Accedi Registrati

Login to your account

Username *
Password *
Remember Me

Create an account

Fields marked with an asterisk (*) are required.
Name *
Username *
Password *
Verify password *
Email *
Verify email *

La qualità dei servizi pubblici locali racconta molto della civiltà di un Paese. Il benessere non si misura solo in termini di prodotto interno lordo o di ricchezza privata; e in Italia come altrove, dal sistema dei servizi pubblici locali – acqua, energia, rifiuti, trasporti… – dipende non meno che dal lavoro e dal reddito la qualità della vita quotidiana di 60 milioni di cittadini.

Per questo, il ruolo strategico del settore va sottolineato e rivendicato. E la politica, sembra paradossale ricordarlo in questi giorni di campagna elettorale così rissosi e poveri di contenuti sostanziali, dovrebbe riconoscere e indicare tra le sue priorità l’obiettivo di offrire ai cittadini, da nord a sud, servizi pubblici locali di qualità e accessibili a tutti.

Non è retorica. Perché sono i fatti a raccontarci che in Italia a una ragguardevole ricchezza privata, distribuita peraltro in modo sempre più disuguale, corrisponde troppo spesso “miseria pubblica” e sottovalutazione dell’importanza dei beni comuni. E a dirci, anche, che tra le diseguaglianze che minano alla radice l’idea stessa di cittadinanza vi sono profonde differenze di “standard” e di accessibilità dei servizi pubblici.

Allora un primo punto da affermare con forza – al centro del programma di Liberi e Uguali e assente dalle proposte degli altri schieramenti – è che i servizi locali devono essere e rimanere pubblici perché solo così possono essere davvero “universali”, e che per essere socialmente efficaci devono essere, anche, economicamente efficienti. Insomma, ciò che i referendum del 2011 hanno sancito per l’acqua “bene comune” deve valere a 360 gradi.

Le imprese che forniscono i servizi pubblici locali sono un elemento costitutivo e imprescindibile del nostro sistema di welfare e sono una parte rilevante dell’economia italiana: danno lavoro, generano innovazione e investimenti, condizionano l’efficienza di quasi tutti gli altri comparti produttivi. E’ necessario salvaguardare una forte e qualificata presenza pubblica nei loro assetti proprietari, contrastando approcci demagogici che continuamente ripropongono l’idea, del tutto infondata, che solo “privato è bello”.

Così, semplicemente, non è, basta vedere gli innumerevoli esempi anche italiani di servizi pubblici locali, dall’acqua ai rifiuti, privatizzati e malfunzionanti.

Questo non significa che la politica abbia sempre fatto bene ai servizi pubblici locali: al contrario, tante volte li ha usati e li usa in modo del tutto improprio, come strumenti di clientelismo e di raccolta di consenso. Invece all’Italia serve un’industria dei servizi pubblici forte, organizzata, ben regolata, orientata alla qualità ambientale, capace di produrre investimenti e innovazione e di affrontare le sfide della transizione energetica, dell’economia circolare, dei cambiamenti climatici, della rigenerazione urbana e delle smart city.

Insomma, i servizi pubblici devono essere tra i temi centrali di una credibile agenda di governo, a cominciare dalla necessità di un forte rilancio degli investimenti per la realizzazione di impianti per il trattamento e il recupero dei rifiuti, per l’ammodernamento delle infrastrutture idriche, per il potenziamento del trasporto pubblico urbano e pendolare, per l’efficienza energetica. Da questo dipende in una misura non piccola la possibilità che l’Italia torni davvero a crescere: non solo e non tanto nel Pil, ma nel benessere, nella qualità sociale, nella fiducia verso il futuro.

* Candidata Liberi e Uguali

 

Commenta (0 Commenti)

L’onda nera che riporta a galla la violenza xenofoba e fascista può stupire solo chi non vede l’avvelenamento di una campagna elettorale dominata dal tema della sicurezza, annaffiata ogni giorno con dosi massicce di odio contro gli emarginati.

Un diffuso sentimento di paura è la benzina sparsa a piene mani da una destra che aspira al governo del paese, che fa immaginare a milioni di italiani, impoveriti e impauriti, di potergli cambiare la vita ingaggiando una battuta di caccia nazionale contro altri poveri diseredati ma con un diverso colore della pelle.

Questo vento di destra che attraversa l’Europa, in Italia è alimentato da politici di primo piano come Berlusconi, Salvini e Meloni, veri e propri «imprenditori della paura», secondo la definizione felice e anticipatrice del sociologo francese Pierre Musso che la coniò ormai dieci anni fa.

Con l’accoltellamento di un ragazzo a Perugia mentre affiggeva i manifesti elettorali di Potere al popolo, con la svastica a Roma sulla lapide di Moro, con l’irruzione di Forza Nuova negli studi del programma di Giovanni Floris, e con il pestaggio a Palermo di un dirigente di estrema destra, questa istigazione alla violenza è passata dalle parole ai fatti. E rapidamente, dall’irruzione, a novembre, degli skinead di Como nella sede di un’associazione per i migranti, al fascioleghista di Macerata armato di pistola per il tiro al bersaglio contro i neri, le organizzazioni di estrema destra chiedono e ottengono le piazze per i loro comizi, alimentando un clima di alta tensione.

Le leggi italiane vietano la ricostituzione del partito fascista, ma questi gruppi sono ben attenti a presentare liste e simboli evitando di nominare il fascismo, così da essere ammessi alla campagna elettorale come tutti gli altri. Salvo poi andare nel salotto di Porta a Porta e rivendicare, come ha fatto Simone Di Stefano, segretario di Casapound: «Siamo eredi dell’esperienza del fascismo, della Rsi e del Msi».

E dunque non bisogna contrastarli su loro stesso piano, cadendo così nella trappola degli «opposti estremismi», cioè replicando una sceneggiatura che purtroppo abbiamo già vissuto. Presidi e manifestazioni sono l’antidoto giusto per contrastarne i rigurgiti e impedirgli di camuffarsi nei panni delle vittime.

Ha ragione Laura Boldrini quando condanna la brutale aggressione ai danni di un esponente di Forza Nuova a Palermo, invitando a non usare l’antifascismo per giustificare azioni violente perché, dice la presidente della camera, «l’antifascismo è una cultura di pace». Ha ragione il presidente del senato Grasso quando avverte che «l’odio politico sta divorando il paese e per evitare il morto non bisogna aspettare oltre».

Bisogna reagire ai fascisti che rialzano la testa in modo democratico, come a Macerata, come a Bologna. Occupando le piazze con cortei e manifestazioni pacifiche. Altro che abbassare i toni, come invita a fare il Pd. Altro che invitare i cittadini a chiudere negozi e scuole per starsene a casa, come ha fatto il sindaco di Macerata, provocando l’annullamento di una presenza forte già organizzata da Anpi, sindacati e forze di sinistra. Quelle stesse organizzazioni che sabato saranno in piazza a Roma, questa volta anche con il Pd che ora cerca di cavalcare stantii richiami all’ordine pensando di lucrarne qualche voto.

Renzi porta in tourné il ministro dell’interno come l’uomo forte contro gli immigrati, nel tentativo di incassare qualche voto destinato ai leghisti di Salvini. Ma c’è da dubitare sul successo dell’operazione. Perché è proprio nelle periferie, nei territori di maggiore disagio che il partito di Renzi in questi anni ha conosciuto il grande esodo sociale. E perché tra la brutta copia e l’originale, è sempre l’originale ad avere la meglio.

 

 

Commenta (0 Commenti)

Perugia, militante di Potere al popolo accoltellato
Grasso: “È odio politico, non si aspetti il morto”

Un militante di Potere al popolo accoltellato mentre attaccava manifesti elettorali a Perugia. Poche ore prima il dirigente di Forza Nuova legato e picchiato a sangue in centro a Palermo. Nella notte le scritte “A morte le guardie” e una svastica sulla lapide di via Fani dove il 16 marzo 1978 venne rapito Aldo Moro e uccisi gli uomini della sua scorta. A meno di due settimane dalle elezioni politiche del 4 marzo, la cronaca racconta di un clima di tensione crescente. “Palermo, Perugia, Roma: l’odio politico che sta divorando il Paese ribolle da troppo tempo”, dice il presidente uscente del Senato

 di F. Q.
Commenta (0 Commenti)

Verso le elezioni. Cortei e sit-in pacifici di movimenti, associazioni, studenti e centri sociali contro il comizio di Forza nuova caricati per tutto il giorno dalla polizia. In presidio anche Pd e Leu, Cgil e Libera

 

Scontri tra polizia e antifascisti in vista del comizio di Forza Nuova a Bologna

La Prefettura aveva garantito che a tutti sarebbe stato permesso di manifestare, e così è stato. A Bologna ieri sera il numero di Forza Nuova Roberto Fiore ha potuto predicare la sua «rivolta nazionale» e presentare i suoi candidati alle elezioni politiche. Trenta camerati trenta ad ascoltarlo nella centralissima piazza Galvani – e si è visto anche qualche saluto fascista – centinaia di agenti schierati a difendere la libertà di parola del leader di un partito che ha difeso e giustificato l’attentatore fascista di Macerata Luca Traini.

A contestare Fiore e il fascismo migliaia di persone in città, con due presidi differenti, un sit-in, un corteo e un’occupazione lampo della piazza dove Fiore ha poi parlato, un blitz antifascista finito con le manganellate dei poliziotti che hanno cacciato i manifestanti.

A risuonare in più parti della città è stata un’unica canzone, «Bella ciao».

Ha risposto così Bologna all’arrivo di Forza Nuova in città, con iniziative diverse che tutte hanno detto «no» al fascismo.

A cominciare dai manifestanti dei centri sociali cittadini (Xm24, Crash, Tpo, Làbas, Vag61) che alle 13 si sono presentati in un centinaio in Piazza Galvani, promettendo una resistenza ad oltranza per impedire l’arrivo di Fiore. «Vogliono far parlare Fiore? Gli spostino il comizio da un’altra parte», aveva suggerito qualcuno.

Le cose sono andate diversamente, la polizia si è presentata in forze e ha sgomberato la piazza a manganellate. Tra i manifestanti quattro feriti, tra gli agenti un contuso.

A far spostare il comizio elettorale di Fiore ci aveva provato anche il Comune, ma senza successo.

Altre manganellate sono arrivate nella serata, quando di nuovo il corteo dei centri sociali, in tutto quasi mille persone, ha cercato di avvicinarsi alla piazza dove Fiore stava parlando.

Sono entrati in funzione gli idranti della polizia, poi altre manganellate e i lacrimogeni mentre dalla pancia del corteo volavano petardi, bottiglie e altri oggetti verso gli agenti. Due i fermati (poi rilasciati) dopo la carica della polizia, lievi ferite per un agente e sei manifestanti.

Nel pomeriggio sono state invece centinaia le persone che hanno risposto all’appello antifascista di Anpi, Arci, Cgil e Libera. A partecipare anche il Pd e Liberi e Uguali.

«La Lega è complice dei teppisti fascisti»Virginio Merola

In piazza anche il sindaco Merola, che ha preso di mira il leghista Salvini: «Il suo partito è complice dei teppisti fascisti». Al presidio indetto sotto il Sacrario dei partigiani sono passati in tanti. Dai deputati Pd ai leader di Liberi e Uguali. «Abbiamo già visto tante volte come reagire a rigurgiti fascisti, fenomeni terroristici: lo abbiamo sempre fatto andando in piazza e andandoci tutti insieme. La strada è ancora quella», ha detto Pierluigi Bersani.

«Pensare di affrontare la questione democratica senza affrontare quella sociale è un errore serio. In ogni caso prima di dare la piazza a Forza Nuova bisogna pensarci due o tre volte»Pierluigi Bersani

Ma non basta, ha aggiunto Bersani, «perché c’è una destra regressiva e parafascista che sta raccogliendo consensi nel paese, laddove c’è rabbia e disagio. Bisogna che la sinistra vada lì, perché pensare di affrontare la questione democratica senza affrontare quella sociale è un errore serio. In ogni caso prima di dare le piazza a Forza Nuova bisogna pensarci due o tre volte».

A chiedere una legge per impedire a Forza Nuova di ripresentarsi di nuovo alle elezioni è stato invece Vasco Errani. «Parliamo di un partito chiaramente fascista e che non ha legittimità, né elettorale né di piazza». A chi gli chiedeva dello sgombero degli antifascisti Errani ha risposto così: «C’è qualcosa che non va».

Gli ultimi fuochi della giornata antifascista bolognese si sono visti alle 20, dopo le manganellate sul corteo antifascista un gruppo di studenti ha improvvisato un sit-in andato avanti fino alle 21.

A dividere il corteo dagli agenti guidato dai centri sociali una ventina di giovanissimi, alcuni liceali, altri iscritti al primo anno d’università. «Sono antifascista ma non accetto la violenza da nessuna parte», ha detto un ragazzo di 19 anni. «Gli agenti non ci devono fare paura – ha urlato una 17 enne – non importa che abbiano camionette e manganelli, siamo pacifici e non ci possono passare sopra».

A prendere la parola anche Insaf Dimassi, uno dei volti noti del movimento Italiani senza Cittadinanza, che ha lottato invano per l’approvazione della legge sullo ius soli. «Noi siamo dalla parte giusta, dobbiamo difendere la nostra democrazia».

«Faccio un appello a Bologna, non fatevi rappresentare da questi 20 figli di papà che non sono antifascisti»Matteo Salvini

A prendere la parola su quanto successo anche Salvini, bersaglio polemico di molti manifestanti che lo hanno accostato più volte a Forza Nuova e a Casa Pound. «Faccio un appello a Bologna, città dotta, dei poeti, dei cantautori, non fatevi rappresentare da questi 20 figli di papà che non sono antifascisti. Chi usa la violenza per fare politica è un fuorilegge», queste le parole del leader leghista.

A dare solidarietà alle forze dell’ordine tutta la destra inclusa Valentina Castaldini, alfaniana candidata nella lista Civica Popolare di Lorenzin e Casini, ora alleati di ferro del Partito democratico. «La retorica dell’antifascismo è solo una superata bandiera ideologica dietro cui collettivi e centri sociali nascondono la loro frustrazione», ha detto Castaldini, forse non accorgendosi delle migliaia di persone che a Bologna ieri hanno scelto di scendere in piazza.

 

 

Commenta (0 Commenti)

Scaffale. «Il diritto a un reddito di base» di Giuseppe Bronzini, edito da Abele. La riduzione quantitativa dell'occupazione, la sua intermittenza e volatilità, non sono un malfunzionamento correggibile del sistema economico, ma la sua realtà sistemica

Durante le campagne elettorali la discussione attorno al reddito garantito è solita toccare livelli infimi, qualunque sia la forma o l’estensione nelle quali la proposta di un reddito di base venga formulata. Nel regno del pregiudizio e dei luoghi comuni lo spazio per le argomentazioni razionali è ridotto al minimo. Cosicché, messo da parte ogni sguardo d’insieme sulla struttura della società in cui viviamo e sui modi in cui essa produce e si riproduce, per non parlare delle sue tendenze di sviluppo, è un moralismo ottuso e stantio a dettare le regole del gioco.

OSCILLANDO tra la denuncia di una presunta «incentivazione dell’ozio» e l’imperativo di dare una mano ai poveri e agli esclusi, purché versino in condizioni di indigenza estrema e incolpevole e si mostrino, soprattutto, meritevoli e grati dell’aiuto che il potere pubblico vorrà loro concedere. Un moralismo che poggia fondamentalmente su due elementi. Il primo consiste in una idealizzazione del passato (il mondo semplice e operoso dell’industrializzazione e del lavoro salariato); il secondo in quel diffuso risentimento che spinge gli uni contro gli altri a misurare e rinfacciarsi vicendevolmente presunti vantaggi e privilegi ottenuti senza sforzo. A completare il quadro, la giostra delle rilevazioni statistiche che vanamente si sforzano di dimostrare la ripresa dell’occupazione e di alludere, dunque, a un futuro ritorno del lavoro per tutti, o almeno per i più.
Per sottrarsi a questo miserevole contesto, converrà ricondurre la questione del reddito di base al suo reale spessore, alla sua storia e a un’analisi rigorosa delle trasformazioni che negli ultimi decenni hanno investito il modo di produzione e le forme di vita nel mondo dell’economia globalizzata e nelle sue articolazioni.

È QUANTO SI PROPONE Giuseppe Bronzini, nel suo recente Il diritto a un reddito di base (edizioni Gruppo Abele, pp.160, euro 12) che, in poche pagine ampiamente documentate, ricostruisce la storia e le ragioni di fondo del reddito di base, prende in esame la letteratura più recente sull’argomento, le iniziative politiche e le proposte legislative oggi in discussione in Italia e in Europa.
Il primo capitolo del libro si apre con una citazione di Jacques Le Goff che, se pur specificamente riferita all’automazione, illumina in generale il rapporto tra le categorie politiche dominanti e la realtà sociale: «Gli uomini si servono delle macchine che inventano conservando la mentalità dell’epoca precedente a queste macchine».

PER IL MERCATO del lavoro, per il welfare agisce esattamente questo stesso scarto tra ciò che non più vero, resta tuttavia vigente. Non si tratta però di qualcosa di innocuo e inconsapevole. Quella «mentalità precedente» corrisponde infatti a rapporti di potere e strumenti di dominio che intendono conservarsi contro le potenzialità che l’innovazione potrebbe offrire.

COSÌ IL LAVORO reso superfluo o rarefatto dall’automazione e dalle nuove forme di organizzazione produttiva non deve tradursi in uno spazio a disposizione di attività libere e autorganizzate, ma in un bacino di soggettività dipendenti, ricattabili, in perenne attesa di «inclusione» ai gradini più bassi della gerarchia sociale. Ecco perché in gran parte delle proposte di sostegno al reddito oggi in discussione l’elemento del controllo, della sanzione, della coazione al lavoro come valore in sé, prevale e sovrasta la libertà di scelta del singolo. Secondo un disegno prescrittivo, pateticamente affidato ai burocrati del pubblico impiego, chiamati a progettare «la vita degli altri».
I diversi progetti di reddito di «inserimento», di «inclusione», o di «dignità», limitati nel tempo e fortemente condizionati, muovono dal comune presupposto che la riduzione quantitativa del lavoro richiesto, la sua intermittenza e volatilità, costituiscano un malfunzionamento correggibile del sistema economico e non la sua realtà sistemica.
Così, i soggetti impoveriti, niente affatto «esclusi» ma pienamente inseriti in questa dimensione strutturale, vengono immaginati come figure incomplete, irrisolte, che devono essere accompagnate a realizzarsi nella dimensione «normale» e obbligatoriamente desiderabile del lavoro stabile a tempo indeterminato, sola condizione di solidi diritti e sicure tutele. Laddove è invece la realtà che il lavoro autonomo e intermittente vive concretamente a dover essere riempita di diritti e possibilità. A partire dalla garanzia di un reddito di base che la sottragga alla debolezza ricattabile in cui oggi versa. È su questo metro che Bronzini misura le diverse politiche di «riforma» in Italia, dal Jobs Act al Rei, e in Europa, dall’ormai lontana Carta di Nizza alle recenti proposte della Commissione sull’
European social pillar.

L’AUMENTO DELLA POVERTÀ, anche tra quanti sono inclusi nelle reti produttive, il carattere strutturale della disoccupazione e della sottoccupazione, il numero crescente di individui cui il vecchio welfare, nonché un’architettura dei diritti costruita su base corporativa, non offrono ormai alcuna tutela, costituiscono un quadro che nessuno può più negare.
Ma la partita, politico-culturale prima ancora che economico-finanziaria, su come reagire a questa innegabile situazione, sul ruolo strategico del basic income, è tutta aperta. E il terreno più conveniente per giocarla è quello dell’Unione europea nella dimensione transnazionale dei processi di trasformazione e nella necessità urgente di colmare il deficit sociale della costruzione europea.

L’autore Giuseppe Bronzini parteciperà oggi all’incontro dal titolo «I love dignità/Reddito minimo garantito» organizzato dalla Rete dei Numeri Pari alla Casa Internazionale delle Donne (in via della Lungara 19 a Roma, dalle 10 alle 16) e domani sarà alla Fnsi, alle ore 11.

 

 

 

 

Commenta (0 Commenti)

da "il Manifesto" del 11-02-2018

Macerata ritorna umana. Nonostante il coprifuoco di un sindaco dal pensiero corto, che ne ha reso spettrale il centro storico. Nonostante il catechismo sospeso e le chiese chiuse da un vescovo poco cristiano. Nonostante gli allarmi, i divieti, le incertezze della vigilia. Nonostante tutto.
Un’umanitá variopinta, consapevole e determinata, l’ha avvolta in una fiumana calda di vita, ritornando nei luoghi che una settimana prima erano stati teatro del primo vero atto di terrorismo in Italia in questo tormentato decennio. Un terrorismo odioso, di matrice razzista e fascista, a riesumare gli aspetti più oscuri e vergognosi della nostra storia nazionale.
Era un atto dovuto. La condizione per tutti noi di poter andare ancora con la testa alta. Senza la vergogna di una resa incondizionata all’inumano che avanza, e rischia di farsi, a poco a poco, spirito del tempo, senso comune, ordine delle cose.
Un merito enorme per questo gesto di riparazione, va a chi, fin da subito, ha capito e ha deciso che essere a Macerata, ed esserci in tanti, era una necessità assoluta, di quelle che non ammettono repliche né remore. A chi, senza aspettare permessi o comandi, nonostante gli ondeggiamenti, le retromarce, le ambiguità dei cosiddetti «responsabili» delle «grandi organizzazioni», si è messo in cammino. Ha chiamato a raccolta. Ha fatto da sé, come si fa appunto nelle emergenze.
Il Merito va ai ragazzi del Sisma, che non ci hanno pensato un minuto per mobilitarsi, alla Fiom che per prima ha capito cosa fosse giusto fare, ai 190 circoli dell’Arci, alle tante sezioni dell’Anpi, a cominciare da quella di Macerata, agli iscritti della Cgil, che hanno considerato fin da subito una follia i tentennamenti dei rispettivi vertici.
Alle organizzazioni politiche che pur impegnate in una campagna elettorale dura hanno anteposto la testimonianza civile alla ricerca di voti. Alle donne agli uomini ai ragazzi che d’istinto hanno pensato «se non ora quando?». Sono loro che hanno «salvato l’onore» di quello che con termine sempre più frusto continua a chiamarsi «mondo democratico» italiano impedendo che fosse definitivamente inghiottito dalla notte della memoria. Sono loro, ancora, che hanno difeso la Costituzione, riaffermandone i valori, mentre lo Stato stava altrove, e contro.
Tutto è andato bene, dunque, e le minacce «istituzionali» della vigilia sono alla fine rientrate come era giusto che fosse.
Il che non toglie nulla alle responsabilità, gravi, di quei vertici (della Cgil, dell’Arci, dell’Anpi…) solo parzialmente emendate dai successivi riaggiustamenti.
Gravi perché testimoniano di un deficit prima ancora che politico, culturale. Di una debolezza «morale» avrebbe detto Piero Gobetti, che si esprime in

Commenta (0 Commenti)