LIBIA. Dalla guerra della Nato del 2011, sulla sponda Sud abbiamo accettato l’agenda degli altri che ha ridotto lo spazio della nostra politica estera al minimo. A un filo di gas
L’Italia, la Nato e gli Usa da anni sono in fuga da Tripoli e dalle loro responsabilità. La Libia attuale è il frutto avvelenato del cosiddetto «atlantismo». L’intervento del 2011 contro Gheddafi portò alla fine brutale del dittatore ma lasciò il Paese nel caos, così come quello americano in Iraq nel 2003 e prima ancora in Afghanistan nel 2001. Le cronache di questi giorni da Tripoli, Baghdad e Kabul (a un anno dal disastroso ritiro occidentale) sono esplicite: dozzine di morti e un’instabilità cronica.
Negli ultimi scontri nella capitale libica tra i sostenitori del governo di Tripoli del premier Abddulhamid Dabaibah e quelli di Fathi Bashaga, l’altro premier concorrente eletto dal parlamento di Tobruk, gli occidentali non sono stati neppure citati. Sono stati però menzionati dalle cronache i droni turchi che avrebbero colpito le milizie di Misurata. Per altro furono i turchi nell’inverno del 2019 a fermare l’avanzata sulla capitale libica del generale Khalifa Haftar: allora il governo Sarraj – riconosciuto dall’Onu – chiese aiuto attraverso il vice-premier Meitig sia all’Italia che agli Usa e alla Gran Bretagna.
Ricevuto un netto rifiuto, Sarraj
si rivolse allora a Erdogan, autocrate atlantista al quale lasciamo interpretare e gestire sul campo i cosiddetti valori dell’Alleanza atlantica strombazzati in modo bipartisan dai nostri partiti e dal «nostro» giornalismo mainstream in un campagna elettorale che sui temi della politica estera si svolge a occhi bendati e con forti dosi di ipocrisia: basta vedere cosa accade nei Territori occupati palestinesi, nel Kurdistan turco e siriano, con la resistenza kurda tradita sull’altare della stabilità atlantista grazie all’adesione alla Nato di Svezia e Finlandia in funzione anti-russa per la guerra in Ucraina, e quanto avviene nei lager libici dove vengono concentrati, torturati, malmenati e vilipesi i migranti africani. Ma questi sarebbero ancora gli unici accordi che «funzionano» con la Libia dove abbiamo appaltato la vita di migliaia di persone a milizie e trafficanti, collusi e complici con una guardia costiera finanziata dall’Italia a proposito di valori atlantisti.
Vale forse la pena ricordare ai nostri distratti politici che nel 2011 in Libia l’Italia subì per mano di Francia, Gran Bretagna e Usa la sua più grave sconfitta dalla seconda guerra mondiale. Soltanto sei mesi prima, a fine agosto 2010 Gheddafi veniva ricevuto in pompa magna a Roma, incensato e blandito per via di accordi economici da 55 miliardi di euro che i partiti avevano approvato a stragrande maggioranza. Un mese dopo i raid contro Gheddafi subentrò la Nato a fare da ombrello ai bombardamenti e l’Italia decise di partecipare mentre forse sarebbe stato meglio dichiarare allora la neutralità come fece la Germania. La decisione, con un governo Berlusconi pericolante e balbettante, fu presa dal presidente Napolitano. In poche parole l’atlantismo “all’italiana” non si cura troppo degli interessi del Paese ma preferisce travestire la sua mancanza di responsabilità con il mantello della Nato: allora si disse che bombardavamo Gheddafi per difendere i nostri interessi energetici, dai pozzi di petrolio al gasdotto con la Libia inaugurato nel 2004.
Ed ecco dove siamo finiti. Nel ridicolo e senza l’apporto energetico sperato. I nostri premier per un decennio sono andati in pellegrinaggio a Washington – che ci fossero al potere i democratici o i repubblicani – tornando con la vaga promessa, da vendere alla pubblica opinione, che gli Usa ci avrebbero dato in Libia la «cabina di regia». Ci ha provato anche Draghi quando è andato da Biden nel maggio scorso mentre era già cominciata la crisi del gas con Mosca. «La Libia può essere un enorme fornitore di gas e petrolio, non solo per l’Italia ma per tutta Europa» ha detto Draghi nel suo colloquio alla Casa Bianca. «Tu cosa faresti?», gli ha chiesto il presidente americano. «Dobbiamo lavorare insieme per stabilizzare il Paese» è stata la risposta del premier italiano. Come no.
L’evento non si è puntualmente verificato: insomma l’ennesima presa in giro della cabina di regia. Per altro all’Italia non è andata meglio con l’Unione europea sulla questione dei migranti, dove a Bruxelles hanno puntualmente voltato la testa dall’altra parte sui migranti morti nel Mediterraneo.
Insomma i cosiddetti valori «atlantici» per noi si sono tradotti in una perdita secca che in questo momento di tempesta energetica e geopolitica sono ancora più evidenti. Basta scorrere i dati appena resi noti dall’Eni sul gas e il petrolio libico. Mentre i flussi di gas dalla Russia verso l’Italia sono diminuiti del 45% rispetto allo stesso periodo dell’anno prima nello stesso periodo la Libia ha registrato un -26%. In termini assoluti non si tratta di valori molto alti perché il gasdotto libico Greenstream da tempo subisce i contraccolpi dell’instabilità libica e delle lotte tra le fazioni per la spartizione del territorio e delle risorse energetiche. In realtà questo gasdotto, lungo 520 chilometri e che approda a Gela, avrebbe a pieno regime un portata di 30 miliardi di metri cubi, quasi la metà dei nostri consumi annuali.
Ecco quanto ci è costato e ci costa l’atlantismo. Poi naturalmente non possiamo ignorare che in Tripolitania oggi conduce le danze Erdogan e Haftar in Cirenaica è sostenuto da Mosca e dai mercenari della Wagner, oltre che dagli Emirati e dall’”alleato| egiziano il dittatore Al-Sisi – altro bell’interlocutore dell’atlantismo – , oltre che da una Francia che fa finta di non volersi sporcare le mani. Ma nella sostanza, dal 2011, sulla sponda Sud abbiamo accettato l’agenda degli altri che ha ridotto lo spazio della nostra politica estera al minimo. A un filo di gas.