militari dall’Afghanistan – dove siamo nella fallimentare guerra Usa-Nato da 16 anni – e dall’Iraq perché lo jihadismo «è sconfitto», ma si tace che il Paese è spaccato in tre realtà e dilaniato dal conflitto tra sunniti e sciiti.

Ora come si fa a raccontare che non è una missione combat quando molti «addestratori» francesi e americani vengono uccisi in combattimento proprio in Niger? Si dirà poi che in fondo sono poche centinaia di soldati: ma non è forse stato così l’inizio delle scellerate presenze militari in Somalia e in Iraq?

Più insidiosa ma non meno drammatica è l’affermazione sempre governativa che «andiamo in Niger per impedire un’altra Libia».

Ma se la Libia è ridotta così è proprio grazie all’intervento militare della Nato del marzo 2011 a guida francese, il cui disastro ha influenzato perfino le elezioni americane. Qualcuno poi dovrà spiegare come sarà possibile fermare i migranti, per allontanarli – loro e le stragi a cui sono condannati – dagli occhi dell’opinione pubblica e dalla coscienza d’Europa, per nascondere sotto la sabbia le tragedie del milione di persone rimaste intrappolate in Libia; come si può controllare una frontiera di più di 5mila chilometri se non attivando una sorta di caccia vera e propria ai profughi.

Una guerra ai migranti. Come non vedere che la partecipazione a questa missione, della quale si contrabbanda che «ci è stata richiesta il 1 novembre scorso dalle autorità nigerine di Njamey», ed è vantata come un aiuto «contro i jihadisti», rappresenta in realtà un vulnus alla democrazia dei Paesi africani che tornano ad essere considerati – e politicamente esposti al giudizio interno nel poverissimo Niger – solo come tutela coloniale. Come hanno rimproverato i giovani dell’università di Ouagadougou a Macron che li sfidava: «Non siete più sotto il dominio coloniale».

La realtà dice che le economie, le risorse minerarie preziosissime (uranio, coltan, petrolio), la stessa terra, così come le riserve monetarie in franchi Cfa, sostanzialmente ancora coloniali, sono nelle mani dell’Occidente (ma anche dell’Arabia saudita e della Cina) e della nuova primazia militare che avanza in chiave di difesa europea alla prova in Africa: quella di Parigi. Alla quale ormai ci siamo accodati.

Capovolgiamo allora l’obiettivo governativo per la missione militare in Niger che anche stavolta viene rappresentata come «umanitaria». A sinistra avranno un grande valore elettorale la scelta o il rifiuto di questa nuova avventura coloniale.

Che la guerra, finalmente, torni ad essere la discriminante.

 

 

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 Il documento. «Per invertire la rotta, per rovesciare il tavolo delle disuguaglianze», le città come il punto di partenza. Un contributo utile anche per dopo le elezioni

 

È stato pubblicato sul sito «Un’alleanza popolare per la democrazia e l’uguaglianza» il documento che sintetizza e dà una veste unitaria ai contributi che sono venuti dalle riunioni che si sono svolte in tutta Italia secondo le modalità indicate dall’assemblea nazionale del Brancaccio.

Assemblee a cui hanno partecipato, in maniera libera e aperta, militanti di Sinistra Italiana, di Possibile, di Mdp e di Rifondazione, e soprattutto centinaia di donne e uomini non iscritti a nessun partito, e che fanno politica in maniera autonoma nei loro luoghi di vita e di lavoro.

Come ricorderete, l’ambizione del Brancaccio era proprio questa: ricostruire una connessione fra i militanti della sinistra politica e quanto si è mosso nella società, fuori e qualche volta contro i luoghi della politica istituzione, per mettere radicalmente in discussione l’ordine delle cose esistente.

L’obiettivo ambizioso era il reinsediamento sociale della politica della sinistra.

SI PENSAVA CHE le elezioni politiche avrebbero potuto essere il terreno su cui cominciare questo lavoro, forti anche del buon risultato conseguito alle elezioni amministrative in molte città dalle coalizioni civiche che si erano costituite con queste modalità, con l’appoggio di tutta la sinistra politica, ma senza pregiudiziali e col massimo coinvolgimento della società civile attiva.

Come noto, l’ambizione di costruire una coalizione civica nazionale è naufragata di fronte all’autoreferenzialità e al rispuntare di pregiudiziali ideologiche nei partiti, e alla debolezza della stessa società civile attiva, che non si è impegnata in quest’opera con lo stesso entusiasmo e la stessa intelligenza di cui aveva dato prova in tante esperienze territoriali.

Il Brancaccio non è diventato una lista elettorale e pur tuttavia ha prodotto idee, contenuti, pratiche che riteniamo preziosi per una sinistra politica e sociale che voglia pensare al proprio futuro oltre le elezioni.
Contenuti e pratiche per la democrazia di ogni giorno.

Perché se si vuole invertire la rotta che ha provocato quella che Papa Francesco ha definito come «la bancarotta dell’umanità» sarà necessario un impegno quotidiano, di conflitto e di partecipazione, per conquistare qui ed ora, quel «buon vivere» che l’assetto attuale dell’economia e del potere ci nega.

IL RAPPORTO TRA istituzioni e movimenti è rovesciato. I movimenti sociali e culturali non sono visti come incubatori per una politica che vuole conquistare il governo del Paese, ma è la politica che deve rivelarsi utile ad aprire spazi all’iniziativa democratica nei luoghi di lavoro e della vita. Il partito da costruire non può pensarsi come il vertice di una piramide ma come il nodo di una rete con tutte le altre forme della politica che vivono nel conflitto sociale. Le elezioni sono un mezzo, e non il fine dell’agire politico.

La stessa discussione sulla ripartizione dei poteri fra i livelli istituzionali va rapportata a questa priorità.

Da qui l’attenzione che il documento presta al tema delle città, come il luogo in cui le persone organizzate possono far sentire la loro voce e far pesare le loro scelte, e su cui si sono misurate e si misureranno le coalizioni civiche in essere e quelle che verranno.

UN PROGETTO CHE proprio perché parte dalle persone non assume l’economia come la priorità e la base a cui rapportare ogni proposta. Non c’è il gioco presente in ogni programma di sinistra più o meno keynesiano, cioè quello di dimostrare che in fin dei conti tutte le proposte, da quelle sul lavoro a quelle ambientaliste a quelle sulla cultura e sulla scuola, e persino quelle portate avanti dal movimento delle donne, sono legittime perché funzionali a un nuovo sviluppo economico e a una nuova crescita.

Anzi è il concetto stesso di sviluppo economico che viene messo radicalmente in discussione. Perché è l’aver assunto la crescita di consumi come il misuratore fondamentale del benessere, sia per la destra che per la sinistra, che ha trascinato la parte maggioritaria del movimento dei lavoratori dentro le compatibilità e i valori della borghesia.

Oggi è la stessa messa a rischio della vita umana sul pianeta a mettere in crisi questo modello. Salvare il mondo dal disastro ecologico, promuovere la dignità e la libertà del lavoro, costruirne di nuovo, è possibile solo allargando gli spazi da sottrarre alla tirannia del mercato. È l’economia, ce lo ha spiegato tra gli altri papa Francesco, che deve seguire il lavoro e il buon vivere, non viceversa.

AI LAVORI DEL BRANCACCIO hanno partecipato anche tanti giovani e non più giovani economisti, e nel documento troverete precise proposte sul fisco, sulla Finanza, sulla necessità di rinnovare radicalmente le regole che governano la comunità europea, tutte nell’ottica di liberare potenzialità e risorse per allargare le possibilità di conflitto e di autodeterminazione.

Difficile prevedere come voteranno e come parteciperanno alle elezioni i militanti che si sono impegnati a organizzare e quanti hanno partecipato alle «cento piazze» del Brancaccio. Una parte consistente si impegnerà con Liberi e Uguali, altri in Potere al popolo, altri ancora saranno tentati dal «voto utile» al Movimento 5 stelle, qualcuno, speriamo pochi, non andrà a votare.

Mi paiono però tutti convinti che le elezioni non chiudano il discorso. E che dopo le lezioni, comunque vadano, andrà ripreso il cammino per costruire la sinistra che non c’è ancora.

 

 

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Su "il Manifesto" del 9 gennaio Alba Sasso (in passato deputata e fra le promotrici del CIDI) interviene con circostanziate osservazioni sulla proposta lanciata da Pietro Grasso di abolizione delle tasse universitarie.

Diritto allo studio. L'abbattimento delle tasse universitarie va finanziato dalla fiscalità generale, da rendere sempre più progressiva

di Alba Sasso

La proposta di abolire la contribuzione studentesca, per l’accesso all’Università, fatta domenica da Pietro Grasso durante l’assemblea di Liberi e uguali, ha suscitato un grande dibattito. E mi sembra un’ottima cosa.
Ma proviamo a mettere in fila alcuni dati.
1.L’Italia ha solo l’8% di beneficiari di borse di studio universitarie ed è, al contrario, al terzo posto in Europa per pressione fiscale sugli studi accademici.
Insomma tasse più care e borse di studio insufficienti.
2. Negli ultimi cinque anni mentre l’ammontare della contribuzione studentesca è cresciuto del 14,5%, diminuiva il fondo di funzionamento ordinario per l’Università (Ffo);
3. Siamo penultimi in Europa per numero di laureati. Secondo i dati forniti da Eurostat 2017 gli adulti tra i 30 e i 34 anni che hanno completato gli studi universitari sono solo il 26,2% della popolazione. Ben lontano da quel 40% di laureati previsto dal programma Europa 2020. Peggio di noi, solo la Romania (25,6%). E per di più siamo un Paese che ha complessivamente solo il 18% di laureati;
4. Non saremmo poi l’unico paese in Europa a fare questa scelta. È cosi in Germania, Scozia, nei paesi scandinavi; in molti altri le tasse universitarie sono bassissime.
Di fronte a questa realtà, la proposta di eliminare la contribuzione studentesca significa venire incontro alle famiglie che sempre di più, in questi ultimi anni, stentano a sostenere le spese per l’Università e cominciare a realizzare quel “diritto allo studio”, previsto dalla nostra Costituzione, sempre proclamato, difficilmente attuato.
Perché poi per studentesse e studenti ci sono i costi dei libri di testo, e in più, per i fuori sede, alloggi e mense non sempre coperti dai contributi regionali. Non dimentichiamo che in Italia esiste la la “perversione” dell’idoneo non beneficiario. Cioè studentesse e studenti che hanno i requisiti per avere borse di studio, mentre i fondi per il diritto allo studio (nazionali e regionali) non bastano per tutti.
È inoltre evidente che sarebbe necessario legare questa misura alla regolarità degli studi (i capaci e meritevoli, appunto). E a un aumento consistente dei fondi per il diritto allo studio nazionali e regionali. Liberando questi ultimi dalla scure del patto di stabilità.
Ecco, non capisco allora tutti i distinguo e le paure.
Il problema, con chiarezza, in Italia è un altro.
1. Nel nostro Paese il basso numero di iscritti all’Università non è, innanzitutto, il risultato di un’arretratezza storica; al contrario c’è stato un calo delle immatricolazioni negli ultimi cinque anni che è stato prodotto da scelte politiche evidentemente sbagliate, che hanno reso sempre più impervio l’accesso ai livelli più alti degli studi. E questo mentre si registrava un pesante processo di impoverimento dei ceti medi.
2. Questo fenomeno, grave e doloroso, si è prodotto in un contesto di pesante sofferenza dell’occupazione giovanile nel quale il possesso di un titolo di studio di più alto livello, come dall’ultimo rapporto di Almalaurea, rappresenta, pur sempre, un vantaggio occupazionale.
3. Infine, non si capisce quali prospettive pensi di darsi un Paese che, strutturalmente, indebolisce negli anni la qualità della sua forza lavoro.
È su questo che interviene la proposta della gratuità dell’accesso agli studi universitari. Occorre infatti rovesciare una tendenza che ha portato a aumentare i costi degli studi proprio mentre si sarebbe dovuto investire per evitare la deriva della descolarizzazione. Questa misura va perciò pensata come tendenzialmente universalistica. E va finanziata dalla fiscalità generale, da rendere sempre più progressiva.
Infine, mi pare inutile ora stare a spaccare il capello in quattro. Se si tratta, come è ovvio, di non rendere gratuiti gli studi dei più abbienti – e solo di questi -, sarà assai semplice trovare in una legge le modalità per farlo.

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