VERSO IL VOTO. Guerra, sanzioni, gas e petrolio, tutto questo ha un peso sulla peggiore campagna elettorale di sempre. Ma non tutti vogliono metterlo in evidenza
La contro-risposta russa alle intenzioni della Ue di apporre un tetto al prezzo del gas russo, non si è fatta attendere: la sospensione delle forniture continuerà fino alla revoca delle sanzioni. Come era del tutto prevedibile.
Eppure le prime dichiarazioni della von Leyen e di Borrel rilanciano una convinzione. Tanto granitica quanto priva di fondamenti esibiti: l’Europa prevarrà! Come non si sa, dal momento che l’impazzimento del costo del gas non è solo opera della perfidia di Putin, ma del modo con cui viene fissato il suo prezzo.
LO SCHIERAMENTO padronale è più lucido della politica. Il presidente di Federchimica Lamberti riconosce che «è stato chiaramente un errore avere attribuito alla piattaforma Ttf di Amsterdam il ruolo di indicatore per il funzionamento di tutto il mercato del gas europeo», perché in questo modo si è costruita una comoda rampa di lancio per la speculazione. Ma la soluzione non sta nel ritorno a rapporti bilaterali tra produttori e consumatori di gas, ma nella costruzione di un ente unico europeo per l’acquisto di energia, che per la sua dimensione potrebbe fare valere il suo peso nella determinazione dei prezzi.
E NON SOLO DEL GAS RUSSO, poiché si tratterebbe di frenare anche le pretese dello shale gas statunitense. Certo, sarebbe un altro sfregio agli appassionati del libero mercato. Ma – come ha osservato l’ex ministro Giovanni Tria – «siamo in guerra e le regole di mercato sono state ben violate (come) accade nelle guerre». Che poi la scelta delle sanzioni si sarebbe rivolta contro i popoli degli stessi paesi che la ponevano in atto, era già scritto nei libri di storia. Si sa, sempre con le dovute differenze.
Intanto la Russia vende la sua energia a Cina e a India – che non disdegnano, soprattutto nel primo caso, di rivenderla a prezzo maggiorato all’Occidente -, mentre, almeno nel medio periodo, la sua economia è in grado di resistere. Casomai dovrebbe cogliere l’occasione per trasformarsi come aveva consigliato, inascoltata, la Presidente della banca centrale Nabiullina.
Ora la più colpita dalla minaccia russa è senz’altro l’Europa, ma le immediate conseguenze sono ormai planetarie.
L’ECONOMIA MONDIALE, per diversi fattori, sembra avvitarsi sempre più in un vortice incontrollabile, come il Maelstrom del celebre racconto di Edgar Allan Poe. Il Fmi disegna un quadro per il 2023 di recessione, o di «velocità di stallo» visto l’impasse contemporaneo di Usa, Europa e Cina.
Nessuna delle tre, il 49% del Pil mondiale, è ora in grado da fare da locomotiva. La Germania rischia di tornare ad essere il «grande malato» d’Europa.
Gli Usa hanno deciso di privilegiare la lotta all’inflazione. La Cina che tra il 2012 e il 2016, crescendo in media del 7,4%, aveva salvato il mondo da una recessione globale, non appare ora in grado di farlo.
Intanto l’Italia pensa da un lato ai piccoli risparmi di energia individual-famigliari e dall’altro di riattivare appieno sei centrali a carbone che emettono circa il doppio di Co2 di quelle a gas naturale. Non «una bellissima cosa» ha riconosciuto il ministro dell’Economia Daniele Franco, ma tant’è.
NEL FRATTEMPO L’EURO è posizionato sotto la parità con il dollaro. Il teorico vantaggio per le esportazioni è, in questa situazione, peggio che compensato dal costo dell’import, visto che il prezzo delle materie prime energetiche, quali gas e petrolio, è in grande prevalenza fissato in dollari.
L’attesa di un inusitato rialzo dei tassi di interesse di 75 punti base, che probabilmente verrà deciso nella riunione della Bce di giovedì 8 settembre, sommato a quello dello 0,50% del luglio scorso, farà felici i falchi e le colombe in mutazione genetica, non certo l’economia reale e l’occupazione. C’è una sola via per bloccare questo globale processo recessivo. Non basta, ma è imprescindibile: costruire un processo per la fine della guerra, per un cessate il fuoco, per la convocazione di una conferenza di pace internazionale. Ma è quello che non si fa.
Tutto questo ha un qualche peso sulla peggiore campagna elettorale di sempre? Se c’è è assai sbiadito e ben nascosto dietro il tradizionale paravento delle accuse e delle controaccuse, dove ognuno finisce per prendersela maggiormente con chi gli sarebbe più vicino. E ciò aumenta il numero degli indecisi, probabilmente dei non votanti, certamente della disaffezione alla politica.
I sondaggi ci indicano come ormai si guarda solo ai personaggi, non alle idee o ai programmi. Ma in questo caso vi è un altro motivo.
DRAGHI LO HA DETTO chiaramente nel suo discorso al meeting di Comunione e Liberazione. Chiunque verrà dopo di me troverà già una strada tracciata. Il Pnrr ci condurrà almeno fino al 2026 e le procedure per cambiarlo sono strettissime, come si è affrettato a dire Gentiloni.
Non è un caso che la Meloni si consigli con Draghi per avere i nomi dei posti decisivi del prossimo Consiglio dei ministri.
IL PERIMETRO DRAGHI in realtà la ricomprende, anche se le sue amicizie nella e fuori dell’Ue e oltre-atlantico creano qualche imbarazzo. Per questo era peggio che debole fin dall’inizio la strada scelta da Letta – o io o lei, per dirla in breve -, anziché quella di una contrapposizione puntuale sul terreno programmatico, ridotta a scontro di slogan, ma privata di una proposta complessiva di società, perché assente da tempo e perché la fedeltà all’agenda Draghi ha fatto agio su tutto. L’alternativa invece parte dalla sua contestazione.
Commenta (0 Commenti)Il governo dichiara una crescita migliore del previsto, ma il "fact-checking" mostra debolezze e pericoli di recessione. L'economia non va e non andrà bene: serve una nuova strategia di sviluppo verde, digitale e sociale, fondato sul lavoro
In queste settimane di campagna elettorale sembra essere tornato di moda il fact-checking, ossia la verifica e l’accuratezza dei programmi presentati dai partiti o delle dichiarazioni dei leader politici. Non dimentichiamoci, però, di fare il fact-checking al governo.
Due giorni fa il ministro dell’Economia Franco ha dichiarato che nel 2022 con sei decreti sono stati stanziati 52 miliardi di euro, “restituendo al sistema economico le entrate che venivano da ripresa produttiva e inflazione”. Ha poi aggiunto di aver “superato le stime dei vari previsori grazie alla robustezza del nostro sistema produttivo”.
Il dato che consente al ministro di poter vantare una crescita migliore del previsto l’ha fornito l’Istat con il comunicato sui conti nazionali del 1° settembre scorso, dove si riporta una variazione congiunturale del Pil pari all’1,1% nel secondo trimestre dell’anno in corso, che comporta una crescita “acquisita” – che si ottiene in presenza di variazioni nulle nei restanti trimestri del 2022 – pari al 3,5%.
In effetti, le previsioni di tutti i maggiori istituti nazionali e internazionali, nonché dello stesso ministero dell’Economia ad aprile, stimavano una crescita al di sotto di tale dato per quest’anno. Ciò induce a pensare, scontando l’inevitabile incertezza del contesto internazionale, che nei prossimi mesi potrebbe materializzarsi lo spettro della recessione. Anche i dati di giugno sulla produzione industriale (-2,1) e sulle vendite al dettaglio (-1,8) non lasciano presagire niente di buono.
A conferma di questa ipotesi, le previsioni per il 2023 riportate nel Documento di economia e finanza appaiono tutte al di sotto dei calcoli degli altri previsori. Stesso discorso sui calcoli sull’inflazione, con l’aggravante che la previsione del ministero del 5,8% a fine anno è già abbondantemente superata dall’inflazione acquisita senza speranza di una robusta frenata dei prezzi.
L’ottimismo del ministro dell’Economia, allora, potrebbe essere ricondotto alle misure messe in campo per affrontare l’emergenza, energetica e non, a partire proprio dai citati 52 miliardi. Eppure, a fronte di misure fiscali per quasi tre punti di Pil, l’effetto sull’economia appare davvero modesto. Lo stesso Istat conferma che il contributo positivo alla variazione del Pil può essere attribuito a consumi (1,5) e investimenti privati (0,4), pur registrando un segno meno sulle scorte per basse aspettative, mentre la spesa pubblica – nonostante il Pnrr – ha fornito un apporto negativo (-0,2), così come la domanda estera (-0,2).
A governo dimissionario, però, non si può contare su una strategia di rilancio degli investimenti, dell’occupazione e dei redditi. L’economia non va e non andrà bene nei prossimi mesi. E non tanto per l’incremento dell’occupazione – la cui variazione è prevista in quantità maggiore o uguale al Pil, al netto delle crisi aziendali che si scateneranno nell’autunno “freddo” – ma per la qualità del lavoro e, soprattutto, per la dinamica salariale, prevista dal governo come dall’Ufficio parlamentare di bilancio, al di sotto dell’inflazione, oltre che della produttività.
Al di là delle politiche economiche che verranno intraprese – speriamo rapidamente – nel contesto europeo per far fronte alla crisi energetica, occorre colmare i vuoti della nostra economia nel più breve tempo possibile, attraverso una nuova strategia di sviluppo verde, digitale, sociale, fondato sul lavoro. Chi si candida?
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Favorita nei sondaggi Giorgia Meloni manda messaggi tranquillizzanti all’esterno e accattivanti all’interno. Assicura Bruxelles che con la destra al governo i conti pubblici non avranno nulla da temere. Intanto non rinuncia, come gli altri due leader della sua coalizione, a promettere mare e monti come se vivessimo nel paese della cuccagna.
Il programma della destra è un florilegio di proposte che mettono insieme dosi massicce di tagli alle tasse e spese fiscali à gogo. Di tassare profitti e rendite neanche a parlarne.
Va bene che siamo in campagna elettorale e domina la propaganda, ma un programma di governo che da un lato introduce la flat tax per i ricchi e, dall’altro, concede sussidi e incentivi a singoli gruppi sociali senza porre alcun limite all’incremento della spesa pubblica, è un nonsense, una clamorosa sciocchezza.
Uno Stato immaginario, «minimo» e «massimo» al tempo stesso. Un ossimoro, un inganno colossale che espone l’Italia a rischi gravi. Non a caso autorevoli analisti tornano a evocare il default e la recessione economica.
Sconcerta il fatto che, nonostante il contenuto contraddittorio e demagogico delle promesse, tutti i sondaggi premino un’offerta politica che esprime il peggio del liberismo e del populismo.
Appare incredibile che i cittadini diano fiducia ad una coalizione che predica lo Stato sovrano e intanto lo sottomette al dominio dei mercati finanziari; che ammicca ai concessionari di spiagge, ai tassisti e a chiunque abbia privilegi e rendite da tutelare; che usa in maniera ignobile il dramma dei migranti; che vuole chiudere il capitolo della transizione ecologica; che si propone la privatizzazione dei servizi pubblici togliendo risorse preziose allo Stato sociale; che strizza l’occhio agli evasori e promette un maxi-condono in un paese in cui il tax gap è di circa 100 miliardi all’anno, e si potrebbe continuare a lungo.
Certamente pesa la crisi culturale del paese, il ruolo dei mass media e il degrado della politica. Senza infingimenti, però, dobbiamo dirci che c’è una corrispondenza diretta tra l’ampio consenso alla destra e l’arretramento politico, culturale e sociale della sinistra.
Dopo la sbornia liberista, sia pure nella versione blairiana, dei gruppi dirigenti del Pds-Ds-Pd, si sono indeboliti i legami sociali e di massa, è cominciata l’emorragia dei voti e si è allargato a dismisura il fenomeno dell’astensionismo.
Il punto è che a disertare le urne, per oltre il 70 per cento, sono cittadini a basso reddito, in massima parte ex elettori di sinistra. La destra ne trae vantaggio e, nel contempo, incamera pure il voto degli evasori.
L’astensionismo elettorale e l’evasione fiscale sono due fenomeni che, in forme diverse, esprimono il malessere sociale, denunciano un grave deficit di partecipazione democratica alla vita pubblica, rivelano una diffusa tendenza a chiudersi nel proprio particulare. Con una differenza fondamentale: il popolo degli evasori, in attesa del prossimo condono, non rinuncia a votare a destra; il popolo degli sfiduciati, dei perdenti e della povera gente continua ad astenersi.
La cosa assurda è che in Italia ad essere rappresentati, grazie alla destra, sono coloro che non pagano le tasse. Avviene un curioso ribaltamento del «no taxation without representation» (no alla tassazione senza rappresentanza), principio costitutivo dello Stato moderno.
Per secoli il «rapporto d’imposta» ha indicato il legame tra la persona fisica e lo Stato, tra imposte e rappresentanza. Ha motivato il «patto sociale» attraverso cui lo Stato esercita le sue funzioni fondamentali e si impegna a garantire ai cittadini sicurezza, giustizia, istruzione, salute e altri diritti sociali e civili.
La riflessione a sinistra deve ripartire proprio da qui, da come ridare voce e rappresentanza al popolo delle periferie, ai giovani precari, a quanti si sentono discriminati, emarginati e tagliati fuori.
L’esito delle elezioni non sarà indifferente ai tempi e ai modi della ripartenza della sinistra Se riuscissimo, contro ogni pronostico, a sconfiggere la destra il compito sarà meno arduo.
Questi giorni saranno decisivi per stabilire un rapporto con i segmenti più deboli della società e cercare di riportarli al protagonismo elettorale.
La divisione delle forze di sinistra rappresenta un altro elemento di vantaggio per la destra. Il Pd è un partito d’opinione, con un orientamento prevalentemente liberal-democratico, ma non si può negare il suo saldo ancoraggio alla Costituzione e all’antifascismo.
C’è poi la galassia del «piccolo mondo antico», illuminante definizione di Norma Rangeri. Unione popolare, guidata da Luigi De Magistris, rappresenta un primo apprezzabile tentativo di aggregare una parte di questo mondo e superare lo sbarramento del 3 per cento. Dobbiamo però aver chiaro che l’avversario da battere, qui e ora, è la destra, non il Pd, SI o i 5 Stelle.
Questa è la realtà oggettiva e non esistono scorciatoie. Dopo il 26 settembre, si tratta di affilare meglio l’arma della critica ed essere pronti a misurarci con le profonde contraddizioni della globalizzazione e del sistema capitalistico.
CRISI UCRAÌNA . Finora ci avevano detto e ripetuto che soltanto i mercati potevano decidere i prezzi, con il dogma inviolabile della domanda e dell’offerta. Vuoi vedere che si erano sbagliati?
Il Nordstream1 su un cartellone a Lubmin, Germania - Ap
Con la guerra in Ucraina scatenata da Putin scopriamo che gas e petrolio russi possono avere un prezzo «politico», così almeno sembra da quanto deciso al G-7 e dal dibattito in corso a Bruxelles. E perché soltanto calmierare le materie prime energetiche russe? Perché non estenderlo ad altri beni primari, visto che nel mondo si muore ancora di fame? Finora ci avevano detto e ripetuto che soltanto i mercati potevano decidere i prezzi, con il dogma inviolabile della domanda e dell’offerta.
Vuoi vedere che si erano sbagliati?
In realtà non è così. Non ci siamo sbagliati. Si possono toccare soltanto
Leggi tutto: Gas e petrolio, il «prezzo politico» della guerra - di Alberto Negri
Commenta (0 Commenti)Se li mettiamo in fila, i segnali di queste settimane ci portano verso un autunno devastante per economia, lavoratori e famiglie. L’inflazione galoppa verso il 10%, le politiche espansive della Bce (e della Federal Reserve) non ci sono più, l’emergenza gas ed energia e del prezzo delle bollette è sotto gli occhi di tutti, le politiche di guerra in Ucraina rallentano gli scambi e l’economia globale.
Le conseguenze concrete sono il rischio della chiusura di imprese e licenziamento di lavoratori, il pesante rallentamento dei consumi privati e pubblici, la perdita del potere d’acquisto di salari e redditi, la crescita della povertà, l’aggravamento ulteriore del debito pubblico, un’ulteriore frenata -dopo il crollo durante la pandemia- del Pil.
Di fronte a tutto, a Cernobbio, da oggi, nell’immarcescibile seminario dello Studio Ambrosetti, in vita ormai da più di 45 anni, l’establishment italiano (e anche internazionale) ci proporrà le solite litanie di un neoliberismo al crepuscolo, con un mercato i cui fallimenti sono stati bene evidenziati durante la pandemia, e ora.
Le imprese che ci hanno riempito la testa per anni con la «centralità del mercato», ora invocano lo Stato, considerato sempre come un nemico da abbattere.
Per gli imprenditori – che da tempo non sono più classe dirigente, ma una corporazione come tante – il mercato è solo «libera volpe in libero pollaio», che si tratti di lucrare sulla pandemia, sul gas o sulle armi.
La politica (anche quella del governo Draghi) gli è andata dietro (per complicità) piegandosi in questi anni a tutto: anarchica circolazione dei capitali, precarizzazione del lavoro, privatizzazioni, riduzione della spesa pubblica.
A Cernobbio, tra gli stucchi e gli specchi preziosi di Villa d’Este, non mancheranno le preoccupazioni su questa fase così delicata, ma ci scommettiamo che non ci sarà nessun dubbio sulla bontà di un modello di sviluppo che ha fatto crescere esponenzialmente le diseguaglianze sociali e portato alla rovina il pianeta.
D’altronde questi anni di pandemia sono stati una manna per i super ricchi italiani che hanno visto aumentare di 70 miliardi il loro patrimonio, mentre -come ci ha detto l’Istat – nello stesso periodo abbiamo avuto un milione di poveri in più.
E mentre nella Cernobbio dell’establishment, si parlerà sicuramente delle preoccupazioni per l’emergenza energetica causata dalla guerra (senza dimenticare che a Villa d’Este, ci saranno anche i rappresentanti delle compagnie che, facendo un sacco di soldi, hanno speculato sul gas e hanno venduto armi per anni a quei paesi) è da prevedere una grande afonia sulla guerra che si sta combattendo sul terreno, su cosa bisognerebbe fare per fermare il conflitto: tema assente anche in questa campagna elettorale.
Ma c’è anche un’altra Cernobbio, promossa da Sbilanciamoci, quella dei movimenti, della società civile, del sindacato che si riunisce negli stessi giorni in una sala parrocchiale, a poche centinaia di metri dalla lussuosa villa frequentata dall’èlite italiana. E lo fa per dire che sono possibili delle alternative: quelle di un modello di sviluppo diverso fondato sulle politiche pubbliche e non sull’anarchia del mercato. Politiche industriali per una mobilità sostenibile e le energie pulite; politiche sociali per un Welfare universale e non fondato sui «mercati sociali»; politiche di redistribuzione per dare di più ai poveri e tagliare qualche privilegio ai ricchi.
Il socialista fabiano R.H. Tawney un secolo fa disse: «Quello per i ricchi è il problema della povertà, per i poveri è il problema della ricchezza».
La concentrazione della ricchezza produce diseguaglianze. Per questo viene lanciata all’altra Cernobbio la campagna Tax the Rich, per togliere un po’ di privilegi (fiscali e non solo) alle grandi ricchezze e agli speculatori della finanza: senza una vera giustizia fiscale, non c’è lotta alle diseguaglianze.
Di fronte alle vagonate sterminate di pagine di programmi elettorali – spesso inconcludenti e contraddittori, irrealistici e insostenibili – all’altra Cernobbio va in scena invece un programma minimo di proposte radicali e realizzabili per cambiare il volto a questo paese, un programma che ha bisogno certamente di gambe per camminare – movimenti, mobilitazioni . – ma anche di un atto di generosità e disponibilità della politica, che sia capace di uscire dalla propria autosufficienza e da dinamiche che la isolano sempre di più dalla società.
Al di là di come andranno le elezioni questa è la sfida che abbiamo davanti per ricostruire le condizioni di un cambiamento possibile.
L’altra Cernobbio si tiene alla sala parrocchiale di Via Cinque Giornate 8 a Cernobbio. Si può seguire l’evento in diretta facebook, collegandosi da www.sbilanciamoci.info, dove si possono scaricare anche il programma e i materiali.
INTERVISTA. L'ex ministro, candidato con i 5S: «Per i rigassificatori di Piombino e Ravenna il governo ha eliminato la Valutazione di impatto ambientale e il Rischio di incidente rilevante. Non sapremo se c’è pericolo per emissioni o esplosioni»
Generale dei Carabinieri Forestali, ministro dell’Ambiente nel Conte 1 e 2, Sergio Costa è candidato 5S a Napoli, voluto dall’ex premier che lo ha inserito nel listino di 15 scelti di persona.
Crisi del gas, servono il price cap e la tassa sugli extraprofitti?
Il tetto al prezzo del gas passa dall’accordo all’unanimità a Bruxelles, vincendo quindi le resistenze dell’Olanda. Immaginando che la negoziazione vada a buon fine, prima di applicarlo effettivamente passano alcuni mesi. In sede di accordo, poi, si deve ottenere la separazione del costo del gas da quello delle rinnovabili, a cui adesso sono agganciate, nonostante abbiano un costo di produzione bassissimo. Le decisioni in Ue e la loro applicazione implicano alcuni mesi quindi bisogna intervenire subito sul costo delle bollette di imprese e famiglie. Non interventi spot ma una programmazione fino alla prossima legge di Bilancio. Serve riscuotere la tassa gli extraprofitti delle aziende energetiche: per superare i ricorsi al Tar, che hanno fermato il pagamento dell’anticipo, occorre un provvedimento di legge urgente giustificato dall’emergenza. E poi c’è un ulteriore elemento: quest’anno il governo Draghi ha voluto aumentare le spese militari fino al 2% del Pil, si tratta di 13,5 miliardi su base annua. Soldi che possono invece essere spesi per famiglie e imprese.
La crisi viene utilizzata per fermare la transizione e insistere con le fonti fossili.
Negoziare con urgenza la separazione del prezzo delle rinnovabili serve a dare una risposta in termini di transizione ecologica a cittadini, attività artigianali e negozi riducendo la necessità di energia fossile del 40, 50%. Si può fare grazie alla norma sulle comunità energetiche voluta dai 5s, sposata da tutto il parlamento. Una disposizione che sconta il ritardo dei decreti attuativi del Mite. Le comunità energetiche, grazie al fotovoltaico, consentono a comuni associati o quartieri di una certa dimensione di erogare energia a costo zero utilizzando i fondi del Pnrr per gli investimenti, bastano 6 mesi. A Napoli est una comunità energetica è stata realizzata, a regime mezzo quartiere non pagherà la bolletta ma ora è necessario un grande sforzo amministrativo e burocratico.
Il governo vuole i rigassificatori.
Rientrano in una norma in deroga dell’esecutivo Draghi: per fare presto si eliminano gli atti preliminari per i due impianti. Piombino è previsto per la primavera 2023 e Ravenna per l’inizio del 2024. Perché tagliare la Valutazione di impatto ambientale e il Rischio di incidente rilevante che invece si applicano in questi casi? Il cittadino non saprà se c’è un rischio ambientale per le emissioni a mare e nell’aria quando una commissione al Mite si occupa di questo. Il Rir è di competenza del Viminale e valuta il rischio di incidenti come un’esplosione. Capisco l’urgenza ma basta dare un tempo limite, come tre mesi, per stilare gli atti. Io, anzi, aprirei l’Osservatorio ambientale dei cittadini a Piombino e Ravenna, la norma l’ho fatta io e quindi so che si può fare.
Com’è cambiato il ministero con Cingolani?
Quando ero io il titolare mi occupavo di ambiente, natura, bonifiche, dissesto idrogeologico. Adesso è stato inserita una parte del Mise, molto robusta, sulle energie assorbendo una delle direzioni generali più grande tra tutti i ministeri, una cosa che ti cambia la mission. Il ministero dell’Ambiente è diventato il ministero dell’Energia. Non sento parlare di biodiversità, ecosistemi, tutela dell’ambiente, dei parchi, di foreste vetuste, fauna selvatica. Sul piano energetico poi c’è un problema: Cingolani dice che occorre portare il paese dal punto A al punto B, ma qual è il punto B? Mi devi far vedere la visione e gli step, per ora c’è il passaggio dal petrolio al gas, la prospettiva non la vedo e neppure gli step.
È stato al governo con la Lega.
Sono stato il ministro che più si è schierato contro Salvini pubblicamente, al Corriere feci l’intervista con il titolo «Salvini studia». Non ero proprio comodo in quella maggioranza.
Il Pnrr va messo in discussione?
Il Pnrr lo scrivemmo nel Conte 2 poi Draghi l’ha sviluppato. Su alcune cose non sono d’accordo perché trovo che al centro non ci sono le famiglie, la lotta a disuguaglianze e povertà, che noi avevamo messo. Ma se vai a ricontrattare quei soldi non li spendi più, il 2026 è domani. Mi pare una sciocchezza.
L’Autonomia differenziata l’ha portata avanti sia il Conte 2 che il governo Draghi.
Io sono tra quelli che all’epoca resisteva, non volevo cedere le competenze dello Stato sull’Ambiente. La bozza di proposta del centrodestra dice che vale la spesa storica: chi ha di più continua ad avere di più. La Campania ha una ripartizione del fondo sanitario pro capite monore del Piemonte in base all’età media, più bassa. Eppure l’aspettativa di vita da noi è inferiore. L’autonomia significa che in Campania puoi morire prima strutturalmente. Questo non è cinismo, è proprio cattiveria.
È dispiaciuto che si sia rotta l’alleanza di centrosinistra?
Non sono di destra. In questo momento il Movimento porta avanti istanze progressiste su disuguaglianze, precariato, nuove povertà, sanità pubblica.
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