Lo schieramento di centrosinistra che si delinea, si sposta deliberatamente al centro verso destra. Uno spostamento ancor più marcato se restava Calenda.
L'errore di SI e VE è nel rifiuto o disimpegno di una relazione con quella sinistra che poteva emergeva da una opportuna aggregazione, al limite anche solo tecnica, con Unione Popolare e con Conte.
Un buon programma sociale e ambientale poteva valorizzarlo e renderlo competitivo con il centrodestra. Si poteva consolidare il risultato con candidati affidabili anche già sperimentati in legislature precedenti e personalità qualificate e impegnate in azioni sociali e ambientali di solidarietà e della scienza, di cui c'è molto bisogno nelle istituzioni.
Categorie di rappresentanti che possono affrontare le emergenze.
Di "migliori" e incaricati dalle "Divine Provvidenze", ne abbiamo avuti fin troppi. Ci hanno già impoverito abbastanza.
Il centrismo di natura calenda-renziano sarebbe stato fuori dai giochi.
Non sta andando così. Il rimedio del fato può essere corretto solo dagli elettori.
Loro possono e devono battere la destra.
L’AGENDA VERDE . Nove sindaci lanciano un contr’appello per il clima dimenticandosi del consumo di suolo che non hanno fermato. Dati Ispra alla mano
Il sindaco di Milano Giuseppe Sala alla Marcia per il Clima - LaPresse
In questa tormentata estate fatta di incendi, siccità, frane e colate fangose, dove non ci viene risparmiato il naufragio dei politici con i loro spettacolini sempre meno degni del compito che li attende, una ‘piccola’ comunità di 100.000 studiosi ed esperti, me incluso, ha mandato loro un appello chiedendo di inserire ambiente e clima in cima all’agenda della prossima legislatura. In cima, non in un’altra posizione. A questo appello hanno risposto sulle pagine di Repubblica nove sindaci di altrettante città a loro volta selezionate dalla Commissione Europea per la Mission Climate-neutral al 2030 che in modo verboso si accodano all’appello.
Bene, bravi. Però, non mi convince una cosa. Delle varie competenze in capo ai sindaci, ve ne è una che è tutta loro e nessuna gliela toglie e sulla quale loro possono fare molto: la decisione sull’uso del suolo, la risorsa più delicata, non rinnovabile e non resiliente ed enormemente strategica per la mitigazione climatica.
Giusto una dozzina di giorni fa Ispra ha presentato il rapporto nazionale sul consumo di suolo e allora sono andato a vedere se quelle nove città sono state rispettose del suolo. Questi gli incrementi di cementificazione tra il 2020 e il 2021: Milano +18,68 ettari; Bergamo +4,76; Parma +11,2; Roma +95,05; Bologna +3; Firenze +3,25; Padova +2,56; Torino +3,08; Prato +5,02. Non una di loro si è fermata. Proprio loro, che scrivono che è urgente una «coraggiosa svolta ambientale» non hanno spento le betoniere nemmeno quando tutti noi eravamo in lockdown.
Il dubbio di un pelo di ipocrisia mi viene, anche perché l’uso del suolo è la cartina di tornasole di un buon governo del territorio. Perché i nostri nove cavalieri delle smart city anziché invocare mille parole teoriche, non iniziano a impegnarsi pubblicamente su ciò che loro possono davvero fare ovvero non consumare più suolo? E invece del suolo nessuna traccia nel loro appello. E questo la dice lunga. Come pure la dice lunga la sostanziale assenza, nel passato, di vigorosi appelli politici contro il consumo di suolo. Per rendere (più) credibile il vostro appello, cari sindaci, occorre che dichiariate anche da che parte state concretamente sull’uso della risorsa più strategica, il suolo, evitando di glissare.
È pur vero che con una mano avete fatto qualcosa di green, ma l’altra ha continuato a spalmare cemento, poco importa se per case meno energivore o per strade dove passeranno auto elettriche. Fintanto che abbiamo case e capannoni vuoti, solo quelli vanno usati. E sottolineo solo. E non ci dite che il vostro sforzo green è della serie ‘meglio poco che niente’, perché del poco oggi non possiamo accontentarci e serve solo a fare ancora greenwashing e ritardare l’appuntamento con la salvezza climatica. Occorrono atti concreti e occorrono proprio a partire dall’uso del suolo. Dichiarate tutti assieme che il prossimo anno il consumo di suolo delle vostre città paladine dell’ambientalismo, sarà zero. Chi di voi è sindaco anche di città metropolitana, dichiari che andrà a monitorare tutti i piani urbanistici, tutti i consumi di suolo, tutte le rigenerazioni per capire meglio perché si continua ad asfaltare. Tra voi vi è il sindaco di Milano, fiero promotore delle Olimpiadi2026 senza, però, che vi sia uno straccio di contabilità indipendente sul consumo di suolo nei luoghi delle gare e in quelli connessi (ma vi sembra possibile?).
C’è bisogno che dichiariate tutti assieme che il suolo è una risorsa ecosistemica e del suo consumo le vostre Giunte si fanno corresponsabili e che vi farete personalmente carico di innescare un appello ai vostri colleghi per una legge nazionale che fermi il consumo di suolo (magari ingaggiate anche la vostra associazione, Anci, che troppo poco ha fatto fino a oggi in materia). Chiedete di partire dai grandi sviluppatori (logistica in primis) sottoponendoli a meccanismi fiscali di fortissimo disincentivo a consumare suolo libero. E così via. Insomma, siate concreti e non teorici, perché i risultati delle vostre teorie e promesse li tocchiamo con mano: il consumo di suolo netto in Italia è aumentato in un solo anno di oltre il 22%. Un aumento che non arriva dal cielo, ma dalle vostre firme sui piani urbanistici e sui permessi di costruire, dalla mancanza di coraggio ad opporsi a leggi regionali colabrodo come quelle di Veneto, Lombardia, Piemonte ed Emilia Romagna.
Visto che volete guidare il cambiamento, partite dal tutelare per sempre la risorsa più scarsa, irriproducibile e non resiliente che abbiamo, il suolo, e depositate là il vostro coraggio politico per il futuro.
* Politecnico di Milano
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Sfogliando la margherita, alla fine Calenda non ci sta. I commenti oscillano tra l’analisi psicologica del personaggio, e la valutazione della sua convenienza a correre da solo, o magari in tandem con Renzi. Mentre è unanime la valutazione che il divorzio aumenti di molto la probabilità di una vittoria con largo margine della destra. Ora tutti vedono in chiaro quanto pesi la distorsione maggioritaria su un terzo dei seggi determinata dal Rosatellum.
La probabile accoppiata Calenda-Renzi in corsa verso il centro incide sull’offerta politica e sulle prospettive di quel che accadrà dopo le urne. Non sfugge infatti che il nuovo soggetto di centro conterrebbe sia chi da tempo sponsorizza una proposta affine al presidenzialismo caro alla Meloni, come il sindaco d’Italia (Renzi), sia un alfiere dell’autonomia differenziata cara alla Lega (Gelmini). Possiamo pensare che la cosa abbia un peso domani, nel parlamento che verrà.
In breve, la mossa di Calenda aumenta il rischio di uno stravolgimento della Costituzione. Perché questo è il copione che la campagna elettorale sta scrivendo. La sinergia perversa tra presidenzialismo e autonomia differenziata, con il contorno di misure regressive come la flat tax, non lascia spazio a dubbi. Certo, bisognerà vedere i dettagli. Ma la sostanza c’è già.
L’assemblea costituente ci aveva consegnato una Carta la cui architettura fondamentale poggiava su due pilastri: eguaglianza e solidarietà, da perseguire attraverso istituzioni ampiamente rappresentative e democraticamente partecipate. Non c’è modo di argomentare seriamente che un paese frammentato in chiave federale dall’autonomia differenziata sia un terreno favorevole all’eguaglianza e alla solidarietà. O che tale frantumazione sia sanata attraverso il diritto di votare il capo dell’esecutivo, che di per sé non compensa diseguaglianze, diritti negati, divari territoriali.
La mossa di Calenda, con il possibile corollario di un nuovo soggetto di centro, chiarisce che la parola d’ordine della difesa della Costituzione, strumentale a una alleanza tecnica pre-elettorale, non basta. Rischia di rimanere una mozione degli affetti, volta al più a riguadagnare una quota di astensione, probabilmente insufficiente a cambiare le sorti della battaglia. Che fare? In specie, che può fare il fu campo largo di Letta?
Consideriamo che il Nord è saldamente in mano alla destra, con vistose appendici sul tema dell’autonomia differenziata con Bonaccini in Emilia-Romagna e ora anche Giani in Toscana. Consideriamo che rimane contendibile il Mezzogiorno, che – non dimentichiamolo – sarebbe per dimensioni e popolazione in alta classifica tra i 27 della Ue. Consideriamo che sia FdI che M5S faranno un investimento sul Sud. Consideriamo che il Sud sarà ancora, come già nel 2018, terreno decisivo per gli equilibri dati dal voto.
Possono fare un investimento sul Mezzogiorno anche Letta e i suoi compagni di avventura? Posso sbagliare e nel caso mi scuso, ma ascoltando le esternazioni più importanti di Letta non gli ho mai sentito dire parole decise e decisive sul rilancio produttivo del Mezzogiorno, sul recupero del gap in settori essenziali come la sanità, l’istruzione, i trasporti. E nemmeno gli ho sentito prendere posizione contro l’autonomia differenziata in chiave leghista, salvo un appoggio a un documento assai blando del Pd veneto volto a ridurre la bulimia gestionale di Zaia & co.
Sul fronte dell’autonomia differenziata il Pd, e la sinistra con qualche eccezione, sono stati sostanzialmente assenti. Ora che l’autonomia è ufficialmente nel programma elettorale del centrodestra il silenzio non può continuare. Bisogna contrapporsi nettamente. Si può fare in specie con una correzione del Titolo V riformato nel 2001, come intende fare una proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare sulla quale si raccoglieranno le firme a partire da settembre.
O anche si può fare rivedendo l’agenda Draghi, indubbiamente da correggere. Ad esempio, superando l’ispirazione di iperliberismo mercatista che con i bandi ha messo in competizione i territori sui fondi Pnrr, o da ultimo ha introdotto nella scuola la figura del docente esperto, giustamente criticata da Francesco Sinopoli, segretario Flc-Cgil, su queste pagine. La battaglia elettorale si può vincere. Non con la mozione degli affetti sulla Costituzione, ma con proposte concrete che mostrino come nella Costituzione troviamo la più forte promessa di diritti eguali, di vita migliore, di speranza di futuro.
SINDACATO. Nessuno del fronte progressista e di sinistra si illuda: non si recuperano voti e credibilità con appelli abusati sul pericolo di una destra antidemocratica
Siamo dentro una profonda crisi economica, ambientale e democratica: la bomba sociale potrebbe esplodere già a settembre, quando le conseguenze convergeranno su un paese fragile, impoverito, diseguale. La campagna elettorale dovrebbe avere al centro l’escalation della guerra, la drammatica situazione ambientale, lo scontro geopolitico tra potenze, le condizioni del paese reale, del lavoro povero e del lavoro che manca, della sanità e della scuola pubblica, delle diseguaglianze. Ma ancora una volta la politica sta dando il peggio di sé. Nessuno del fronte progressista e di sinistra si illuda: non si recuperano voti e credibilità con appelli abusati sul pericolo di una destra antidemocratica.
Questo non è certo il tempo della passività e della rassegnazione ma della partecipazione e della mobilitazione. La Cgil, per storia e cultura non è per il «tanto peggio tanto meglio». Non siamo indifferenti alle sorti del paese e alla sua democrazia: abbiamo le radici nella storia del movimento sindacale internazionale e della sinistra italiana ed europea. La Cgil, plurale e democratica, giudica i partiti, le coalizioni elettorali e i governi per i programmi, le scelte, gli indirizzi sociali e non per la loro composizione politica. In questi 17 mesi di governo Draghi, con la sua agenda classista e antisociale che si ripropone come totem ideologico, si è accentuata la distanza tra cittadini e istituzioni.
La Cgil ha espresso il suo giudizio con le mobilitazioni, gli scioperi di categorie come la scuola e lo sciopero generale del 16 dicembre contro la mancanza di politiche economiche e sociali indirizzate verso il mondo del lavoro e la parte più fragile della popolazione, contro le posizioni belliciste, l’invio delle armi e l’aumento delle spese militari. Anche dopo l’ultimo incontro sul decreto legge «Aiuti bis», la Cgil ha rimarcato il dissenso per le scarse risorse previste verso il mondo del lavoro, e forti preoccupazioni sul Ddl Concorrenza, in particolare sulla delega di riforma dei servizi pubblici locali che consegna al futuro governo lo strumento per scardinare i servizi pubblici.
Per noi della sinistra sindacale il governo Draghi non è mai stato il nostro governo: siamo lontani dalla sua agenda liberista e mercantile che prevede, tra l’altro, la riduzione dello Stato e del sistema pubblico a un ruolo caritatevole e sussidiario in favore del privato. Ai partiti progressisti, democratici e di sinistra che si candidano a governare si chiedono parole chiare sulla guerra e la situazione internazionale, impegni concreti, scelte strategiche per il lavoro, la difesa e lo sviluppo del sistema pubblico.
Si chiede discontinuità e un cambiamento radicale, fuori dall’ideologia mercantile e neoliberista e dall’equidistanza tra capitale e lavoro, scelte radicali in difesa dell’ambiente, allargare i diritti civili e sociali, cancellare leggi come il jobs act e la Fornero, reintrodurre l’articolo 18, intaccare privilegi, aggredire l’evasione, colpire le grandi ricchezze, mettere al centro il lavoro e intervenire sulle cause delle diseguaglianze e delle povertà che si stanno estendendo. Si chiedono risposte strutturali verso le giovani generazioni e affrontare concretamente la «privatizzazione» del disagio sociale.
Per noi esiste l’agenda sociale della Cgil. Il 25 settembre il popolo italiano eserciterà un diritto fondamentale e sceglierà chi dovrà governare il paese. Se sarà consegnato alle destre sarà anche per responsabilità, errori, mancanze del fronte progressista, dei partiti «governisti» senza identità, e di una sinistra politica minoritaria incapace di andare oltre il proprio striminzito orticello.
Gli autori fanno parte del direttivo nazionale Cgil
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ELEZIONI. Un divorzio incolmabile si è creato tra contenuti e obiettivi e la ragioneria dei numeri dei seggi. Non solo effetto della legge elettorale ma vera e propria forma mentis. Tra forze politiche e sociali il rapporto è rovesciato. Nessuna dirigenza di partito è espressione delle forze sociali che non si sentono rappresentate dalla sinistra radicale
Tempi duri, illustrazione di Pedro Scassa
Con l’espressione «nebbia di guerra» si intende l’incapacità dei belligeranti di mettere nitidamente a fuoco la situazione sul campo, di valutare correttamente la propria capacità di azione e quella dell’avversario, di individuare le rispettive posizioni e prevedere con qualche attendibilità il corso degli eventi. Un analogo fenomeno sembra avvolgere l’Italia in questi torridi giorni. Potremmo chiamarlo «nebbia elettorale». Un’opaca velatura che restringe il campo visuale a una confusa contingenza e alle immediate adiacenze delle forze politiche, sempre più spesso compagnie di ventura che si raccolgono intorno a condottieri improvvisati per poi sciogliersi e ricomporsi sotto altre bandiere. Abbastanza generiche e vaghe da poter accogliere chiunque sotto la propria ombra. Pedine di un gioco senza regole e senza ragioni comprensibili.
Tentando almeno per un momento di discostarsi dal terreno della contesa, attraverso la nebbia elettorale si intravvedono, esasperate all’estremo, tre tendenze da tempo in atto. La prima è
Leggi tutto: L’onda astensionista dietro la nebbia elettorale - di Marco Bascetta
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