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da Huffington Post

"Liberi e uguali" e le lezioni del "Brancaccio": il bisogno di un nuovo partito della sinistra

07/12/2017
di Antonio Floridia Politologo

La nascita di "Liberi e uguali" è una "grande occasione mancata", come ritiene Tomaso Montanari? E perché il "percorso del Brancaccio" si è interrotto? Forse occorre riflettere meglio su quanto accaduto veramente a sinistra in queste ultime settimane. Una lettura ricorrente, ma troppo semplicistica, si fonda sull'idea che i "partiti" abbiano soffocato nella culla un promettente risveglio della "società civile". Ma è così? Certo, si possono cogliere vari limiti nel processo avviato domenica scorsa: ma questi limiti non nascono dall'invadente presenza dei partiti: al contrario, sono legati a un dato di fatto, l'assenza di un partito degno di questo nome. Di più: le potenzialità di questo progetto potranno svilupparsi solo se – in tempi ragionevoli – riesce a prender corpo l'idea di un nuovo partito della sinistra.
Il percorso del Brancaccio si è arenato, a mio parere, perché si fondava su un'erronea contrapposizione tra "società civile" e "politica". Il presupposto è che esistesse una diffusa, ma inespressa propensione ad un'intensa e vibrante "partecipazione dal basso": ma, molti lo potranno testimoniare, le assemblee del "Brancaccio" erano fatte in larghissima parte da "militanti e reduci", provenienti dalle mille storie della sinistra. Rispettabilissime persone, beninteso: ma a che titolo le possiamo definire come espressione della "società civile"? Possiamo farlo, certamente, ma nella stessa identica misura in cui possiamo definire tali le tante persone che hanno affollato, in queste stesse settimane, per esempio, gli incontri con Bersani o D'Alema: persone senza più appartenenza di partito, che sperano di trovare una nuova casa politica . Gli uni e gli altri sono, allo stesso titolo, "apolidi di sinistra" o - per dirla con il Manzoni - "un volgo disperso che nome non ha...", a cui – nell'approssimarsi delle elezioni – occorreva dare una qualche prospettiva politica.
Possiamo cogliere alcuni "vizi d'origine" nell'idea di "partecipazione dal basso" che ha ispirato il Brancaccio. In un loro intervento, nel tentativo di riaprire un cammino unitario, Falcone e Montanari proponevano "un'assemblea in cui migliaia di persone presenti fisicamente, e altre migliaia sulla rete, possano votare a suffragio universale su programma, leadership, criteri delle candidature, comitati etici e di garanzia" (18 novembre): un vasto programma, senza dubbio; ma era un'idea di partecipazione realistica e praticabile? E poi, a ben guardare, cos'altro descrive tutto questo

(programmi, leadership, candidature...) se non i compiti propri di un "partito"? Con un "piccolo" ma decisivo problema: si può fare tutto questo solo se esiste una base associativa ben definita, chiamata a pronunciarsi sulla base di legittime procedure, in cui agiscano meccanismi tipici di una democrazia rappresentativa. Si poteva dire questo delle belle, generose, ma assolutamente casuali assemblee del Brancaccio? Chi partecipava e chi avrebbe deciso? Quelli che si trovavano a passare di lì? Quelli che avevano tempo e risorse per andare a Roma? O forse, come più probabile, una qualche minoranza organizzata? È qui che va cercato il "baco" del "Brancaccio". Tant'è che poi, nel motivare l'annullamento dell'assemblea nazionale, si doveva riconoscerlo: "non c'erano più le condizioni di sicurezza", dichiarava Anna Falcone in un'intervista. Perché è accaduto questo? Semplicemente, perché non ci si può affidare a una visione "direttistica" della democrazia. Altrimenti, come accaduto, si apre la via al risorgere di antiche, e non rimpiante, pratiche assembleari: la "conquista della presidenza", per dettare l'agenda. E "riprendiamoci il Brancaccio", infatti, era la parola d'ordine che circolava, prima che Anna Falcone e Tomaso Montanari (saggiamente) annullassero l'appuntamento del 18 novembre.
A ciò si aggiunga un altro dato: il "Brancaccio" ha pagato un prezzo a un'ambiguità politica di fondo. Alcuni gruppi, e piccoli partiti, avevano in testa un'idea ben precisa, ossia una lista "antagonistica" che ponesse un veto a tutte le forze che, a torto o ragione, erano considerate "complici" delle scelte del passato, con una deriva "purista" e recriminatoria. Una strategia legittima, certamente; ma che mal si conciliava con le intenzioni dichiarate all'inizio (tanto che lo stesso Montanari ha collaborato alla prima stesura di un documento politico unitario, firmandolo - che orrore! per qualcuno – insieme perfino a Guglielmo Epifani...).
Il "Brancaccio" presupponeva inoltre un'idea un po' "olistica" della propria missione: non ci si poneva come uno dei soggetti protagonisti di un patto federativo (una parte tra le altri parti contraenti), ma come il luogo di una fusione calda, in cui i partiti dovessero vivere una sorta di lavacro purificatore, a contatto con la viva esperienza dei "cittadini di sinistra", senza partiti e appartenenze. Non poteva funzionare; e non per il pervicace istinto di sopravvivenza dei partitocrati, ma per una considerazione realistica: bene o male, Mdp, Si e Possibile hanno un fragile, ma comunque reale, corpo associativo, una "base" a cui render conto. Si poteva chieder loro di dissolversi, in nome di una confusa procedura assembleare, che rischiava di rivelarsi inconcludente? E a poche settimane dalle elezioni?
E infine, la questione della "leadership". Montanari cita Iglesias, Corbyn, Tsipras, Sanders. Ottimi esempi, diversi tra loro, ma che male si attagliano alla situazione italiana. Si può scorgere, per esempio, in Italia un grande movimento di massa come quello da cui è nato Podemos? E si può forse glissare sulle gravissime condizioni economiche e sociali che hanno provocato il collasso della Grecia e fatto emergere Syriza? E, quanto a Corbyn, si può forse ignorare il fatto che questa nuova leadership emerge dall'interno di un partito secolare, come il Labour, con la sua identità, la sua storia, i legami con le Trade Unions, etc.? O passar sopra alla peculiare struttura candidate-centered del sistema politico americano, che ha permesso a Sanders, per decenni (altro che limiti di mandato, o critica ai "politici di professione"!) di essere eletto nel suo Vermont?
Le leadership non si inventano: emergono. O da grandi movimenti, o da una frattura storica del sistema politico, o dall'interno di partiti esistenti, solidi e strutturati. Tutte condizioni che, oggi, non si danno in Italia, e che certo non potevano essere create artificialmente. E allora, nelle condizioni italiane, ha davvero poco senso stare a sottilizzare sull'"investitura" di Pietro Grasso: una figura di prestigio, unificante e rappresentativa, in grado di parlare ad una più ampia opinione pubblica. Decisa "dall'alto"? Ebbene sì: a volte, in politica, l'azione "dall'alto" è necessaria. Specie a poche settimane da elezioni decisive.
Da tutto questo, infine, emerge una "morale": se "Liberi e uguali" avrà un dignitoso risultato elettorale, da qui bisogna subito partire per costruire un nuovo, e vero, partito della sinistra. E la grande sfida dei prossimi mesi sarà appunto quella di costruire un partito che sappia ripensare in modo originale il nesso tra partecipazione, democrazia, decisione politica e pluralismo, in grado di offrire a tutti uno spazio politico ospitale e praticabile. E ci sarà bisogno di tutti. Credo che sia oramai ben chiaro quanti guasti abbia prodotto, nell'ultimo quarto di secolo, la progressiva destrutturazione dei partiti: "partiti" sempre più ridotti a mere macchine elettorali al servizio di capi e capetti, cittadini sempre più soli e senza luoghi e momenti di partecipazione politica. Ma per poter invertire questa tendenza, occorre anche che non vi sia alcuna indulgenza verso quella cultura "anti-partito" che rappresenta una costante, e inquietante, presenza nella storia italiana.