Il governo dichiara una crescita migliore del previsto, ma il "fact-checking" mostra debolezze e pericoli di recessione. L'economia non va e non andrà bene: serve una nuova strategia di sviluppo verde, digitale e sociale, fondato sul lavoro
In queste settimane di campagna elettorale sembra essere tornato di moda il fact-checking, ossia la verifica e l’accuratezza dei programmi presentati dai partiti o delle dichiarazioni dei leader politici. Non dimentichiamoci, però, di fare il fact-checking al governo.
Due giorni fa il ministro dell’Economia Franco ha dichiarato che nel 2022 con sei decreti sono stati stanziati 52 miliardi di euro, “restituendo al sistema economico le entrate che venivano da ripresa produttiva e inflazione”. Ha poi aggiunto di aver “superato le stime dei vari previsori grazie alla robustezza del nostro sistema produttivo”.
Il dato che consente al ministro di poter vantare una crescita migliore del previsto l’ha fornito l’Istat con il comunicato sui conti nazionali del 1° settembre scorso, dove si riporta una variazione congiunturale del Pil pari all’1,1% nel secondo trimestre dell’anno in corso, che comporta una crescita “acquisita” – che si ottiene in presenza di variazioni nulle nei restanti trimestri del 2022 – pari al 3,5%.
In effetti, le previsioni di tutti i maggiori istituti nazionali e internazionali, nonché dello stesso ministero dell’Economia ad aprile, stimavano una crescita al di sotto di tale dato per quest’anno. Ciò induce a pensare, scontando l’inevitabile incertezza del contesto internazionale, che nei prossimi mesi potrebbe materializzarsi lo spettro della recessione. Anche i dati di giugno sulla produzione industriale (-2,1) e sulle vendite al dettaglio (-1,8) non lasciano presagire niente di buono.
A conferma di questa ipotesi, le previsioni per il 2023 riportate nel Documento di economia e finanza appaiono tutte al di sotto dei calcoli degli altri previsori. Stesso discorso sui calcoli sull’inflazione, con l’aggravante che la previsione del ministero del 5,8% a fine anno è già abbondantemente superata dall’inflazione acquisita senza speranza di una robusta frenata dei prezzi.
L’ottimismo del ministro dell’Economia, allora, potrebbe essere ricondotto alle misure messe in campo per affrontare l’emergenza, energetica e non, a partire proprio dai citati 52 miliardi. Eppure, a fronte di misure fiscali per quasi tre punti di Pil, l’effetto sull’economia appare davvero modesto. Lo stesso Istat conferma che il contributo positivo alla variazione del Pil può essere attribuito a consumi (1,5) e investimenti privati (0,4), pur registrando un segno meno sulle scorte per basse aspettative, mentre la spesa pubblica – nonostante il Pnrr – ha fornito un apporto negativo (-0,2), così come la domanda estera (-0,2).
A governo dimissionario, però, non si può contare su una strategia di rilancio degli investimenti, dell’occupazione e dei redditi. L’economia non va e non andrà bene nei prossimi mesi. E non tanto per l’incremento dell’occupazione – la cui variazione è prevista in quantità maggiore o uguale al Pil, al netto delle crisi aziendali che si scateneranno nell’autunno “freddo” – ma per la qualità del lavoro e, soprattutto, per la dinamica salariale, prevista dal governo come dall’Ufficio parlamentare di bilancio, al di sotto dell’inflazione, oltre che della produttività.
Al di là delle politiche economiche che verranno intraprese – speriamo rapidamente – nel contesto europeo per far fronte alla crisi energetica, occorre colmare i vuoti della nostra economia nel più breve tempo possibile, attraverso una nuova strategia di sviluppo verde, digitale, sociale, fondato sul lavoro. Chi si candida?