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E' appena trascorso un altro 12 dicembre. 48 anni dopo quel 12 dicembre 1969: un giorno che segnò profondamente un'intera generazione e la storia d'Italia del dopoguerra.
Ho letto in rete di tutto sull'attentato di piazza Fontana. Fra balle e fantasiose ricostruzioni, quale memoria abbiamo trasmesso alle generazioni successive? Quello che resta nel migliore dei casi è una vicenda confusa e contraddittoria e il luogo comune irresponsabilmente o dolosamente propalato per cui "non sapremo mai la verità".
Eppure non è così, proprio non è così: la verità si conosce, eccome! E' addirittura una verità giudiziaria, anche se i responsabili non sono stati puniti. Ce lo ricorda efficacemente Guido Salvini, un magistrato coscienzioso che ha fatto il suo mestiere rifuggendo da ogni sovraesposizione mediatica, in questo articolo apparso ieri su "Il Fatto quotidiano".
Riferisce Salvini che:
Carlo Digilio "non solo un ordinovista, ma un informatore dei servizi di sicurezza interni alle basi americane del Veneto" fu "partecipe alla fase organizzativa della strage e alla preparazione dell’esplosivo",
"Ordine nuovo è l’artefice della strage di piazza Fontana",
su "Freda e Ventura è stata raggiunta, con i nuovi elementi raccolti, la prova “postuma” della loro colpevolezza",
"la direzione del Sid a Roma nella persona del generale Maletti, vicecapo del Servizio" ha operato "una soppressione di prove in piena regola",
Tutte verità contenute in sentenze passate in giudicato: furono i fascisti con la copertura dei servizi segreti italiani e sotto l'occhio benevolo della CIA.
Alessandro Messina

Da “Il Fatto Quotidiano” del 12 dicembre 2017
Piazza Fontana, sappiamo la verità

di Guido Salvini (Magistrato a Milano)
Le indagini milanesi degli anni Novanta sulla strage di Piazza Fontana non sono state affatto inutili. Anche le sentenze di assoluzione hanno una “virtù segreta” e cioè scrivono esplicitamente cose chiare. Scrivono che colpevole era Carlo Digilio e partecipe alla fase organizzativa della strage e alla preparazione dell’esplosivo, e infatti la sua sentenza di estinzione del delitto per prescrizione pronunciata in primo grado in ragione della sua collaborazione non è stata più toccata dalle sentenze successive. Scrivono che l’ideazione e l’esecuzione della strage era sicuramente riferibile alle cellule di Ordine nuovo del Veneto e che nei confronti di Freda e Ventura è stata raggiunta, con i nuovi elementi raccolti, la prova “postuma” della loro colpevolezza, non essendo essi più giudicabili perché assolti per insufficienza di prove nei processi precedenti.
Quindi Ordine nuovo è l’artefice della strage di piazza Fontana così come degli attentati che l’hanno preceduta, quelli iniziati in progressione dall’aprile 1969, per i quali i suoi esponenti sono già stati condannati con le sentenze di Catanzaro e di Bari. È questa la base minima, almeno sul piano storico, su cui discutere. Se vi siano altre responsabilità concorrenti, in alto o in basso, per ora non lo sappiamo. Ma questo sì. Addirittura dopo la sentenza sono emersi elementi di accusa nuovi a carico della cellula padovana come l’esistenza, raccontata da un militante che ne faceva parte, Gianni Casalini, in un lungo racconto reso poco prima di morire, di un arsenale, con esplosivi, del gruppo alla periferia di Padova. Tale arsenale è tuttora esistente, sotto alcune villette costruite in seguito. Casalini ha anche narrato di aver partecipato

personalmente, inviato dalla cellula padovana, a due dei dieci attentati ai treni della notte dei fuochi dell’8 agosto 1969 alla stazione Centrale di Milano.
Casalini aveva rivelato spontaneamente a funzionari del Sid di Padova, già a metà degli anni Settanta, molto di quello che aveva commesso la cellula padovana. Ma la direzione del Sid a Roma nella persona del generale Maletti, vicecapo del Servizio, aveva impedito che tali informazioni giungessero alla magistratura, dando esplicite disposizioni al livello periferico di Padova di “chiudere la fonte”, come risulta da un manoscritto sequestrato nell’abitazione del generale Maletti nel 1980. Una soppressione di prove in piena regola.
Vorrei ricordare un aspetto che riguarda gli obiettivi strategici della strage. Vincenzo Vinciguerra, nella ricostruzione della sua militanza in Ordine nuovo, ha richiamato per la prima volta l’attenzione sull’adunata che era stata indetta dal Msi per domenica 14 dicembre 1969 a Roma e che, con grande enfasi, nelle settimane precedenti era stata pubblicizzata come “appuntamento con la Nazione”. Vinciguerra ha spiegato che l’adunata e la scelta della sua data erano collegate a quanto era previsto avvenisse due giorni prima. Quarantotto ore dopo la strage di Milano e le bombe di Roma, un lasso di tempo giusto per far montare al massimo la tensione, Roma sarebbe stata piena di militanti di destra in assetto di scontro che invocavano interventi contro la sovversione. Sarebbe bastata una scintilla per far scoppiare incidenti incontrollabili, assalti alle sedi di sinistra, reazioni di quest’ultima, scontri con la polizia, magari con morti tra le forze dell’ordine, e per rendere inevitabile la dichiarazione dello stato di emergenza, obiettivo prefissato dopo la strage. Tuttavia, il 13 dicembre, quando gli ordinovisti arrivati da ogni parte d’Italia erano già a Roma, il ministro dell’Interno aveva vietato la manifestazione e il tentativo di innescare gravissimi disordini fallì.
Uno degli elementi di maggiore novità dell’indagine è stato certamente il racconto del collaboratore Carlo Digilio, che ha narrato di essere stato non solo un ordinovista, ma un informatore dei servizi di sicurezza interni alle basi americane del Veneto, in particolare quella di Verona, dalle quali entrava e usciva relazionando sulle attività della sua cellula. In questo doppio ruolo, riferiva agli ufficiali americani suoi referenti dei progetti di attentati di Ordine nuovo e otteneva risposte che potremmo definire “tranquillizzanti”. In sostanza, certe azioni andavano bene perché servivano a mantenere un “giusto” grado di tensione. L’atteggiamento dei servizi di sicurezza americani, che non avevano comunque disdegnato di rifornire anche di armi la cellula ordinovista veneta, potrebbe quindi essere definito di “controllo senza repressione”. Un atteggiamento se non di ispirazione di una strategia, certo di accettazione, e ovviamente senza informare le autorità italiane. Questo ruolo di “osservatori benevoli”, al limite della cobelligeranza, in eventi via via più gravi ricoperto dai nostri alleati fa entrare in un piano di realtà quello che sembrava solo uno slogan da bollettino di controinformazione: strage di Stato con colpe della Cia.