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L'ammazzapersone Un atto di terrorismo

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, foto di Amir Cohen /Ap

Questa è una danza macabra. Per Netanyahu è tutto chiaro, un po’ meno forse per i suoi alleati e i suoi nemici: finché c’è guerra e scorre il sangue lui resta al potere, anche con il sostegno americano e occidentale.

Non deve sbagliare i passi e i tempi. Capiremo nelle prossime ore – a partire del discorso di oggi del capo di Hezbollah Nasrallah – se la strage con i cercapersone, e ieri anche con i walkie talkie, in Libano e Siria è stata condotta con il lucido e criminale raziocinio che di solito guida le sue mosse. Il premier israeliano non vuole nessuna tregua a Gaza e nella regione, dove i palestinesi ricordano l’anniversario del massacro di civili di Sabra e Shatila a Beirut del 18 settembre 1982. In questa estate di sangue Netanyahu ha sempre respinto il piano di Biden presentato il 31 maggio scorso. E anche se lo accettasse, con Hamas disposto a concordare la presenza militare israeliana per un certo periodo di tempo, troverebbe sicuramente il modo di farlo saltare con una provocazione, in ogni momento.

Ma Gaza non basta e ha bisogno di una guerra più ampia ai confini con il Libano e forse anche con l’Iran per restare in sella almeno fino all’insediamento, l’anno prossimo, del nuovo presidente americano e oltre. In realtà ha pronta la giustificazione: il rientro di oltre 60mila sfollati israeliani dall’Alta Galilea – quando mai torneranno dopo quest’ultimo spettacolo di sangue in Libano? Così come la presenza degli ostaggi a Gaza per lui non sono una ragione per salvarli con un negoziato ma la motivazione per continuare la guerra. Al premier israeliano non interessa salvare la vita di nessuno ma soltanto muovere anche gli israeliani come pedine del suo potere.

Una guerra ampia in Libano e contro l’asse sciita formato con Teheran, la Siria, le milizie irachene e gli Houthi yemeniti costringerebbe gli Usa e l’Occidente a schierarsi con lui. Certo Netanyahu ha fatto di tutto per avere un conflitto allargato. L’assassinio da parte di Israele di un importante capo militare di Hezbollah, Fuad Shukr, a Beirut, quello a Teheran di Ismail Haniyeh, il capo negoziatore di Hamas, hanno segnato la violazione di tutte le “linee rosse”.

Ma che hanno fatto gli Stati uniti per evitare di essere trascinati in un conflitto in pieno anno elettorale? Sul tavolo è rimasto un piano Biden in cui credono ormai in pochi. Ma soprattutto gli Usa hanno continuato a consegnare al governo israeliano miliardi di dollari di armi e di aiuti. Invece di frenare Netanyahu lo hanno incoraggiato.

La danza macabra di Netanyahu non è soltanto un tragico passo a due, tra il premier e il cosiddetto “asse della resistenza”. Coinvolge con vari interessi tutti gli stati della regione. Un Paese della Nato come la Turchia che ospita gli uffici di Hamas. E altri alleati dell’Occidente, comprese quelle monarchie arabe che Washington vuole arruolare tutte nel Patto di Abramo (voluto da Trump e proseguito da Biden), in primo luogo l’Arabia saudita, custode dei luoghi sacri dell’Islam: una sconfitta della coalizione sciita sarebbe il via libera anche per l’adesione di Riad.

Ma l’”asse della resistenza” vuole davvero un conflitto regionale? Finora i segnali che sono venuti da Beirut e Teheran hanno indicato il contrario. Gli Hezbollah, in un Libano diviso e avviluppato nella crisi economica, propendono per continuare una guerra di logoramento ai confini con Israele, i vertici iraniani sanno che un conflitto allargato potrebbe costituire una minaccia alla stessa sopravvivenza del sistema degli ayatollah e della repubblica islamica. Ma c’è un problema, come ha osservato il giornalista israeliano Nahum Barnea su Yedioth Ahronot: «L’obiettivo principale di Netanyahu è trascinare il governo americano in una guerra contro l’Iran come sta cercando di fare dal 2010. È la missione della sua vita quella che può garantirgli un posto nella storia e la vittoria totale».

Per il momento possiamo osservare che dopo il massacro compiuto da Hamas il 7 ottobre, il premier israeliano un posto nella storia se lo è guadagnato come il responsabile di una delle guerre più sanguinose di questo inizio secolo. Secondo Haaretz il bilancio delle vittime a Gaza, oltre 45 mila per ora, ha condotto all’eliminazione di oltre il 2% della popolazione in meno di un anno. Per fare un confronto, la guerra di Siria (2011-2024) ha causato 400mila morti, pari al 2% dei suoi abitanti. Quanto agli americani che attaccarono l’Iraq il 20 marzo del 2003, quella guerra, secondo uno studio della Brown University che calcola la durata fino al 2020, ha causato tra 550mila e 584mila morti, circa il 5% della popolazione irachena. Come iniziò quel conflitto dovrebbero ricordarlo tutti. Con un gesto teatrale all’Onu, quando il segretario di stato Usa mostrò una fiala in cui era contenuta una polvere bianca: era la prova che Saddam Hussein possedeva armi di distruzione di massa che non furono mai trovate.

Tutto cominciò, dunque, con una menzogna. Ora dobbiamo soltanto aspettare con quale menzogna Netanyahu, gli americani e pure noi europei, accetteremo e giustificheremo di dare il via all’ultima danza macabra del Medio Oriente