Il Global Footprint Network ci informa che quest’anno l’Overshoot Day si anticipa di un giorno rispetto al 2021, passando dal 29 al 28 luglio. Cioè oggi. Una notizia negativa non solo perché preannuncia un aggravamento dello stato di salute del pianeta, ma soprattutto perché certifica che il nostro comportamento non è cambiato o sta addirittura peggiorando. L’Overshoot Day, conviene ricordarlo, indica il giorno in cui il nostro 'consumo di natura' raggiunge tutte le potenzialità biologiche e riproduttive di cui le terre fertili presenti sul pianeta sono capaci per l’anno in corso. Ai tempi in cui l’Overshoot Day cadeva attorno al 31 dicembre, c’era una situazione di sostanziale equilibrio. Ma oggi un pianeta non ci basta più. Ce ne servirebbe uno e mezzo.
La terra fertile presente sul nostro pianeta ammonta a 12 miliardi di ettari, ma i consumi complessivi ne richiedono ogni anno 22 miliardi, l’83% in più. Una situazione di squilibrio che si manifesta al tempo stesso sotto forma di penuria e di accumulo. Penuria di risorse agricole e forestali. Accumulo d’anidride carbonica e altri gas a effetto serra. Prima della rivoluzione industriale la concentrazione di anidride carbonica in atmosfera era di 280 parti per milione. Oggi è di 420 parti per milione, la concentrazione più alta degli ultimi seimila anni, con conseguenze catastrofiche. Da quando la neve non copre più le nostre montagne e le piogge hanno smesso di cadere con regolarità, abbiamo imparato che il clima ha effetti stravolgenti anche per risorse che ci sembravano inesauribili. A cominciare dall’acqua che risponde anch’essa a meccanismi e tempi di rinnovabilità ben precisi. Leggi che se non sono rispettate ci colpiscono con inondazioni e siccità.
La strada per ritrovare l’equilibrio col pianeta si tiene su tre gambe, riassumibili nella sigla REC: rinnovamento, efficientamento, contenimento. Il rinnovamento riguarda in particolar modo il settore energetico, senza dimenticare quello agricolo. In ambito energetico la sfida è il passaggio dai combustibili fossili alle energie rinnovabili ricordandoci che il 60% dell’impronta ecologica, ossia della nostra richiesta di terra fertile, è per liberarci dall’anidride carbonica.
Secondo gli ultimi dati forniti dall’Agenzia Internazionale dell’Energia, l’80% dell’energia primaria utilizzata dall’umanità continua a provenire dai combustibili fossili. Carbone, petrolio, gas - come la guerra russo-ucraina ha reso evidente a tutti – stanno ancora alla base della produzione di energia elettrica, della produzione industriale, degli spostamenti in treno, auto, aereo.
E le emissioni di anidride carbonica continuano a crescere. Per la verità nel 2020 avevamo assistito a una loro flessione del 4,6% e ci eravamo illusi di avere finalmente invertito il senso di marcia. Ma nel 2021 abbiamo assistito a una rimonta del 6,4% e il nostro ottimismo è svanito. Neanche i Paesi a economia avanzata vanno meglio. In Italia, ad esempio, le risorse energetiche primarie continuano a essere rappresentate per il 74% da combustibili fossili. Idrico, eolico, solare e altre forme di rinnovabili si fermano intorno al 20%. La sfida per l’umanità è affrancarsi dai combustibili fossili, ma per riuscirci dobbiamo attuare una doppia rivoluzione. La prima: ottenere energia elettrica solo da fonti rinnovabili.
La seconda: sostituire tutti i mezzi di trasporto e di riscaldamento, garantendoci gli stessi servizi utilizzando energia elettrica ottenuta da fonti rinnovabili. Innovazioni che dovranno necessariamente coinvolgere anche l’agricoltura che però deve essere capace di attuare anche altre trasformazioni. Oggi, a causa di un esagerato uso di petrolio e di veleni, l’agricoltura fa strage di biodiversità e contribuisce, allevamenti inclusi, al 31% di tutti i gas serra. Un vero gioco al massacro. L’agricoltura deve riscoprire pratiche colturali forse meno produttive, ma capaci di futuro. Il che ci porta al tema dell’efficientamento che si pone l’obiettivo di preservare le risorse attraverso il riciclo e altre forme di risparmio. Un esempio è l’economia circolare che lentamente si sta diffondendo in ambito produttivo. Ma l’efficientamento deve diventare una pratica abituale anche nel settore abitativo e alimentare. Fra riscaldamento e corrente elettrica, gli edifici contribuiscono a circa il 30% delle emissioni di gas serra. Una quota che potrebbe essere ridotta considerevolmente se adottassimo criteri di costruzione più ecologici.
Per questo gli interventi di miglioramento energetico sul patrimonio abitativo rappresentano un asso portante della strategia di riduzione della nostra impronta ecologica. Ugualmente importanti sono i cambiamenti delle nostre abitudini alimentari, ricordandoci che il consumo di carne – lo ha appena sottolineato papa Francesco – è altamente dissipativo. A seconda del tipo di animale, servono da 25 a 7 calorie vegetali per produrre una caloria animale. Per questo la carne va limitata alle necessità di carattere proteico. Mangiarne per ricavarne calorie è come bruciare pezzi d’antiquariato per scaldarsi. Per ragioni di efficienza, le calorie vanno ricercate nei prodotti che la terra ci offre direttamente. Non solo cereali, tuberi, frutta secca, ma anche legumi che essendo ricchi in proteine possono sostituire la carne. Con sommo vantaggio per clima e suoli agricoli, considerato che gli allevamenti assorbono il 40% delle terre coltivate e contribuiscono, da soli, al 14% di tutte le emissioni di gas serra.
Venendo infine al contenimento, bisogna ammettere che si tratta di un concetto poco di moda nella nostra parte di mondo. Ma sappiamo che è inutile produrre in maniera più efficiente se poi moltiplichiamo i consumi. Se produciamo auto più leggere, ma ne mettiamo di più in circolazione, alla fine la quantità totale di materia utilizzata sarà cresciuta, non diminuita. La conclusione è che se vogliamo fare pace col pianeta dobbiamo imparare ad adottare pratiche di consumo che pur non facendoci mancare niente, ci permettono di ridurre il prelievo di risorse e la produzione di rifiuti. Per questo dobbiamo imparare a distinguere, come singoli e come comunità, l’utile dal superfluo.
Ed è proprio collettivamente che dovremmo impegnarci contro il più odioso dei consumi. Quello delle armi di cui conosciamo a malapena il fatturato, stimato, per il 2021, in 2.113 miliardi di dollari. In barba alla democrazia, nel cui nome facciamo anche le guerre, la produzione di armi è protetta da una cortina di segretezza che neanche i Parlamenti riescono a scalfire. Per cui ci sfugge quanto lavoro, quanti minerali, quanta acqua, quanta energia, sprechiamo per produrre questi strumenti di morte. Né sappiamo quanti rifiuti producano durante il loro ciclo produttivo. In tema di gas serra, tuttavia, alcuni studiosi hanno calcolato che l’apparato militare mondiale è responsabile di almeno il 6% di tutta l’anidride carbonica emessa a livello globale. Una vera follia che si trasforma in tragedia quando poi le guerre scoppiano davvero. Ma allora non c’è più molto da fare. Le guerre, al pari dei cambiamenti climatici, vanno prevenute facendo appello a tutta l’intelligenza e i valori morali di cui siamo capaci.
Commenta (0 Commenti)ENERGIE. Con il governo in carica per gli «affari correnti», come è possibile installare 70GW di energie pulite entro il 2030 come dice Draghi? Un promemoria per l’impresa
Non è una questione di poco conto, visto che senza questi dispositivi normativi le CER sono impossibili anche solo da progettare, a dispetto dei 2,2 miliardi stanziati dal PNRR. Ma i provvedimenti urgenti non sono finiti. Importantissima per il raggiungimento degli obiettivi delle rinnovabili, e quindi dell’affrancamento dal gas russo, è la definizione delle aree idonee dove poterle installare, che il settore aspetta dal MiTE da oltre un mese, perché propedeutica alla loro individuazione da parte delle regioni entro il prossimo dicembre.
E’ UN PASSAGGIO obbligato per le opere di semplificazione ed i sei mesi che erano a disposizione delle regioni si stanno accorciando ogni giorno che passa. Purtroppo su tale documento pesa il parere sia del Ministero delle Politiche Agricole che della Cultura, per la questione dei vincoli, cosa che verosimilmente allungherà i tempi. Tutto questo per dar corso alla raccomandazione europea del REPowerEU del 18 maggio scorso sull’indipendenza dal gas russo, che indica di portare a uno o due anni al massimo (e solo a tre mesi per il fotovoltaico sui tetti degli edifici) i tempi degli iter autorizzativi per le installazioni degli impianti rinnovabili.
NELLE AREE IDONEE DESIGNATE, l’amministrazione competente dovrà assicurare una valutazione d’impatto ambientale preventiva di carattere generale, per la quale i promotori degli impianti dovranno semplicemente notificare il progetto per una valutazione d’impatto generale dell’area idonea.
QUESTO SCREENING DOVRA’ DURARE al massimo trenta giorni e permetterà quindi di conoscere subito se un impianto può o non può essere realizzato. Nelle aree idonee, l’intero processo di autorizzazione non dovrà durare più di un anno (sei mesi per il rinnovo di impianti esistenti o molto piccoli). Ma gli Stati membri non dovranno limitare alle sole aree idonee i permessi per i nuovi impianti, e – con ovvia esclusione delle aree protette – potranno prevedere le realizzazioni a fronte di una normale valutazione d’impatto ambientale. Il processo autorizzativo, fuori dalle aree idonee, dovrà durare al massimo due anni. La nostra modesta proposta, non troppo provocatoria vista l’urgenza, è di seguire l’esempio della Germania: destinare il 2% dei territori regionali alle rinnovabili.
L’ESEMPIO DELLA SOLERZIA DELL’EMILIA Romagna è paradossale perché in assenza di indicazioni ministeriali ha ritenuto di non fornire disponibilità di territorio per l’eolico, con un decreto legge che, imponendo autonomamente una fascia di rispetto dai beni culturali esistenti del raggio di sette chilometri, di fatto azzera ogni possibilità di installazione.
UN ALTRO TEMA DA PROMUOVERE con urgenza è quello dell’agrivoltaico, con un provvedimento attualmente «in consultazione»; è questa una soluzione innovativa che mette d’accordo energia e agricoltura con interventi vantaggiosi per entrambi, con redditi supplementari per gli agricoltori, con nuovi posti di lavoro. Ma che non ha ancora una definizione condivisa ed accettata, nonostante mesi di lavoro al MiTE.
CHE DIRE DELLA COSIDDETTA FER2, attuazione della direttiva europea sulle rinnovabili definite innovative, come eolico off-shore, biomasse, biometano, biogas? In ritardo dal 10 agosto 2019, ad oggi più di 1000 giorni, è arcinoto che senza il decreto FER2 si bloccano anche le aste che per eolico e fotovoltaico che sino ad ora hanno avuto scarso successo a causa dell’aumento dei costi della tecnologia che non sono stati aggiornati. Non ci dimentichiamo poi i molti GW di autorizzazioni pronte e ferme alla Presidenza del Consiglio dei Ministri che potrebbero veramente essere sbloccate con un semplice intervento di approvazione.
A TALE RIGUARDO CI ASPETTIAMO immediatamente una risposta e non occorre avere memoria lunga per ricordare l’intervista al Corriere della Sera del 2 giugno del ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani che affermò: «Al 31 maggio risultano già autorizzati e quindi pronti per essere realizzati 8,3 GW di rinnovabili, di cui 5,1 da realizzare entro il 31 dicembre 2022», salvo in questi giorni dichiarare che per motivi di approvvigionamento viene tutto rimandato. Il tema dell’aumento dei costi era noto da più di un anno e queste ultime affermazioni hanno il sapore di un resa incondizionata senza cognizione di causa. Ma le parole sono macigni.
FERMIAMOCI QUI, AGGIUNGENDO per il momento solo la promozione dell’efficienza energetica nei diversi settori, per cui già esistono fondi disponibili come quelli del Piano di informazione e formazione del D.lgs. 102/2014. Infine c’è l’indispensabile aggiornamento del PNIEC, ma questa è un’altra storia. Occorre aggiornare il vecchio piano nazionale dell’energia, datato 2019, una era geologica fa. Non sono bastati due anni e mezzo e tre governi. Speriamo nel prossimo.
* prorettore alla sostenibilità, Sapienza Università di Roma e presidente Coordinamento FREE -Fonti Rinnovabili Efficienza Energetica
Commenta (0 Commenti)
VERSO IL VOTO. “O noi o Meloni” sostiene Letta. Uno dei modi più diretti per andare incontro alla sconfitta
O noi o Meloni” sostiene Letta. Uno dei modi più diretti per andare incontro alla sconfitta. In primo luogo perché è sempre un errore – anche in presenza di una legge elettorale dai chiari profili incostituzionali – trattare le elezioni politiche con la logica binaria di un referendum abrogativo. E viceversa. In secondo luogo perché nel frattempo il campo largo, il mantra della segreteria Letta, si è ristretto e spostato sensibilmente a destra. I 5 Stelle ne sono stati esclusi, in osservanza al programma Draghi che dovrebbe costituire il piatto forte della proposta politica del Pd. Non stupisce quindi che Giuseppe Conte abbia subito proclamato l’intenzione dei suoi di “correre da soli”, anche se è lecito ed opportuno chiedersi quanti siano coloro che lo seguiranno dopo gli scombussolamenti e le scissioni di cui quel partito è stato vittima in modo programmato e non per responsabilità del solo Di Maio.
Il tema di colmare lo spazio politico che resta aperto alla sinistra del Pd, torna in modo drammatico, sia per i tempi entro cui siamo costretti, sia soprattutto per l’assenza di una forza politica aggregante, dotata di capacità di egemonia e di massa critica adeguate. Ma piangere sul tempo perduto non serve a nulla. Sono state avanzate su queste pagine proposte che
Leggi tutto: Per la Costituzione ma con una leva in più contro la guerra - di Alfonso Gianni
Commenta (0 Commenti)UBER FILES. Uber sta decimando il servizio taxi in molti paesi con un algoritmo: l’autista ci mette auto, benzina, assicurazione. La piattaforma trattiene per sé il 25% degli incassi
La partita tra radio taxi 3570 e Uber, il gigante tecnologico, finisce per ora zero a zero. Il governo con lo stralcio dell’art.10, contestato dai tassisti, ha tolto di mezzo il principale ostacolo ad una rapida approvazione della legge sulla concorrenza. Con la loro mobilitazione i tassisti hanno sollevato questioni attinenti al funzionamento del «libero mercato» e della stessa democrazia. Questioni importanti che sarebbe sbagliato ignorare.
I conducenti di taxi si portano dietro un’immagine negativa che non ha nulla in comune con la battaglia di queste settimane. Ci riferiamo a un recente passato in cui al tavolo delle trattative con le amministrazioni comunali si discuteva di tariffe, di orari di lavoro e, soprattutto, di limiti rigidi all’accesso di altri conducenti al servizio taxi.
Gli accordi firmati dai rappresentanti di categoria avevano come unica bussola la difesa a oltranza di una rendita di posizione: la titolarità «esclusiva» del trasporto pubblico non di linea, certificata da una «licenza» acquistata dai più a peso d’oro. Da questa impostazione derivano sia l’inadeguatezza e il progressivo scadimento del servizio sia l’isolamento sociale e politico della categoria, chiusa nella conservazione dello statu quo, insensibile a qualsiasi un progetto condiviso di mobilità urbana sostenibile.
Detto ciò, la mobilitazione contro l’art.10 ha un segno del tutto nuovo e diverso. Mette al centro la questione, assai sottovalutata, delle ricadute delle innovazioni tecnologiche sul tessuto economico e sociale. Ha il merito di mostrare che le innovazioni, non governate, provocano lacerazioni sociali, accentuano frammentazione e particolarismi, aggravano diseguaglianze. Uber sta decimando il servizio taxi in molti paesi del mondo sulla base di un algoritmo che consente all’azienda di funzionare e macinare profitti senza possedere macchine né assumere lavoratori. Zero costi, insomma. L’autista ci mette l’auto, la benzina, l’assicurazione. La piattaforma tecnologica trattiene per sé il 25 per cento degli incassi.
Giustamente ai 40 mila conducenti italiani di taxi non va giù l’idea che il loro lavoro perda valore, inglobato in un ingranaggio di cui non hanno alcun controllo. L’art.10, ora stralciato, disponeva appunto «l’adeguamento dell’offerta di servizi alle forme di mobilità che si svolgono mediante piattaforme tecnologiche per l’interconnessione dei passeggeri e dei conducenti». Una porta spalancata a Uber, secondo i tassisti. Al contrario, per i liberali di casa nostra, un salto nella modernità e l’apertura del mercato alla concorrenza.
Ma quale concorrenza può esserci mai tra una potente multinazionale come Uber e le cooperative e associazioni di radio taxi? Nell’epoca del capitalismo finanziario e digitale regna piuttosto la legge del più forte. Le chiavi di accesso al mercato sono quasi tutte nelle mani di poche aziende hi-tech, tanto da poter parlare di un nuovo «feudalesimo digitale». I tempi sono cambiati e il «tassinaro», immortalato da Alberto Sordi in un film di 40 anni fa, ha perso la giovialità, l’ottimismo e la bonomia. Oggi appare incupito, preoccupato e incattivito. Si sente assediato e minacciato da una multinazionale che si fa strada con mezzi leciti e illeciti, come ha documentato il Guardian in una recente inchiesta. Non accetta la prospettiva di diventare rider ed essere inghiottito nel gorgo della «gig economy», dove gig in inglese sta per lavoro temporaneo, lavoretto.
Ecco perché oggi non ha più senso parlare di chiusure corporative a proposito dei tassisti. Viviamo in un mondo in cui alcune multinazionali, in virtù della loro potenza finanziaria e tecnologica, occupano spazi di mercato, indirizzano i consumi, modellano l’economia a propria immagine, piegano i poteri pubblici ai propri interessi. Anche l’art.10, apparentemente innocuo nella sua neutralità, avrebbe provocato un rapido scivolamento verso il basso della scala sociale di un bel po’ di lavoratori autonomi, quali sono i tassisti.
La distruzione creatrice» di cui parlava Schumpeter, come occasione di maggiore concorrenza e di sviluppo, è roba paleocapitalistica. Con la rivoluzione digitale, siamo alla distruzione tout court di molti settori e attività e all’accelerazione dei processi di concentrazione del potere economico e della ricchezza. A nulla valgono le deboli misure antitrust contro i nuovi monopoli, messe in atto negli Stati Uniti e nell’Ue.
Non c’è solo Uber. I tassisti hanno lanciato, più o meno consapevolmente, una sfida importante che spetta alla sinistra raccogliere. In gioco c’è l’uso e il controllo democratico delle «piattaforme digitali», se cioè le innovazioni debbano essere appannaggio di pochi padroni o al servizio dell’interesse generale. Questo è il tema. Si tratta di difendere il valore del lavoro, la sua dignità e, insieme, tutto un mondo di relazioni sociali, umane e culturali, che rischia di scomparire sotto i nostri occhi. Sono tante le ragioni per un impegno che sottragga alla demagogia sovranista e di destra gli strati sociali più esposti alla concorrenza (sleale) dei padroni delle nuove tecnologie.
Commenta (0 Commenti)
Il governo Draghi è caduto, il congresso della Cgil è rinviato, il Pd sembra riorientarsi velocemente dal campo largo di cui avrebbe dovuto essere l’asse portante al campo più esplicitamente neoliberista, con pezzi da novanta come Brunetta e Gelmini che annunciano l’ingresso in Azione, il gruppo di Carlo Calenda
Anche la Cgil, seppure con degli argomenti propri, si era unita nei giorni scorsi al coro degli appelli “senza precedenti e impossibile da ignorare” che hanno percosso il Paese.
Un coro trasversalissimo che ha echeggiato dai padroni ai clochard.
Non si può scioperare contro un governo che non c’è, si è detto, ma ora che si fa?
Nelle dichiarazioni rese alla Camera Draghi ha pronunciato la parola sindacati due volte: la prima per rivendicare l’esistenza di un metodo di lavoro condiviso con il governo sin dall’inizio, e la seconda per affermare la condivisione sull’alleggerimento del carico fiscale sui salari più bassi come obiettivo di medio termine, annunciando a breve altri interventi spot.
Del reddito di cittadinanza, il presidente del consiglio ha detto che “bisogna ridurne gli effetti negativi sul mercato del lavoro”, una affermazione che pesa come un macigno, legittimando le infinite e penose lagne di tutti quelli che non trovavano più camerieri, bagnini o commessi.
Dobbiamo ammetterlo, più che a chi ritiene che il reddito di cittadinanza abbia avuto piccoli effetti di riequilibrio del mercato del lavoro il sindacato ha come riferimento chi, in contrapposizione al reddito di cittadinanza che avrebbe problematici effetti finanziari e di etica economica, sostiene la tesi del lavoro di cittadinanza (quello sì che sarebbe facile da mettere in piedi!).
E sul salario minimo, aveva rassicurato Draghi, si procederà in accordo con le rappresentanze sindacali, che sarebbe stata, questa sì, cosa buona e giusta, perché dove c’è sindacato e dove il sindacato è forte, i dati sono innegabili, le condizioni economiche e sociali delle fasce più deboli sono migliori.
Ma suvvia diciamolo, a meno di non voler essere proprio ipocriti, il salario minimo stabilito per legge ha costituito per anni un bel problema per il sindacato, che solo gradualmente e spinto dagli eventi ha rivisto su questo le proprie posizioni, e con molti distinguo.
Nel documento congressuale della Cgil, poi, le parole capitale o capitalismo non compaiono mai, compare una sola volta l’espressione “capitalismi esteri”. La politica ha abbandonato il lavoro, hanno detto più voci della Cgil nei giorni scorsi, ma la cinghia di trasmissione si è spezzata del tutto o ha prodotto qualche effetto di mutazione reciproca?
Il rapporto tra i gemelli siamesi, come li chiamava Luigi Agostini, tra la sinistra e il sindacato, che effetti ha avuto sul sindacato negli anni del neoliberismo? Proprio nessuno? La blairizzazione della sinistra non ha contagiato qualche organo interno del sindacato? Possibile che mentre si approva un ordine del giorno che proclama la mobilitazione per difendere un Servizio Sanitario nazionale più martoriato che mai quasi in contemporanea, si tenga un convegno che teorizza una sanità integrativa che favorirebbe lo sviluppo del suddetto martoriato Ssn; e che ancora si firmino rinnovi di contratti collettivi nazionali di lavoro (ccnl) che prevedono conferimenti economici ai soli lavoratori iscritti ai fondi previdenza complementari?
Il congresso è rinviato, la discussione si farà, ma quando si parlerà degli elefanti che si aggirano nei corridoi della nostra amata e preziosa Cgil, della bilateralità, del numero crescente di dirigenti che non vengono dai posti di lavoro, del conformismo pesantissimo che sta spegnendo quello che fino a tempi recentissimi è stato il sale e il lievito dell’organizzazione, e cioè il pluralismo?
Commenta (0 Commenti)ELEZIONI. Adottare la tattica della destra, cioè coalizzarsi al di là delle differenze di programma e non solo, è l’unica via per avere almeno un’opposizione significativa
La sinistra deve abbandonare il piccolo cabotaggio, hanno ragione Guendalina Anzolin e Loris Caruso che lo hanno scritto sul manifesto. Deve impegnarsi per l’uguaglianza, l’ambiente, la pace, i diritti elaborando strategie e proposte realizzabili. Deve affrontare un paradosso epocale: i subalterni, quelli che dovrebbe rappresentare, quando votano, perlopiù votano altrove. Deve insomma ricomporre un blocco sociale e costruire un’egemonia.
Per questo è necessario impegnarsi nelle periferie sociali, nei luoghi di lavoro compreso quello povero, frammentato e precario, costruire reti di partecipazione e percorsi di mobilitazione, contribuire a rendere possibile quel conflitto sociale strutturato che è la condizione necessaria dell’inclusione sociale e della stessa democrazia. Tutto questo, d’altra parte, richiede una forza politica organizzata, con una massa critica consistente. L’assenza di un partito di sinistra è l’altro paradosso epocale dell’Italia di oggi.
Si sono persi anni, almeno tutta questa legislatura, nonostante le promesse dei dirigenti prima delle elezioni del 2018, e ci ritroviamo di nuovo a votare, con un mese di tempo per presentare le liste. L’argomento di chi dice “facciamo come Mélenchon” – costruiamo una proposta autonoma e quando avrà forza sufficiente potrà trattare e allearsi – ha le sue ragioni ma non ha i tempi necessari nemmeno per essere formulata.
La vittoria della destra è quasi certa ed è noto che con questa pessima legge elettorale se le altre forze vanno in ordine sparso può conquistare quasi tutti i seggi uninominali. Più la parte proporzionale. Adottare la tattica della destra, cioè coalizzarsi al di là delle differenze di programma e non solo, è l’unica via per avere almeno un’opposizione significativa, una presenza parlamentare che è una delle condizioni necessarie anche per quella navigazione nel mare aperto della società di cui si parlava, e per cercare di costruire una proposta politica.
Conte, al di là della buone ragioni di contenuto, forse avrebbe potuto votare in extremis la fiducia, Letta avrebbe potuto pronunciare qualche se e qualche ma nel difendere Draghi. Ruggini e rancori sono anche comprensibili, ma non c’è alternativa ragionevole.
Se questo non avviene, se nel Pd vince la linea renziana e si profila una proposta centrista sulla cosiddetta agenda Draghi (una proposta minoritaria: in Italia non c’è Mélenchon ma non c’è neppure Macron; ci sono Di Maio, Gelmini e Brunetta) occorrerà un piano B. E l’interlocutore per quello che c’è di rosso e di verde in Italia – i partitini più o meno alleati, le liste civiche che in molti comuni e regioni hanno avuto risultati significativi, il mondo del sindacato e dell’associazionismo – non può che essere il Movimento 5 Stelle. Per i contenuti che ha espresso, dai temi sociali a quelli internazionali e, ancora di più, perché quelli che la sinistra dovrebbe rappresentare in qualche modo li ha rappresentati.
Commenta (0 Commenti)