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Giro 2018. Parte oggi da Gerusalemme la Corsa Rosa. Successo per il governo israeliano. A 90 km, a Gaza, un nuovo venerdì di proteste

La prima maglia rosa del Giro d’Italia numero 101 sarà assegnata oggi con una ‎crono individuale di circa 10 km che si svolgerà a Gerusalemme. Sì, avete letto ‎bene, Gerusalemme, perché la prestigiosa corsa a tappe italiana per la prima volta ‎comincia fuori dall’Europa. La Rcs Media Group, organizzatrice del Giro, ha fatto ‎questa scelta allettata dai tanti milioni di euro investiti dal governo Netanyahu e ‎soprattutto da privati israeliani per celebrare i 70 anni dalla fondazione dello Stato ‎ebraico. E in nome di quei milioni di euro e ripetendo lo slogan abusato che ‎«lo ‎sport supera ogni divisione politica‎», ha chiuso in un cassetto la questione di ‎Gerusalemme città occupata, mai così attuale come in questi ultimi mesi dopo la ‎dichiarazione unilaterale fatta da Trump il 6 dicembre. Senza dimenticare il ‎trasferimento, tra dieci giorni, da Tel Aviv a Gerusalemme dell’ambasciata Usa tra ‎le proteste dei palestinesi. ‎«In questi mesi, assieme ad attivisti italiani, ci siamo ‎rivolti agli organizzatori, alla federazione ciclistica italiana, ai ciclisti stessi ‎pregandoli di riconsiderare la loro decisione e spiegando loro tutte le ragioni per cui ‎avrebbero dovuto evitarlo. Non abbiamo mai ricevuto una risposta. Gli ‎organizzatori ripetono che la corsa è una occasione di dialogo attraverso lo sport ma ‎loro dialogano solo con gli israeliani», diceva ieri sconsolata al manifesto Rana ‎Nashashibi, un’attivista della campagna palestinese #RelocateTheRace. È caduto ‎nel vuoto l’appello a spostare la partenza lanciato dal Bds e da 120 organizzazioni ‎per i diritti umani, sindacati, associazioni per il turismo etico, gruppi sportivi e ‎religiosi. Tra i firmatari il linguista Noam Chomsky, i giuristi John Dugard e ‎Richard Falk, entrambi Relatori Speciali Onu per la Palestina, l’attore e ‎drammaturgo Moni Ovadia. ‎

‎ Come la Rcs Media Group anche la stampa sportiva italiana ha scelto di non ‎vedere nulla, perché, si sa, ‎«lo sport non vuole pensieri‎». Gli inviati a Gerusalemme ‎delle più importanti testate sportive negli ultimi giorni hanno celebrato Chris ‎Froome, Tom Dumoulin e Fabio Aru, i tre big. E assieme a loro hanno elogiato il ‎governo Netanyahu, gli organizzatori locali, il sindaco di Gerusalemme Nir Barkat e ‎la polizia. Oggi mentre a Gerusalemme si assegna la prima maglia rosa ad appena 90 ‎km di distanza, lungo le linee tra Gaza e Israele si svolgeranno nuove manifestazioni ‎di protesta palestinesi della “Grande Marcia del Ritorno”. In quattro settimane i ‎tiratori scelti israeliani hanno ucciso una cinquantina di dimostranti. E oggi si teme ‎un nuovo bagno di sangue. L’auspicio è che i colleghi giunti a Gerusalemme per il ‎Giro possano prestare attenzione a quanto accade a non troppi chilometri dalla città ‎in cui si trovano. Dovrebbero farlo anche per Alaa al Dali, il 21enne ciclista ‎palestinese – ha partecipato ai Giochi di Giacarta – al quale i medici di Gaza hanno ‎dovuto amputare una gamba colpita da un proiettile sparato da un soldato israeliano ‎lo scorso 30 marzo.

‎ Per Israele è un successo d’immagine eccezionale. È stata capillare, al limite della ‎perfezione, l’organizzazione e la promozione di evento che celebra la sua ‎fondazione e lo pone in un’ampia vetrina mondiale (un miliardo di telespettatori), ‎accreditando la narrazione di Gerusalemme come sua capitale unita e indivisibile. ‎La crono inaugurale, ad esempio, è dedicata a Gino Bartali, già “Giusto tra le ‎nazioni”, che due giorni fa ha ricevuto la cittadinanza israeliana postuma per ‎decisione dello Yad Vashem, il memoriale dell’Olocausto, per il suo contributo alla ‎salvezza di 800 ebrei che rischiavano di essere deportati nei campi di sterminio ‎nazisti. Sorride soddisfatto il principale investitore privato israeliano nel Giro, ‎Sylvan Adams, di origini canadesi che ha dato vita all’Israel Cycling Academy, il ‎team che parteciperà alla corsa a tappe e con il quale Netanyahu ha pedalato in giro ‎per Gerusalemme appena qualche giorno fa. ‎«Il Giro d’Italia è tra i maggiori eventi ‎sportivi tenuti in Israele – ha notato la ministra dello sport e della cultura Miri ‎Regev – è una operazione logistica senza precedenti‎». Regev e il ministro del ‎turismo, Yariv Levin qualche mese fa furono protagonisti di una veemente protesta ‎nei confronti degli organizzatori del Giro che avevano messo nel sito ufficiale della ‎corsa la dizione “West”, “Ovest” (la parte ebraica), accanto a Gerusalemme. In pochi ‎minuti la Rcs Media Group modificò tutto e Gerusalemme, senza più Ovest, ‎divenne la sede della corsa e, quindi, la capitale unita di Israele. ‎

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Un partito con le ossa rotte, messo di fronte «a una sconfitta storica», attraversato da «odio e attacchi feroci», come ha detto ieri il reggente Martina introducendo i lavori della direzione, si ricompatta malamente dietro un voto che certifica la linea di Renzi. All’unanimità. Il perdente di successo dimostra di portare il Pd dove vuole. Probabilmente alla stazione finale, al fallimento della ditta, vista la lunga teoria di sconfitte incassate in questa legislatura. Prima o poi questo lutto andrà elaborato, ma niente del genere è neppure iniziato alla direzione del Pd. Dove purtroppo si è replicato il solito copione: Renzi comanda , gli altri obbediscono.

L’ex segretario ha raggiunto i suoi due obiettivi. Ha spostato l’ordine del giorno facendo saltare la possibile trattativa di governo tra Pd e 5 Stelle che lo avrebbe visto ai margini. E, secondo obiettivo, ora può predisporsi a gestire la nuova fase che prelude alle prossime elezioni. Se e con quali modifiche alla leggere elettorale lo sapremo presto. Perché un nuovo governo, semmai vedrà la luce, avrà vita assai breve e l’aperta lotta tra le correnti del Pd semplicemente si trasferirà sulle future liste elettorali.

L’ex segretario ha archiviato brutalmente ogni ipotesi di dialogo con i 5Stelle. La tanto osteggiata discussione con i pentastellati, attorno a un tavolo di programma, certo non lo avrebbe visto come protagonista, relegandolo invece nel ruolo di sconfitto. E avrebbe allontanato le elezioni.
Renzi ha chiuso la porta in faccia all’ultimo tentativo messo in campo da Mattarella, e aperto una fase politico-istituzionale avvolta nelle nebbie. Dalle quali si riaffacciano animali di palude come «i responsabili» di Berlusconi.

Il capo dello stato chiederà ai partiti e ai gruppi parlamentari per l’ultima volta se hanno una maggioranza, chiederà di mettere le carte in tavola, tentando, non si sa con quale esito, di porre fine a uno stallo per condurre il paese fuori dalla palude.

Ma qualunque coniglio uscirà dal cappello di Mattarella, non sarà l’accordo, fin qui sollecitato dal Colle, tra le forze politiche uscite dalle urne del 4 marzo.

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Lo street artist Sirante torna a dire la sua sulla situazione politica. Stavolta lo fa prendendo spunto dall'affresco di Raffaello 'Incendio di Borgo', ospitato nei Musei Vaticani, riletto in chiave anti-renziana. Stamattina a largo del Nazareno, a pochi passi dalla sede nazionale del Pd, è comparsa l'opera che raffigura, al posto delle figure raffaelliane, Renzi che porta sulle spalle Berlusconi, e intorno Boschi, Orfini, Verdini. Il lavoro, come già i precedenti, è stato prontamente rimosso ma è lo stesso Sirante a spiegare sulla sua pagina Fb il messaggio: "Da quando Matteo Renzi ha preso la guida del Partito Democratico - scrive - è iniziato un lungo declino che ci ha portato fino ad oggi ... a quattro anni dall'innesco, il partito è avvolto dalle fiamme dell'indecisione. L'ex segretario del partito ha governato con plurindagati e pluricondannati ma ora, assumendo finte posizioni etiche, di principio, snobba chiunque gli proponga anche solo un semplice dialogo. Non abbandonerà mai il suo Silvio, non può fare a meno dei consigli di Verdini... Salverà il suo anziano e fedele 'padre', il suo fedelissimo Orfini e i soliti vecchi amici?".

Un suo lavoro era già apparso nei dintorni del Quirinale nei giorni delle consultazioni. Allora a ispirare l'artista era stato il quadro 'I bari' di Caravaggio, con i ritratti di Silvio Berlusconi, Matteo Salvini e Luigi Di Maio al posto dei volti dei tre personaggi.

Era invece firmata da Tvboy l'altro lavoro di street art apparso nei vicoli di Roma, il bacio tra Matteo Salvini e Luigi Di Maio, diventato popolarissimo in rete. Anche questo fatto subito sparire per motivi di decoro urbano. 

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Giornata della Terra. I rifiuti non vengono giù dal cielo e sono il risultato di comportamenti buoni, anzi lodevoli, dei singoli cittadini, di quelle operazioni di «consumo» delle merci che i saggi governanti invitano ad aumentare continuamente perché così gira meglio l'economia

 

lL 22 aprile 1970 fu dichiarato «giornata della Terra» in molti paesi del mondo e anche in Italia. Fu un evento importante, i movimenti ambientalisti in Italia erano appena nati – Italia Nostra esisteva dal 1955, il Wwf era stato fondato due anni prima, la Legambiente sarebbe nata dieci anni dopo – ma era vivace la protesta contro i fumi delle fabbriche inquinanti, la congestione del traffico e l’avvelenamento dell’aria nelle città, le colline di rifiuti puzzolenti, l’erosione delle spiagge e delle colline. Amintore Fanfani, che allora era presidente del Senato, creò una commissione «speciale» invitando alcuni studiosi ad informare i senatori sui «problemi dell’ecologia».

Erano anni di lotte operaie e studentesche, era appena iniziata la dolorosa stagione degli attentati terroristici, ma la domanda di un ambiente pulito sembrava dare una luce di speranza per la costruzione di un mondo meno violento. Dell’ecologia, come si diceva allora, si cominciò a parlare nelle scuole, nelle università, nei partiti, nelle chiese.

In quella lontana «giornata della Terra» di quasi mezzo secolo fa sui muri delle città americane apparve un manifesto in cui era riprodotta la vignetta di un fumetto, allora celebre, Pogo, un opossum umanizzato che, come molti personaggi dei fumetti, ironizzava sul comportamento, nel bene e nel male, degli umani. Pogo guardava un diligente ecologista che gettava per terra un foglio di carta straccia, e Pogo si chinava a raccoglierlo mormorando sconsolato: «Ho scoperto il nemico e il nemico siamo noi».

Anche oggi quante volte si vedono delle degnissime persone, eminenti nella loro professione, che si dichiarano fedeli amici dell’ecologia, ma poi nella vita quotidiana si comportano in maniera esattamente contraria a quanto dicono di essere.

Ciò avviene perché i comportamenti ecologicamente corretti sono scomodi e sgradevoli, tanto che devono essere regolati con leggi che puniscono (dovrebbero punire) le violazioni. Prendiamo il caso dei rifiuti: in Italia ogni persona produce, in un anno, circa mezza tonnellata di rifiuti solidi domestici: verdura, carta straccia, imballaggi, plastica, vetro, scarpe rotte, frigoriferi e televisori usati; tre o quattro milioni di tonnellate di automobili vanno alla «rottamazione» contribuendo all’aumento dei metalli, gomme, oli usati che finiscono da qualche parte.

La grande massa dei rifiuti della vita civile è estremamente sgradevole: ingombra le strade, puzza, lascia colare liquidi che inquinano le acque dei pozzi e dei fiumi, impone dei sistemi di raccolta costosi e che intralciano il traffico. E, come nella commedia di Ionesco, «Come sbarazzersene», anche i rifiuti aumentano sempre di volume e aumenta il disturbo che arrecano agli altri cittadini, al «prossimo» vicino, della stessa strada o città, o lontano, del luogo dove sono localizzati la discarica o l’inceneritore e addirittura al prossimo planetario per l’emissione di gas (metano, anidride carbonica) che derivano dalla decomposizione o combustione dei rifiuti e che alterano il clima planetario presente e futuro.

Ma i rifiuti non vengono giù dal cielo e sono il risultato di comportamenti buoni, anzi lodevoli, dei singoli cittadini, di quelle operazioni di «consumo» delle merci che i saggi governanti invitano ad aumentare continuamente perché così gira meglio l’economia.

Si potrebbe avere lo stesso benessere, gli stessi servizi, gli stessi oggetti, generando meno rifiuti, arrecando «meno» danno al prossimo? Si potrebbe e addirittura è richiesto dalle leggi: le fabbriche potrebbero diminuire la massa degli imballaggi e produrre imballaggi riciclabili, ma è scomodissimo e costoso cambiare la forma e la fabbricazione delle merci. Le singole persone potrebbero raccogliere separatamente la carta straccia che potrebbe essere riciclata, lo stesso vale per il vetro e la plastica; ma queste operazioni che, prima di essere rispettose dell’ambiente sarebbero rispettose del prossimo, in senso cristiano, se volete, sono tutte scomode. Bisogna fare cento passi di più per raggiungere il cassonetto di raccolta della carta, bisogna avere cura e sapere — ma chi informa in maniera paziente e convincente ? — che non si deve mettere carta e plastica insieme, vetro e plastica insieme (perché così non si ricupera più né plastica né carta né vetro).

La possibilità di vivere in un ambiente meno violento e più sano non dipende tanto dalla moltiplicazione delle discariche o degli inceneritori o delle marmitte catalitiche, ma da un recupero dell’etica, del rispetto del prossimo, sollecitato dai governanti, dagli uomini di spettacolo, dagli uomini di chiesa che parlassero «opportune et importune», come scrive Paolo a Timoteo e come sta facendo adesso Papa Francesco. La mia modesta esperienza suggerisce che le persone sono migliori di quanto si pensi: l’altro giorno ho visto, in una grande città, un cassonetto in cui i cittadini erano invitati a mettere le bottiglie di vetro «bianco», più facilmente riciclabile di quello colorato: il cassonetto era strapieno e bottiglie bianche erano depositate tutto intorno: i cittadini avevano raccolto un invito fatto bene e avevano risposto facilmente. Forse «il nemico» di cui parlava Pogo, siamo proprio noi che non parliamo con chiarezza e non testimoniamo con coerenza l’ecologia professata a parole.

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(dal sito ilbuonsenso.net)

Dai viaggi nello spazio ai terremoti: ecco la Settimana della Scienza 2018

 

Mostre, conferenze, visite guidate e laboratori per trasmettere a grandi e piccoli la passione per la scienza. Entra nel vivo a Faenza la 18^ edizione della Settimana della cultura scientifica e tecnologica: tante iniziative in programma che ‘allungheranno’ la Settimana da aprile a giugno andando alla scoperta dello spazio, dei terremoti e del mondo degli animali in maniera divertente e divulgativa. Le iniziative, tutte a ingresso libero, sono coordinate dall’Assessorato all’Istruzione in collaborazione con la Palestra della scienza e il Tavolo della scienza.

Da sinistra: Bruno Casadio, Simona Sangiorgi, Paola Lagorio.

«Alla Settimana della Scienza partecipano non solo studenti e visitatori faentini – commenta Bruno Casadio della Palestra della Scienza – ma da tutta la Regione, segno di una grande vitalità in questo settore del nostro territorio grazie alla collaborazione di tutti gli enti invitati a collaborare, ognuno con il proprio contributo». Una Settimana della Scienza 2018 che coinvolgerà in tre mesi diversi spazi e temi: dal Palazzo delle Esposizioni alla Casa museo Bendandi passando per il Museo Malmerendi. «Il Tavolo della scienza – spiega l’assessore alle Politiche giovanili Simona Sangiorgi – è un organo convenzionato del Comune al quale partecipano docenti e referenti delle scuole del territorio, rappresentanti di enti di ricerca e altri esperti. Ci si incontro periodicamente per condividere una progettazione comune e dedicarci alla divulgazione della materia scientifica soprattutto per stimolare le nuove generazioni, coinvolgendo anche le loro famiglie. Per noi è prezioso che i bambini fin da piccoli restino legati e interessati al mondo della scienza».

A Palazzo Esposizioni la mostra Parla la scienza

Un viaggio da Galileo Galilei a Stephen Hawking; tra simulazioni di viaggi nello spazio, creazione di macchine interattive e laboratori in grado di rendere i visitatori spettatori attivi e creativi. Al Palazzo delle Esposizioni (corso Mazzini, 92) sarà allestita la mostra “Parla la scienza”, con inaugurazione venerdì 20 aprile alle ore 18.30. La mostra, visitabile fino al 5 maggio, sarà aperta dalle ore 10 alle 12.30 e dalle 16 alle 19 e le mattinate saranno in particolare rivolte agli studenti. Ad accompagnare i visitatori, tra telescopi ed esperimenti, sarà un percorso fatto di impronte sulle quali sono state scritte le frasi più significative di Galileo Galilei. «Questa mostra è un sogno che diventa realtà – afferma Paola Lagorio, della Casa museo Bendandi – non si tratta di una mostra statica, ma di uno spazio che ogni giorno si trasforma con nuovi laboratori e conferenze diversealle quali sono invitate eccellenze provenienti da importanti centri di ricerca».

Eventi e conferenze: alcuni appuntamenti della Settimana della Scienza 2018

Tra gli eventi collaterali alle mostra, sabato 21 aprile alle ore 10 e 15 “Macchine per pensare”, laboratorio a cura di Sara Ricciardi, Inaf Bologna. Nello stesso giorno, ore 18, “In ciabatte sulla luna” a cura di Marco Peroni.Domenica 22 e 29 aprile “L’arte di piegare la carta”, laboratorio a cura di Takako Muraki. Lunedì 23 aprile alle ore 21 “La natura nell’arte”, di Fabio Semprini. Venerdì 27 aprile, alle ore 11 e 16.30 “Il terremoto in Italia” a cura di Giuliana d’Adderio, Ingv Roma; mentre mercoledì 2, giovedì 3 e venerdì 4 maggio si svolgerà un laboratorio di astrofisica a cura di Maura Sandri, Inaf Bologna.

Tra le conferenze, si segnala venerdì 11 maggio al Museo Malmerendi (via Medaglie d’oro, 51) “I buchi neri supermassivi” alle ore 21, a cura di Mauro Dadina, Inaf Bologna. Venerdì 25 maggio, stesso luogo e ora “Materia ed energia oscura” a cura di Roberto Casadio dell’università di Bologna. Previste inoltre, nel corso della Settimana della scienza, anche visite guidate ai centri di ricerca del territorio e a Romagna Tech, nuovo polo dell’innovazione e incubatore di startup faentine (dal lunedì al giovedì nei mesi di aprile e maggio, info e prenotazioni 0546 670311). Previste anche osservazioni astronomiche del gruppo Astrofili faentini all’osservatorio di via Zauli Naldi nelle serate di giovedì 3, 10, 17, e 24 maggio alle ore 21.

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Intervista di Elena G. Polidori su Il Resto del Carlino di giovedì 12 aprile 2018

Roma, 12 aprile 2018 - "Subito dopo il voto – dice Maurizio Landini, ex leader della Fiom e attuale segretario confederale della Cgil – abbiamo scritto ai nuovi presidenti delle Camere e ai gruppi parlamentari, per chiedere che il nuovo Parlamento discuta subito la Carta per i diritti del Lavoro, sottoscritta da più di un milione e mezzo di lavoratori; i 5 Stelle sono stati i primi a risponderci".

Che risposta è arrivata?

"A breve saranno fissati gli incontri, ma è chiaro che stiamo parlando di cambiare il Jobs Act, di fare una legge sulla rappresentanza, vuol dire ripristinare un nuovo statuto di diritti per tutte le forme di lavoro, anche quello autonomo, così come vogliamo una nuova legge sulle pensioni...".

Musica per le orecchie di Di Maio. Ma anche di Salvini...

"Il sindacato, la Cgil, guarda quello che succede, è autonomo da qualsiasi forza politica, governo, imprenditore, ma resta il fatto che oggi è più facile licenziare che ricorrere agli ammortizzatori sociali. E nel congresso che stiamo aprendo, tra le proposte c’è anche quella di sperimentare un reddito di garanzia, per chi non ha alcun istituto, è precario e vuole reinserirsi nel mondo del lavoro".

Siete per il reddito di cittadinanza dei 5 Stelle?

"Analizzando il voto del 4 marzo, si capisce che c’è stata una ribellione di massa a un potere politico che era lontano dalle ragioni di una sofferenza sociale molto diffusa, perché la povertà si è allargata, il Jobs Act ha aumentato le forme di sfruttamento del lavoro e ricondurre il voto del Mezzogiorno al fatto che vogliono essere sussidiati, secondo me, è un’altra di quelle stupidaggini che non dà l’idea di capire che cosa sta succedendo".

Dunque pensa che il mondo del lavoro abbia votato in massa 5 Stelle o Lega?

"È un dato che chi ha governato, ha dimezzato i suoi voti e il mondo del lavoro non ha votato per chi era al governo. Detto questo, la Cgil aveva capito da un po’ che si stava verificando una frattura e, infatti, Pd e sinistra sono usciti fortemente ridimensionati. Detto questo, per noi il problema è che qualsiasi governo ci sarà, noi come Cgil chiederemo quello che ho detto prima".

Faccia una stima: in quanti degli iscritti alla Cgil secondo lei hanno votato 5 Stelle?

"Stiamo analizzando il voto con la nostra Fondazione Di Vittorio, ma non siamo di fronte ad un’elezione normale. In Italia gli iscritti a Cgil, Cisl e Uilsono tra gli 11 e i 12 milioni (ma ci sono anche altri sindacati). È indubbio da quello che emrge che i partiti maggiormente votati, anche in queste aree, sono 5 Stelle e Lega".

Dovendo scegliere tra pensioni e Jobs Act, a che cosa darebbe priorità?

"Vanno fatte tutte e due le cose. Non è che uno è alternativo all’altro, non è che ora parte il giochino ‘o l’uno o l’altro’, bisogna ridare diritti a chi lavora, a parità di lavoro parità di diritti e retribuzioni, con le pensioni che restano una ferita aperta. Il problema non si risolve dicendo ‘41 anni e poi in pensione’, bisogna pensare anche a dare pensioni di garanzia ai giovani, perché un sistema puramente contributivo non esiste in nessun Paese del mondo e, soprattutto, bisogna ridare fiato agli investimenti per creare lavoro; sta tutto lì".

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«Nessuna base in Italia per la nuova guerra “intelligente” di Trump e Macron»: questa dovrebbe essere la posizione del nostro Paese di fronte al brutto vento che tira nel Mediterraneo orientale, per una guerra quella in Siria, aizzata nel 2011 dall’asse degli «Amici della Siria» che, non contenti del disastro provocato finora che avrebbe dovuto sortire lo stesso effetto «riuscito» della Libia, rilanciano ora quasi la stessa coalizione di guerra di cinque anni fa.

Pronti a colpire in Siria obiettivi militari di Assad, difficilmente distinguibili però da quelli di Russia e Iran che lo sostengono in armi, come dimostra l’uccisione – certo mirata – da parte del raid israeliano che ha colpito una base siriana provocando 14 vittime tra cui quattro consiglieri di Teheran.

Nessuna base in Italia – non basta dire italiana – perché la configurazione geostrategica della penisola, piena zeppa di basi militari Usa e Nato, dice che oggettivamente è già coinvolta e lo sarà ancora di più nello scenario di un conflitto che rischia di deflagrare ed estendersi nel Medio Oriente in macerie.

Deve dire di no all’uso di base militari in Italia per colpire la Siria, il governo Gentiloni rimasto in carica per il disbrigo degli affari correnti, perché partecipare ad una guerra, anche «solo» concedendo la disponibilità delle basi, operative o logistiche, non è affare che può essere etichettato come «disbrigo degli affari correnti». Che pretende il ruolo del Parlamento e di un governo effettivo. Altro che Commisione speciale.

Dovrebbe dire di no anche il variegato schieramento dei partiti alla seconda consultazione dal presidente Mattarella dopo il voto di più di un mese fa. Per la quale consultazione le chiacchiere stanno a zero.

Ma potrebbe essere l’occasione, dopo le ambiguità e le promesse della campagna elettorale, per parlare finalmentre di contenuti di governo.

Così l’ipotesi ventilata dal M5 Stelle del famoso «contratto» – malamente paragonato a quello di Cdu-Csu e Spd per la Grosse Koalition tedesca – con dentro i contenuti del probabile accordo da proporre in modo «paritario» a Salvini-Meloni-Berlusconi o al Pd, potrebbe uscire dalle nebulose.

Per contenere o la cosiddetta lealtà al fronte occidentale, come da rassicurazioni di Di Maio e Salvini in reiterata missione all’ambasciata Usa, oppure il rifiuto a partecipare all’ennesima guerra scellerata che andrebbe ad aggiungersi ad un conflitto armato che finora ha fatto 400mila vittime e milioni di profughi.

Soprattutto perché la guerra che si annuncia dai due «giustizieri», entrambi con esperienza imperiale e coloniale, come vendetta bellica per le presunte responsabilità di Damasco nell’uso di armi chimiche, proprio mentre Assad sta vincendo la guerra ed è sotto i riflettori del mondo, serve a Trump come distrazione.

Dal fatto che è braccato in patria per la vicenda «Russiagate»; e se bombarda, di quello parleranno i media invece che di pornostar, e poi andrebbe a colpire interessi strategici della Russia.

Insomma sarebbe una prova di smarcamento e «indipendenza»: first America.

Anche per Macron è una distrazione, dal legame fortissimo con gli interessi dell’alleato Arabia saudita – viene in mente chissà perché Sarkozy con Gheddafi – e dalla prima vera crisi sociale e politica che lo investe in questi giorni.

Un intervento motivato da entrambi per punire la Siria, come se il ruolo dell’Europa e degli Stati uniti in primis non l’avesse già distrutta abbastanza. E che dal punto di vista militare non fiaccherà certo Damasco, ma che Trump deve fare a tutti i costi con il soccorso di Macron – Londra sembra guardinga – e sotto impulso di Israele, perché lo ha annunciato e non può perdere la faccia.

Magari non entro 24-48 ore come ha proclamato tronfio ma, dopo lo scontro all’Onu, aspettando l’inchiesta dell’Opac (Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche) sul campo.

Ma se intanto ci sarà il bombardamento su obiettivi siriani, stavolta la vicenda promette il peggio.

Perché la Russia minaccia di reagire colpendo mezzi e basi di lancio degli eventuali bombardamenti.

Siamo a quanto pare all’addio alla guerra per procura e all’appalesarsi di un confronto bellico diretto nell’area. Che non tarderà ad espandersi.

E l’Italia mediterranea, se coinvolta, è davvero a un tiro di missili.

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