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Intervista. Pasquale Tridico, indicato da Di Maio a ministro del lavoro: «Da uomo di sinistra dico che questa alleanza è un problema». «È necessario recuperare i diritti e la dignità del lavoro: reintrodurre l'articolo 18, eliminare il Jobs Act, contrastare la liberalizzazione dei contratti a termine»

Pasquale Tridico, economista dell’università Roma Tre, lei è stato indicato da Di Maio come ministro del lavoro e Welfare. Ma ha lasciato il progetto, per questioni programmatiche e ideologiche. Quali sono?
Ho lasciato quando ho visto che si profilava l’accordo con la Lega. Dal mio punto di vista di uomo di sinistra un’alleanza di questo tipo è un problema. La mia figura avrebbe creato conflitti. Sono un tecnico e ho fatto un passo indietro. Ora spero che la guida del governo resti in mano al Movimento e all’anima più attenta ai problemi degli esclusi: Di Maio, Fico.

Si augurava un’alleanza tra Cinque Stelle e Pd?
Probabilmente il Pd ha fatto una manovra per spingere il Movimento a fare un accordo con Salvini. Nel Movimento ha prevalso la responsabilità di dare un governo al paese. Sono stati coerenti: hanno sempre detto che il Movimento non è di destra né di sinistra e si allea con chi condivide il programma.

Lo spostamento a destra cosa ha provocato?
La Flat Tax, una tassa regressiva e iniqua. È stato fatto un compromesso che non mi piace su lavoro ed economia. Sono prevalse le esigenze dell’elettorato della Lega, la flessibilità delle piccole imprese che fanno fatica a innovare e comprimono il costo del lavoro. Credo invece sia necessario recuperare i diritti e la dignità del lavoro attraverso la reintroduzione dell’articolo 18, l’eliminazione del Jobs Act, il contrasto alla liberalizzazione dei contratti a termine.

Lei ha chiarito che il «reddito di cittadinanza» dei Cinque Stelle è un «reddito minimo condizionato alla formazione e riqualificazione professionale». Cosa è cambiato nel contratto di governo?
La nostra proposta non era solo per i cittadini italiani, ma per tutti i residenti da almeno due anni sul territorio nazionale. Nel programma si prevede solo per cittadini italiani. Ed è stato limitato a due anni. Il reddito deve servire per attivare i soggetti, ma anche per lottare contro la povertà. Per questo non deve essere troppo stringente in termini temporali.

Ora a cosa serve?
Sarà utile per i beneficiari, anche se è più limitato. Poteva essere rivolto a una platea più ampia e non solo agli italiani.

Nelle bozze del contratto si ripete l’equivoco: si parla di «reddito di cittadinanza»…
Non sarei così critico. È diventato un brand, una proiezione sul futuro. Potrebbe diventare qualcosa di simile a un reddito universale incondizionato.

Oppure a un workfare, con le conseguenze che si vedono nel film Daniel Blake» di Ken Loach.
Ho letto l’articolo in cui lei ha scritto questo. Non sono d’accordo. Dipende come questa proiezione evolverà in futuro. Uno strumento di questo tipo, vista la trasformazione digitale in corso, è assolutamente necessario.

Quanto tempo ci vorrà per realizzare la riforma?
Realisticamente due anni,

Cosa pensa del reddito di base incondizionato?
Oggi non è realizzabile. Con tre milioni di inattivi e un basso tasso di occupazione non è molto appropriato. Il reddito minimo condizionato incentiva al rientro nel mercato del lavoro e cerca di evitare lo sprofondamento verso la povertà assoluta. A patto che venga associato a un programma di investimenti.

Il Sud, a cui i 5 Stelle devono molto, è trascurato nel contratto. Lei cosa aveva proposto?
Destinare almeno il 34% degli investimenti. Considerando che la popolazione del Sud è anche superiore al 34% del totale, la clausola non sarebbe un favore, ma il giusto compromesso per farlo tornare a crescere.

Vedremo che succederà con la Lega. Cosa pensa invece del salario minimo orario, l’unica proposta chiara del contratto?
È una misura che condivido, a condizione che non sia in conflitto con la contrattazione nazionale. È stata da poco inserita in Germania con queste modalità, anche i metalmeccanici lo hanno accettato. Per le categorie non coperte da contrattazione può essere funzionale.

Si vuole rimettere mano al lavoro occasionale. Lei ha capito come?
La situazione dei voucher era insostenibile. Ma la riforma frettolosa di Gentiloni, sotto la pressione del referendum della Cgil, può restare, anche se è limitata. È sbagliato tornarci sopra. Ora è l’ultima cosa da toccare. Non è la soluzione.

Servirà una riforma costituzionale per realizzare l’ampliamento dei centri per l’impiego?
No. Averlo legato, come ha fatto Renzi il 4 dicembre, non ha aiutato. Il problema è gestibilecon provvedimenti ordinari, un agenzia di coordinamento nazionale e aumentando il personale dei centri dell’impiego. Bisogna arrivare a 50 mila dipendenti, oggi ce ne sono 8 mila. Si vogliono stanziare due miliardi di investimenti. Mi sembra un buon inizio. Bisogna fare di più.

Ad esempio?
Assorbire il personale delle agenzie di somministrazione private nei centri per l’impiego.

Cosa farà adesso?
Sarebbe stato più comodo accettare un posto prestigioso da ministro, ma solo in un contesto favorevole. Spero che chi lo farà sia un politico. Io non lo sono, non ho lo stomaco per farlo. Continuerò a fare l’intellettuale, ho la libertà di fare questa intervista. Proseguirò su questa strada coerente con le mie idee.

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il Fatto Quotidiano, 16 maggio 2018. L'opportuno riepilogo delle affermazioni di Matteo Salvini, leader della destra razzista italiana, espressione di una visione politica che il presidente della Repubblica non può accettare



Caro direttore, se davvero finirà con il Movimento 5 Stelle che porta al governo un partito lepenista, allora sarà finita nel peggiore dei modi. Anche ammesso che la Lega si pieghi ad accettare alcuni punti sacrosanti del contratto di governo proposti dal Movimento (chiusura del folle Tav in Val di Susa; attuazione del referendum sull’acqua pubblica; accoglimento di una significativa parte dei 10 punti fissati dal Fatto Quotidiano), questo non cancellerebbe la sua identità. Che è quella di un partito guidato da un leader che, parlando di migranti, ha dichiarato (febbraio 2017): «Ci vuole una pulizia di massa anche in Italia… via per via, quartiere per quartiere e con le maniere forti se serve». Che pensa che «il fascismo ha fatto tante cose buone»(gennaio 2018). Che vuole «un cittadino su due armato» (febbraio 2018). Che si è fatto fotografare mentre dà la mano a un candidato della Lega con una croce celtica tatuata sul braccio: un candidato che poi tutta Italia conoscerà come il terrorista fascista di Macerata.

D’accordo. Se finisce così è anche colpa di Matteo Renzi, che tiene in ostaggio il suo partito e il Paese, e che ha scommesso tutto proprio su questo esito, sperando nel suicidio morale e politico del Movimento. Ed è anche colpa di Sergio Mattarella, che avrebbe dovuto mettere il Pd di fronte all’alternativa secca tra governo con i 5Stelle ed elezioni, invece di prospettare la garanzia di un improbabile governo neutrale. E, più profondamente, è colpa di una classe dirigente che, a partire dai primi anni Novanta fino all’abisso renziano, ha scientificamente distrutto la Sinistra, fino a ridurla allo stato attuale: macerie senza speranza. Ed è colpa anche mia, e di tutti coloro che, da sinistra, abbiamo dialogato con il Movimento senza riuscire a far capire che il sistema si poteva ribaltare solo garantendo più democrazia, e non già inseguendo sogni autoritari e abbracciando i nuovi fascisti.

È vero, il mondo si è rovesciato. La Lega e il Movimento 5 Stelle hanno in comune la rappresentanza dei più poveri, dei precari e degli sfruttati: mentre Forza Italia e Pd rappresentano chi ha interesse a non cambiare nulla. Ed è per questo che Lega e Movimento provano a mettere in discussione ciò che va messo in discussione, da questa Europa alla Nato (ammesso che il sistema lo permetta). Ed è vero: il Pd di Minniti sta trattando la più grande questione del nostro tempo, quella delle migrazioni, con metodi e orientamenti che sono già fascisti. Si potrebbe continuare a lungo: per questo milioni di italiani di sinistra hanno votato 5 Stelle, avendo come unica reale alternativa l’astensione (a cui ricorreranno al prossimo giro elettorale).

Tutto questo è drammaticamente vero. Ma la Lega non è la soluzione.

Non lo è perché dove governa non è affatto antisistema, e anzi costruisce un sistema di potere indistinguibile da quello del Pd (si legga, per esempio, il bellissimo Il disobbediente di Andrea Franzoso). Non lo è perché è al guinzaglio di quello che Beppe Grillo chiama lo Psiconano: che sarà il padrino, il socio occulto e il massimo beneficiario di un eventuale governo Salvini-Di Maio. Non lo è perché è un partito che non offre la speranza, come invece fa tra mille contraddizioni il Movimento, ma alimenta invece la paura. Non lo è perché è un partito in cui i militanti di Casa Pound dichiarano di riconoscersi.

Di fronte a questo futuro nero io chiedo: nessuno nel Movimento 5 Stelle ha il coraggio di dire pubblicamente che non è d’accordo? È evidente che la questione della democrazia interna del Movimento non può più essere rinviata: sta succedendo che un gruppo ristretto lo sta portando alla rovina con una scelta che è suicida per le ragioni evidenti che Marco Travaglio si sgola a spiegare da settimane.

Si dice che non c’è alternativa. È un errore: in democrazia c’è sempre un’alternativa, e il moto There Is No Alternative di Margaret Thatcher è stato e resta la pietra tombale su ogni possibile cambiamento in Occidente. Si può rivotare. Si può aspettare ancora e si possono costruire le condizioni per un’evoluzione del Pd. Perché tra il Pd e la Lega c’è una differenza fondamentale: il Pd è diventato quello che è, e fa quello che fa, ribaltando radicalmente la propria stessa ragione di essere. Mentre la Lega è serenamente fedele a se stessa. E dunque mentre si può sperare in una palingenesi di un Pd che accetti di governare con i 5 Stelle, non si può certo aspettarsi nulla del genere dalla Lega.

È una porta stretta: ma nulla, davvero nulla, sarebbe peggio di mettere l’energia pulita del Movimento al servizio di un’idea di Italia che è il contrario esatto della Costituzione.

Norberto Bobbio diceva che dobbiamo essere «democratici sempre in allarme»». E davvero è il momento di suonare l’allarme. Davvero persone come Roberto Fico, Nicola Morra, Michela Montevecchi, Gianluca Perilli, Margherita Corrado (per non fare che qualche nome) sono disposti a rendersi corresponsabili di una scelta che farà perdere al Movimento milioni di voti, consegnandolo alla Destra estrema, e resuscitando dall’altra parte la destra finanzcapitalista di Renzi? Davvero tutte queste persone oneste e serie, che non sognano certo un’Italia nera con la pistola, tradiranno i loro principi e perderanno la faccia fino a legare per sempre il loro nome a una svolta alla Orban?

La Costituzione dice che, come tutti gli altri parlamentari, anche quelli a 5 Stelle non rappresentano il loro movimento, ma la nazione. E la stragrande maggioranza della nazione non vuole al governo l’estremismo nero della Lega

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A 90 anni dalla sua prima ristrutturazione, l’Arena Borghesi rischia di festeggiare il suo anniversario con una brutale colata di cemento, inglobato (in parte) dal supermercato limitrofo. Ma andiamo....

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da:
http://www.azione.ch/attualita/dettaglio/articolo/un-14-maggio-speciale-per-israele.html

Eventi – Oggi, lunedì, l’attuale sede del consolato Usa a Gerusalemme nel quartiere di Arnona – giorno della dichiarazione d’indipendenza israeliana – assume le funzioni di ambasciata Usa in Israele.  14.05.2018

di Marcella Emiliani

«Israele è stato creato perché il popolo ebreo, che non si è mai sentito sicuro in nessuna parte del mondo, avesse una casa. Oggi, dopo 70 anni di successi clamorosi in tutti i campi, Israele con tutta la sua forza forse è diventato una fortezza. Ma non è ancora una casa. Gli israeliani non avranno una casa finché i palestinesi non avranno la loro». 
Era il 17 aprile scorso e così si esprimeva David Grossman, scrittore israeliano di fama internazionale, nel corso di una cerimonia che commemorava a Tel Aviv il 70.mo compleanno dello Stato di Israele che sarebbe stato ufficialmente festeggiato il giorno dopo. Secondo il calendario ebraico, infatti, quello che per il nostro calendario gregoriano è il 14 maggio quest’anno è caduto il 18 aprile, ma lo sfasamento temporale poco importa. L’importante è la ricorrenza di una sorta di miracolo quale è stata il 14 maggio 1948 la Dichiarazione di indipendenza di Israele proclamata dal padre della patria, David ben Gurion nel Museo dell’Arte di Tel Aviv. Nel corso della notte, truppe di otto paesi arabi attaccarono il nuovo Stato che pur tra mille difficoltà riuscì ad avere la meglio in quella che gli israeliani chiamano la guerra di indipendenza, gli arabi e i palestinesi – invece – la Nakba, la catastrofe. 
Se infatti gli ebrei credettero di aver ritrovato la propria casa, i palestinesi persero la loro e i «fratelli» arabi accorsi nel 1948 per distruggere «l’entità sionista», in 70 anni per risolvere il contenzioso israelo-palestinese non seppero far altro che guerre, regolarmente perse contro le Israeli Defense Forces (Idf). In contemporanea chiudevano i palestinesi in miseri campi profughi, impedendo loro di ottenere lavori stabili e regolari sul proprio territorio e men che mai concedendo loro la cittadinanza. L’unica ad averlo fatto è stata la Giordania. Oggi la distanza tra israeliani e palestinesi è abissale. Dal 1948 Israele è diventato un paese all’avanguardia nella ricerca scientifica e tecnologica (la start-up nation), viaggia a tassi di crescita che nell’ultimo decennio hanno oscillato dal 4 al 9% del Pil e vanta 11 premi Nobel. I palestinesi invece non solo vivono in maggioranza sotto la soglia della povertà nei campi profughi arabi ma anche in Cisgiordania terra-limbo dell’Autorità Nazionale palestinese (Anp) ormai zeppa di colonie ebraiche, e decisamente in miseria nella Striscia di Gaza, ovvero l’Hamasland, attorno alla quale Israele ha istituito un blocco totale dal 2007. Ed è proprio Hamas a voler rovinare la festa del 70.mo compleanno di Israele. Per il 14 maggio ha promesso che la Marcia del Ritorno proclamata il 30 marzo scorso si estenderà a Gerusalemme non solo per reclamare la terra perduta, ma anche per protestare contro il trasferimento dell’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, forse alla presenza dello stesso Trump. 
E qui arriviamo al cuore del discorso di Grossman del 17 aprile, ma soprattutto alle chiavi del futuro di Israele. Se è vero che i palestinesi

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Gerusalemme/Gaza. Ieri mentre a Gerusalemme gli Stati uniti inauguravano la loro ambasciata, a Gaza l'esercito israeliano apriva il fuoco sui dimostranti palestinesi. 52 morti e oltre 2mila feriti. Tra le vittime anche ragazzini. Per Netanyahu i soldati hanno protetto il confine di Israele

 

 

«I nostri coraggiosi militari proteggono i confini di Israele anche mentre stiamo ‎parlando. Vi rendiamo onore!». La strage di Gaza è avvenuta ad appena 50 km da ‎dove Benyamin Netanyahu, i suoi ospiti americani e i diplomatici anche di quattro ‎Paesi dell’Unione europea, stavano inaugurando, tra cerimonie, sorrisi e strette di ‎mano, l’ambasciata americana ad Arnona nella periferia meridionale di ‎Gerusalemme. Il premier israeliano ha avuto di nuovo parole d’elogio per i suoi ‎soldati che ieri hanno fatto il tiro al piccione colpendo a morte oltre 50 palestinesi, ‎alcuni quali dei ragazzini. E ciò che non hanno fatto i cecchini l’hanno completato ‎aerei e mezzi corazzati. Una prestazione meritevole di onori speciali visto che la ‎vita dei palestinesi che non sembra aver più alcun valore. Non uomini, donne e ‎bambini ma “terroristi” a qualsiasi età, a 14 come a 30 anni. E non importa che ‎quei palestinesi uccisi e i 2410 feriti fossero disarmati, ad eccezione di tre, uccisi, ‎secondo il portavoce militare, mentre piazzavano un ordigno sotto le barriere tra ‎Israele e Gaza. «Hamas vuole distruggere Israele e ha mandato migliaia di persone ‎verso le recinzioni, abbiamo il diritto di difenderci» ha proclamato Netanyahu ‎dando il via al coro di coloro che si affretteranno a confermare: sì, erano tutti ‎terroristi. Che due milioni di palestinesi vivano pure il loro ergastolo a Gaza, come ‎bestie in meno di 400 kmq, con poca acqua, senza risorse, senza lavoro, senza ‎elettricità, senza speranze.

Netanyahu giustifica la strage di ieri con il diritto all’autodifesa e a proteggere i ‎confini del Paese. Ma lo stesso esercito israeliano dice che non ci sono state ‎violazioni alle frontiere durante le manifestazioni. Ha parlato invece di (presunti) ‎attacchi “concertati” alla barriera nel tentativo di infiltrarsi. I soldati in ogni caso ‎non hanno esitato a sparare contro chi si avvicinava nel pieno rispetto, hanno ‎rimarcato comandi dell’esercito, delle “regole d’ingaggio”. Dall’altra parte nel ‎frattempo contavano i morti, minuto dopo minuto. Le vittime sono tutte molto ‎giovani, pochi avevano più di trent’anni. Che la giornata sarebbe finita in un lago ‎di sangue, il più grande dall’offensiva israeliana del 2014, si è capito subito. Prima ‎delle 14 c’erano già sette morti a Gaza. La carneficina è durata fino a sera quando i ‎manifestanti sono arretrati. Negli ospedali è stato l’inferno, l’emergenza è andata ‎avanti sino a notte fonda. I medici hanno fatto il possibile per strappare alla morte ‎i feriti più gravi, spesso non ci sono riusciti. «Siamo sfiniti ma continuiano a ‎lavorare, mentre i materiali sanitari si stanno esaurendo» ci raccontava il dottor ‎Said Sehwel, dell’ospedale al Awda nel nord di Gaza. «Il nostro è un piccolo ‎ospedale eppure nelle ultime ore abbiamo soccorso circa 150 persone ed effettuato ‎diversi interventi d’urgenza» ha aggiunto «alcuni dei feriti sono stati colpiti ‎all’addome o al torace, uno al collo. Tre sono in condizioni molto gravi. E non ‎abbiamo abbastanza gasolio per garantire che i generatori autonomi di elettricità ‎possano funzionare nelle prossime 48 ore».

Una situazione altrettanto grave la ‎raccontavano i medici di altri piccoli ospedali, cliniche e ambulatori che ieri ‎hanno aperto le porte per accogliere i feriti meno seri ed evitare che si intasassero ‎le sale operatorie degli ospedali più grandi e meglio attrezzati per i casi più gravi, ‎come lo Shifa e l’Europeo di Khan Yunis. «Tutto il sistema sanitario di Gaza è al ‎collasso eppure va avanti e continua a fare del suo meglio per assistere i feriti, ‎alcuni sono poco più che bambini. Poco fa abbiamo rivolto un appello a donare il ‎sangue», ci diceva ieri sera Nasser al Qidwa, il portavoce del ministero della sanità ‎di Gaza. Fuori dagli ospedali madri in lacrime e padri con il volto tra le mani in ‎attesa di sapere delle condizioni dei figli feriti gravi o morti e portati all’obitorio. ‎Scene strazianti che non si vedevano dal luglio 2018, come i funerali improvvisati ‎delle vittime alle quali le famiglie hanno preferito dare una sepoltura immediata. ‎Mohammed, Ezzedin, Alaa, Ismail, Fadel…Sono alcuni dei nomi delle vittime di ‎cui nessuno chiederà. Per Israele erano solo terroristi.

‎ Chissà se Jared Kushner, genero di Trump e inviato speciale per il dossier israelo-‎palestinese, sa che a Gaza gli ospedali possono lavorare solo grazie ai generatori. E ‎che a Gaza si può morire per malattie da noi considerate facilmente curabili a ‎causa del blocco. Questo giovane ricco americano dalla faccia da bambino al quale ‎Trump ha chiesto di risolvere il conflitto mediorientale, si è permesso di affermare ‎che «le manifestazioni di Gaza sono parte del problema e non parte della ‎soluzione». Anche Kushner è intervenuto con un suo discorso alla cerimonia di ‎‎81 minuti con la quale gli Stati uniti hanno inaugurato la loro ambasciata a ‎Gerusalemme tra le proteste dei palestinesi. Il presidente americano non c’era ma ‎ha inviato ‎un videomessaggio di due minuti e mezzo alla folta platea di invitati ‎‎all’inaugurazione dell’ambasciata, molti dei quali esponenti di primo piano ‎‎dell’Amministrazione e del Congresso. «Gerusalemme è la capitale d’Israele ‎che è ‎uno Stato sovrano e ha diritto di stabilire la capitale dove vuole», ha ‎detto Trump ‎attribuendosi poi il merito di aver realizzato ciò che i suoi ‎predecessori, a suo dire, ‎non avevano avuto il coraggio di fare. Poi, dopo aver appiccato il fuoco, Trump ‎candidamente ha ribadito la volontà ‎americana di «facilitare un accordo per una ‎pace duratura ‎e di sostenere lo ‎status quo dei luoghi santi di ‎Gerusalemme». ‎Quindi la scena è stata tutta per il premier israeliano Netanyahu che ha ringraziato ‎Trump e ha parlato di «momento storico» per Israele nel 70esimo ‎anniversario ‎della sua fondazione.

Solo a fine giornata si è sentita la voce del presidente ‎palestinese Abu Mazen che ha condannato il massacro a Gaza e il trasferimento ‎dell’ambasciata Usa. «Quello a cui abbiamo assistito non è stata l’inaugurazione di ‎un’ambasciata a Gerusalemme ma l’apertura di un insediamento coloniale ‎americano», ha commentato. Un po’ poco per un presidente che afferma di guidare ‎un popolo che vive una delle fasi più critiche dalla sua storia. ‎

 

 

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The Guardian view on Gaza shootings: stop killing unarmed civilians

Channelling a reckless Donald Trump, Israeli ministers appear to have adopted a dangerous mindset: to destroy the national aspirations of the Palestinians by military force
A relative of Palestinian Mahmoud Abu Taima, who was killed during a protest at the Israel-Gaza border, mourns during his funeral
 A relative of Palestinian Mahmoud Abu Taima, who was killed during a protest at the Israel-Gaza border, mourns during his funeral. Photograph: Said Khatib/AFP/Getty Images

It is inexcusable for soldiers of a military, especially those under democratic civilian control, to shoot and kill protesters, almost all of whom were unarmed, and who pose no credible threat. Yet at the boundary between Gaza and Israel today Israeli soldiers seem to have done just that. It should make Israelis quail that demonstrators were sprayed with live ammunition with apparent impunity. There were dozens of deaths and hundreds of maimings among the Palestinians who had marched to the border to make a point about their right to return to their ancestral homes. Israel’s army evinced no shame in committing what looks like a war crime. These are serious accusations. Yet they were greeted with little more than a shrug. By blockading Gaza, Israel imprisoned 2 million people behind barbed wire and military towers. Israel treated the violence as a jailer might a prison riot: a tragic fault of the inmates.

This is a dangerous mindset for Israelis to embrace. Yet they have done so because the extreme right in Israel, and most of the present government ministers, nurture the idea that Israel can, through its vastly superior military force, end the national aspirations of the Palestinians. These politicians take succour from US president Donald Trump, who has made good on his promise to recognise Jerusalem as the capital of Israel. Today Mr Trump’s ambassador, who gave money to Jewish far-right groups in Israel, opened his nation’s new embassy in Jerusalem. This is a reckless and provocative step that will harm the prospects for peace. Like the issue of refugees, settlements and borders, the status of Jerusalem is unfinished business. No state is internationally recognised as having sovereignty over Jerusalem. Its status was meant to be determined through negotiations.

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 Palestinians killed as US opens embassy in Jerusalem – video report

In siding with Israel Mr Trump signalled the end of any pretence that his administration might be an honest broker in the conflict. Any peace talks overseen by Mr Trump’s team are likely to fail before they begin. The US president will learn what happens when the facts he has created on the ground collide with reality. What will happen to the 300,000 Palestinians living in east Jerusalem? Are they all to be herded into enclaves and deprived of their human rights, their land confiscated? Will this be done because of the “truth, peace and justice” that Benjamin Netanyahu said Israel believed in as he welcomed the US ambassador to Jerusalem? Mr Trump and Mr Netanyahu have galvanised a people who had been steeped in despair.

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In taking Jerusalem off the table, the only inviolable demand Palestinians feel they have left is the right of return. Palestinians see the flight or expulsion of refugees at the time of the creation of Israel 70 years ago this week as their catastrophe or nakba. Israelis retort that implementation of the right of return is incompatible with the survival of a democratic Jewish majority state. The issue is now on the lips of every Palestinian. The conflict in the Holy Land is not a zero-sum game, where there is just one winner. The opposite is more likely to be true. Either both will fail – and continue with one civilian population humiliating and terrorising the other. Or they find a way to live side by side in two states, one that affords each people their own independence and security. If happily such an outcome was achieved, it would make sense for west Jerusalem to be the capital of Israel and east Jerusalem to be the Palestinian capital. This is obvious to everyone but Mr Trump and Mr Netanyahu, who instead have capitulated to a vision of brutal domination over a benighted people.

 

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