Accedi Registrati

Login to your account

Username *
Password *
Remember Me

Create an account

Fields marked with an asterisk (*) are required.
Name *
Username *
Password *
Verify password *
Email *
Verify email *

Un’immagine del presidio

Gli attivisti fanno un appello ai Consiglieri regionali: "C'è urgenza di salvaguardare il poco territorio vergine rimasto in regione"

Srotolando un grande striscione con la scritta “No al cemento” Legambiente, assieme a cittadini e comitati, si è presentata oggi, 19 dicembre, all'appuntamento del voto della nuova Legge Urbanistica regionale per l'ultimo appello ai Consiglieri regionali: garantire un limite certo al consumo di suolo.

Commenta (0 Commenti)

da Huffington Post

"Liberi e uguali" e le lezioni del "Brancaccio": il bisogno di un nuovo partito della sinistra

07/12/2017
di Antonio Floridia Politologo

La nascita di "Liberi e uguali" è una "grande occasione mancata", come ritiene Tomaso Montanari? E perché il "percorso del Brancaccio" si è interrotto? Forse occorre riflettere meglio su quanto accaduto veramente a sinistra in queste ultime settimane. Una lettura ricorrente, ma troppo semplicistica, si fonda sull'idea che i "partiti" abbiano soffocato nella culla un promettente risveglio della "società civile". Ma è così? Certo, si possono cogliere vari limiti nel processo avviato domenica scorsa: ma questi limiti non nascono dall'invadente presenza dei partiti: al contrario, sono legati a un dato di fatto, l'assenza di un partito degno di questo nome. Di più: le potenzialità di questo progetto potranno svilupparsi solo se – in tempi ragionevoli – riesce a prender corpo l'idea di un nuovo partito della sinistra.
Il percorso del Brancaccio si è arenato, a mio parere, perché si fondava su un'erronea contrapposizione tra "società civile" e "politica". Il presupposto è che esistesse una diffusa, ma inespressa propensione ad un'intensa e vibrante "partecipazione dal basso": ma, molti lo potranno testimoniare, le assemblee del "Brancaccio" erano fatte in larghissima parte da "militanti e reduci", provenienti dalle mille storie della sinistra. Rispettabilissime persone, beninteso: ma a che titolo le possiamo definire come espressione della "società civile"? Possiamo farlo, certamente, ma nella stessa identica misura in cui possiamo definire tali le tante persone che hanno affollato, in queste stesse settimane, per esempio, gli incontri con Bersani o D'Alema: persone senza più appartenenza di partito, che sperano di trovare una nuova casa politica . Gli uni e gli altri sono, allo stesso titolo, "apolidi di sinistra" o - per dirla con il Manzoni - "un volgo disperso che nome non ha...", a cui – nell'approssimarsi delle elezioni – occorreva dare una qualche prospettiva politica.
Possiamo cogliere alcuni "vizi d'origine" nell'idea di "partecipazione dal basso" che ha ispirato il Brancaccio. In un loro intervento, nel tentativo di riaprire un cammino unitario, Falcone e Montanari proponevano "un'assemblea in cui migliaia di persone presenti fisicamente, e altre migliaia sulla rete, possano votare a suffragio universale su programma, leadership, criteri delle candidature, comitati etici e di garanzia" (18 novembre): un vasto programma, senza dubbio; ma era un'idea di partecipazione realistica e praticabile? E poi, a ben guardare, cos'altro descrive tutto questo

Commenta (0 Commenti)

E' appena trascorso un altro 12 dicembre. 48 anni dopo quel 12 dicembre 1969: un giorno che segnò profondamente un'intera generazione e la storia d'Italia del dopoguerra.
Ho letto in rete di tutto sull'attentato di piazza Fontana. Fra balle e fantasiose ricostruzioni, quale memoria abbiamo trasmesso alle generazioni successive? Quello che resta nel migliore dei casi è una vicenda confusa e contraddittoria e il luogo comune irresponsabilmente o dolosamente propalato per cui "non sapremo mai la verità".
Eppure non è così, proprio non è così: la verità si conosce, eccome! E' addirittura una verità giudiziaria, anche se i responsabili non sono stati puniti. Ce lo ricorda efficacemente Guido Salvini, un magistrato coscienzioso che ha fatto il suo mestiere rifuggendo da ogni sovraesposizione mediatica, in questo articolo apparso ieri su "Il Fatto quotidiano".
Riferisce Salvini che:
Carlo Digilio "non solo un ordinovista, ma un informatore dei servizi di sicurezza interni alle basi americane del Veneto" fu "partecipe alla fase organizzativa della strage e alla preparazione dell’esplosivo",
"Ordine nuovo è l’artefice della strage di piazza Fontana",
su "Freda e Ventura è stata raggiunta, con i nuovi elementi raccolti, la prova “postuma” della loro colpevolezza",
"la direzione del Sid a Roma nella persona del generale Maletti, vicecapo del Servizio" ha operato "una soppressione di prove in piena regola",
Tutte verità contenute in sentenze passate in giudicato: furono i fascisti con la copertura dei servizi segreti italiani e sotto l'occhio benevolo della CIA.
Alessandro Messina

Da “Il Fatto Quotidiano” del 12 dicembre 2017
Piazza Fontana, sappiamo la verità

di Guido Salvini (Magistrato a Milano)
Le indagini milanesi degli anni Novanta sulla strage di Piazza Fontana non sono state affatto inutili. Anche le sentenze di assoluzione hanno una “virtù segreta” e cioè scrivono esplicitamente cose chiare. Scrivono che colpevole era Carlo Digilio e partecipe alla fase organizzativa della strage e alla preparazione dell’esplosivo, e infatti la sua sentenza di estinzione del delitto per prescrizione pronunciata in primo grado in ragione della sua collaborazione non è stata più toccata dalle sentenze successive. Scrivono che l’ideazione e l’esecuzione della strage era sicuramente riferibile alle cellule di Ordine nuovo del Veneto e che nei confronti di Freda e Ventura è stata raggiunta, con i nuovi elementi raccolti, la prova “postuma” della loro colpevolezza, non essendo essi più giudicabili perché assolti per insufficienza di prove nei processi precedenti.
Quindi Ordine nuovo è l’artefice della strage di piazza Fontana così come degli attentati che l’hanno preceduta, quelli iniziati in progressione dall’aprile 1969, per i quali i suoi esponenti sono già stati condannati con le sentenze di Catanzaro e di Bari. È questa la base minima, almeno sul piano storico, su cui discutere. Se vi siano altre responsabilità concorrenti, in alto o in basso, per ora non lo sappiamo. Ma questo sì. Addirittura dopo la sentenza sono emersi elementi di accusa nuovi a carico della cellula padovana come l’esistenza, raccontata da un militante che ne faceva parte, Gianni Casalini, in un lungo racconto reso poco prima di morire, di un arsenale, con esplosivi, del gruppo alla periferia di Padova. Tale arsenale è tuttora esistente, sotto alcune villette costruite in seguito. Casalini ha anche narrato di aver partecipato

Commenta (0 Commenti)

"Liberi e Uguali" avvia un processo unitario che non va guardato con pigro scetticismo, sufficienza o rancore, ma con occhio critico, attenzione e partecipazione. Nessuno è perfetto e Piero Grasso non lo è. Però merita rispetto e fiducia, anche se la giostra dei leader che cambiano (Pisapia docet) rivela vecchie logiche di partito

Sui grandi giornali, come in tv, è iniziata la campagna per il voto utile urlato da Renzi e dal Pd contro un nuovo protagonista, Piero Grasso, e un nuova aggregazione della sinistra appena battezzata “Liberi e Uguali”. Un atto di nascita di fronte a migliaia di persone, in una discoteca romana che già nel nome, “Atlantico”, fa immaginare una lunga navigazione in mare aperto.

E’ una sinistra, nella parte che fa riferimento a Bersani e compagni, che viene da lontano (dal Pci) e oggi approda, in conseguenza di una scissione, a una lista elettorale in forte dissenso verso le politiche renziane che essa stessa ha condiviso per molti anni (con la fondazione del Pd) aderendo alla grande sbornia neoliberista che in Italia e in Europa ha bombardato lo stato sociale.

Poi c’è una sinistra radicale, come Sinistra italiana, che quelle politiche non le ha mai condivise e le ha combattute nelle istituzioni e nella società. E anche questa sinistra era tra le forze che domenica hanno vissuto un momento importante di reciproco riconoscimento, insieme alle persone che hanno partecipato all’assemblea dell’Eur. Dove si sono ascoltate le voci di chi combatte su ogni fronte. Da Lampedusa, alla fabbrica del panettone, al laboratorio di ricerca. Voci che raccontavano lotte quotidiane contro la diseguaglianza nelle sue varie forme.

Contenuti essenziali di un programma in parte già disegnato, che dovrà essere ben chiarito nella fase che seguirà fino a comporre nei prossimi mesi una piattaforma e una lista elettorale. Tappa intermedia verso la costruzione di un partito della sinistra italiana.

Questa almeno è l’ambizione di chi domenica era presente a Roma, venuto da ogni parte del paese per testimoniare l’urgenza di una scelta. E del resto avviare il percorso di una forza politica di sinistra, elettoralmente non irrilevante e politicamente in sintonia con le sinistre europee di alternativa, è qualcosa che certamente risponde a una domanda diffusa.

Anche per queste sommarie considerazioni non si deve guardare al processo unitario, rappresentato dalla figura di Piero Grasso, né con sufficienza, né con pigro scetticismo, né con rancore ma con attenzione, partecipazione e anche occhio critico.

Proprio come questo giornale ha fatto, alcuni mesi fa, verso un’altra grande e bella assemblea al cinema Brancaccio di Roma. Che voleva le stesse cose, che poi aveva sottoscritto con Mdp, Sinistra italiana e Possibile, una cornice di intenti. Ma quel processo si è interrotto su un diverso metodo partecipativo nella definizione delle candidature e sulla necessità di marcare una più netta differenza dai fuoriusciti del Pd.

Ragioni che hanno anche determinato il distacco di Rifondazione comunista intenzionata a fare una sua lista.

Sono critiche in parte condivisibili e certamente la lista di “Liberi e Uguali” sconta debolezze che ne segnano anche la genesi.

Nessuno è perfetto.

Pietro Grasso, che di questa aggregazione è il front-man, non lo è. Però merita rispetto e fiducia, anche se avevamo capito che, fino all’altro ieri, l’acchiappavoti indicato da Bersani rispondeva al nome di Giuliano Pisapia.

Questa frettolosa ricerca del leader rivela una vecchia logica di funzionamento dei partiti, che andrebbe superata perché poi se non si rinnovano i metodi per la scelta della classe dirigente si finisce per perpetuare un ceto politico che, nel caso di “Liberi e Uguali” mostra tre baldi quarantenni (Speranza, Fratoianni e Civati) e nemmeno una delle molte compagne di viaggio dopo tante belle parole sulla battaglia di genere (anche il nome declinato al maschile non è una scelta felicissima: forse sarebbe stato meglio “Uguaglianza e Libertà”, non cambia la sostanza ma la forma sì).

La scelta di Grasso è forte perché a disegnarne il profilo sono le tre trincee della sua storia.

La trincea di Palermo, vale a dire la linea del fronte contro la mafia insieme agli altri allora giovani magistrati a fianco di Falcone e Borsellino.

La trincea del senato, un campo di battaglia infuocato, bersagliato dalle cannonate del governo, condannato a morte certa dalla riforma renziana e salvato insieme a tutta la Costituzione dalla vittoria del no, una domenica di giusto un anno fa.

E ora Grasso si butta nella trincea della sinistra, e dal palco dice, a chi lo accompagna con gli applausi, che a lui la parola “radicale” gli piace proprio. Come gli piace l’articolo 3 della Costituzione, perché gli sembra racchiudere un programma perfetto, una bussola sicura per costruire la politica di un futuro che corre veloce. Cogliendo “il vento che sta cambiando” come ha detto Susanna Camusso in piazza contro il governo.

Se dunque è vero che il nuovo si costruisce attraverso un vero cambiamento, è anche vero che dall’Eur è stato lanciato un messaggio forte, che potrebbe rimettere in moto energie, speranze, voglia di esserci.

Proprio per questo si capisce il fuoco di fila appena iniziato: lo spauracchio di D’Alema – che certo non è il nuovo che avanza – è solo un esempio.

Sembra di sentire le parole dei comunisti sovietici che attaccarono – quasi 50 anni fa – il gruppo nascente del manifesto accusandolo di favorire la destra, quel famoso «a chi giova?» che cercò di creare un cordone politico-elettorale preventivo.

Ma questa è la pessima propaganda di certi leader che promettono un milione di posti di lavoro all’anno. Le loro urla adesso cadono nel vuoto.



 

 

 

 

 

Commenta (0 Commenti)

È successo qualcosa, a Sinistra. Finalmente.
La nascita di "Liberi e uguali" è un sasso nello stagno. E davvero si deve guardare con enorme rispetto alla soddisfazione delle migliaia di compagne e compagni che hanno partecipato all'assemblea di Roma.
E c'è un "però". Non è possibile non chiedersi se i milioni che a quel processo non hanno partecipato – i cittadini di sinistra – saranno altrettanto soddisfatti di questa nascita. Al punto di votare in massa per la nuova lista.
Bisogna farlo con delicatezza, per quanto possibile. Perché in un momento così terribile nessuno ha il diritto di uccidere un entusiasmo, per quanto piccolo o magari mal fondato. E perché, è vero: non abbiamo più voglia di prendere atto di fallimenti e insuccessi. "Non facciamo troppo i difficili", pensano in molti: "prendiamo quel che si può, e tiriamo avanti". E poi, nell'Italia di Salvini, Berlusconi, Renzi, quale persona di buon senso e con un cuore normalmente a sinistra potrebbe dare la croce addosso a Civati, Fratoianni, Speranza, o all'ottimo Piero Grasso?
E però. E però non si può tacere. Perché se vogliamo che questa Italia non sia più appunto quella di Salvini, Berlusconi, Renzi, non possiamo continuare a fare quello che si è fatto ieri a Roma: continuare a perdere ogni occasione di svolta.
Perché il succo della vicenda è che tre partiti (due piccoli, uno minuscolo) hanno fatto una lista comune. Hanno costruito un'assemblea dividendosi le quote di delegati. Che sono tutti loro iscritti tranne un piccolissimo numero (meno del 3%, cioè circa 40 sui 1500, cui però si aggiungono altri "interni" al sistema, e cioè quasi 200 membri "di diritto": parlamentari, assessori, sindaci...). Niente di male: ma questa è la cucitura del vecchio, non c'è niente di nuovo. È un progetto fatto per chi è "dentro" la politica, non è un progetto capace

Commenta (0 Commenti)

Ieri il lavoro è tornato ad essere il protagonista in cinque piazze d’Italia. Il lavoro, non solo le pensioni che di una vita al e di lavoro sono il necessario e dovuto coronamento. Perché la Cgil non ha solo chiesto che si evitasse di andare in pensione a 67 anni, unici in Europa; che venissero rispettati gli accordi sottoscritti con il governo un anno fa, con nuove norme per le lavoratrici e per i giovani precari, per «rivedere», almeno, la legge Fornero. Non si è limitata ad aggiungere che bisogna cambiare la legge di bilancio, votata però già al Senato, perché essa elargisce solo sgravi e incentivi alle imprese, riservando bonus discrezionali al popolo, invece di delineare un nuovo tipo di sviluppo fondato sulla ricerca di una piena occupazione.

Ha voluto invece con una mobilitazione, geograficamente distribuita, ma sindacalmente compatta, porre davvero al centro dell’attenzione il tema lavoro, sviscerandolo e articolandolo in tutti i suoi aspetti. In particolare per quanto riguarda i giovani e le donne. Guardando alla qualità del lavoro, alle modalità e ai tempi della prestazione lavorativa, ai diritti offesi e violati ad essa connessi. Di questo hanno parlato le testimonianze e gli esempi riversati nelle piazze dai vari palchi. Il richiamo alla reintegrazione legislativa dell’articolo 18 – tutto intero, non frazioni del medesimo come qualche rappresentante di una incerta sinistra vorrebbe – ha avuto un significato tutt’altro che di routine, ma quello di riprendere in mano uno scudo contro licenziamenti ingiustificati, discriminatori e sempre più numerosi. Che peraltro, se combattuti con intelligenza e determinazione, già ora possono venire respinti da giudici capaci di trovare i sentieri stretti della giustizia in un campo pure dissestato dalla ferocia dell’offensiva neoliberista di questi anni.

Lo riconosceva ieri Maurizio Landini, proprio su questo giornale. La domanda che sorge nelle assemblee e nei cortei è una «Questa volta fate sul serio?». Una domanda semplice e terribile. Che interroga il sindacato, ma non solo. Troppi sono stati i fuochi di paglia. A volte solo flebili fiammelle immediatamente spente. La fiducia delle lavoratrici e dei lavoratori va riconquistata. E quando questa viene incrinata o persa, è cosa veramente dura. Chi ha frequentato i cortei di ieri lo ha visto e sentito. E ancor meglio nelle assemblee che li hanno preceduti. Negli sguardi attenti e preoccupati, ma mai smarriti. Nelle parole e nelle grida, determinate e ferme, ma illuminate da un senso critico che esigeva verifiche concrete. Dai palchi le e i dirigenti sindacali hanno parlato di un inizio di quella che sarà una grande vertenza. Hanno difeso l’autonomia del sindacato dai partiti e dal governo prossimo venturo, qualunque esso sia. In questo quadro acquista un senso non banale anche il tentativo ribadito di ritessere le fila con Cisl e Uil, malgrado il loro vassallaggio nei confronti dell’attuale governo.

Ma l’autonomia sarebbe parola rituale e quindi morta, se non significasse ripresa della conflittualità ad ogni livello. Nelle unità produttive, come nella logistica; sul territorio come nei vari punti che formano la catena del valore; a livello nazionale, quanto, almeno, europeo. Si tratta di ricomporre un mondo del lavoro mutato e frantumato. E il primo passo è conoscere la sua nuova morfologia. Nei nuovi processi di valorizzazione del capitale, il lavoro vivo da un lato viene mortificato nei suoi diritti o contrapposto al lavoro morto, quello incorporato nelle macchine, con cui «industria 4.0» vorrebbe sostituirlo. Dall’altro lato si annida ovunque, in ogni luogo e momento della vita quotidiana delle persone. Mai come in questa fase le paratie fra disoccupazione e occupazione, fra stabilità e precariato, fra età di lavoro e quella della pensione, sono così mobili e sottili da non essere percepibili. Su questo può basarsi la ricerca di una nuova confederalità e di una coalizione sociale che travalichi i confini organizzativi di un sindacato pur rinnovato.

Ma come non vedere come tutto ciò interroghi crudamente la politica. E come la risposta di quest’ultima più che insufficiente risulti squallida. Verrebbe quasi da dire, se non fosse per le argomentazioni appena richiamate, che l’autonomia del sindacato dai partiti è già garantita in negativo, per inconsistenza dei secondi non per succube acquiescenza del primo.

Ma allora questa mobilitazione di lavoratrici e di lavoratori, di giovani disoccupati e precari, di improbabili pensionandi e di pensionati è come un urlo che dovrebbe essere impossibile non udire. Non è solo dal sindacato che si attendono coerenti, combattive e continuative risposte. Ma dalla sinistra politica, quella che non c’è, ma di cui reclamano la ricostruzione le vene aperte di una condizione sociale abbruttita, ma non vinta, da anni di sconfitte e di crisi. Malgrado che il Censis con il suo immaginifico lessico intraveda «una vigorosa ripresa congiunturale»: un ossimoro, visto il senso negativo che solitamente viene dato a quell’ultimo aggettivo.

Ricostruire la sinistra a partire dal lavoro è impresa ancora più difficile, visto l’abisso da cui si parte. Ma è giusto pretendere almeno che alla sinistra del Pd nelle prossime imminenti elezioni si presenti una lista unitaria in totale discontinuità con le politiche degli ultimi governi, di centrodestra come di centrosinistra, denunciati ieri dalla Cgil. Il minimo sindacale, verrebbe da dire.

 

 

Commenta (0 Commenti)