IL LUNGO CONFLITTO. Proprio ieri, giorno delle nuove minacce di Putin, era la Giornata mondiale della pace. Lettera aperta al segretario Onu Guterres delle 400 organizzazioni di “Europe for Peace”
Dopo gli ultimi rovesci e le crescenti difficoltà interne Putin mostra di nuovo la «faccia cattiva»: mobilitazione militare rafforzata e rinnovate minacce nucleari. Per ironia della sorte queste preoccupanti mosse sono arrivate ieri, 21 settembre, data in cui da oltre quaranta anni si celebra la Giornata Internazionale per la Pace voluta dall’Assemblea generale dell’Onu per rafforzare gli ideali di pace chiedendo che vengano osservate 24 ore di nonviolenza e di «cessate il fuoco».
Ma mentre il dramma della guerra (non solo in Ucraina, ma anche in tutti gli altri confitti armati «ignorati») prosegue sul binario di una follia che non sembra rallentare (e senza che i potenti della Terra capiscano di doversi impegnare seriamente per evitare la catastrofe) c’è chi continua a pensare a strade possibili di Pace: la società civile.
Ed è proprio nella data significativa della Giornata per la Pace che la coalizione “Europe for Peace” (formata da oltre 400 organizzazioni e promossa tra gli altri da Rete Italiana Pace e Disarmo, Sbilanciamoci, Stop the War Now, AOI Cooperazione e Solidarietà internazionale, Anpi) ha voluto inviare una lettera aperta al Segretario Generale delle Nazioni unite, Antonio Guterres, e ad altri esponenti delle strutture Onu.
Il cuore del messaggio del movimento pacifista italiano è chiaro: i conflitti e le violenze sempre più fuori controllo rendono
Leggi tutto: Regna la guerra e la società civile traccia strade di pace - di Francesco Vignarca *
Commenta (0 Commenti)E così, questo paese stanco e diviso, domenica prossima è chiamato alle urne. Il Parlamento che andava aperto “come una scatoletta di tonno”, nato dal trionfo dei richiami “anti-casta” ed egalitari (M5S) e “sovranisti” securitari (Lega), è stato sciolto prima del tempo, dando il via all’arrembaggio di un numero di seggi tagliato in nome dell’anti-politica, una legge elettorale truffaldina e un Paese di nuovo al palo. Perché dopo quattro anni e mezzo non è cambiato nulla.
Tutti gli indicatori sono in rosso: dal Pil, oggi più basso di allora, all’occupazione, in aumento ma solo nelle fasce precarie, dalle disuguaglianze più alte alla povertà più diffusa. L’abbandono scolastico non è calato, la distanza tra Nord e Sud è cresciuta, le tasse universitarie sono più alte e l’Italia resta il Paese con il più basso numero di laureati in Europa. L’analfabetismo di ritorno è una piaga, si muore sempre e tanto sul lavoro e anche per i tirocini scolastici. Il consumo di suolo continua imperterrito, come la cementificazione. E ora, inflazione, alti costi delle materie prime e la nostra supina adesione alla Nato, invece di vederci protagonisti di iniziative diplomatiche (perché lasciare fare Erdogan o Macron?), ci trova in prima linea tra i fornitori di armi che foraggiano la corruzione in Ucraina e il contrabbando.
Un bilancio non male per quelle forze che, grazie alla loro maggioranza (i 5Stelle), sono state al governo per tutta la legislatura. Ma anche per Lega e Pd, che hanno puntellato due governi su tre. Hanno istituito il reddito di cittadinanza, ma hanno anche emesso i “decreti sicurezza”, il cui impianto è rimasto poi inalterato. E che altro? Certo, si dirà, c’è stata la pandemia. Eppure, l’Italia si annovera tra i Paesi con il più alto numero di morti per abitante tra i paesi europei occidentali. La pandemia ha colpito i più anziani (per l’85%), che sono però anche quelli con più patologie, il più delle volte legate alle loro condizioni di vita.
La pandemia ha colpito i più fragili, tra le fasce più vulnerabili, anche economicamente. E i suoi effetti sono stati così pesanti anche a causa di un sistema sanitario negli anni privato di risorse, mezzi e personale, ove la regionalizzazione ha portato privatizzazioni e inefficienze. Non a caso, l’Italia è tra i Paesi in Europa che spende meno in sanità e spenderà ancor meno, secondo le decisioni di bilancio del governo “dei migliori”.
Un paese provato che oggi, di fronte a sviluppi per i mesi a venire che si prospettano drammatici, viene chiamato a scegliere quale classe politica lo guiderà per i prossimi anni. Se verranno premiate le destre non sarà perché “il fascismo non è mai morto”. La deriva, infatti, nasce prima di tutto dalla profonda delusione, disillusione persino.
Nessun ripensamento è stato espresso tanto dal M5S che dal Pd, nessuno sbaglio è stato ammesso, come se al governo ci fosse stato qualcun altro. Chi ha pagato maggiormente il peso di questi anni bui sono state le classi popolari, subalterne più che mai, attraversate dal disagio sociale e dall’esclusione. E sono quelle, più di ogni altra fascia sociale, per le quali la democrazia appare oggi un guscio vuoto, che non merita più nemmeno l’esercizio del voto. Pagheranno soprattutto le forze di centro e sinistra, che saranno punite per aver consegnato quelle masse al richiamo vacuo del sovranismo nazionalista.
Le elezioni segneranno una svolta. Non tanto perché a vincere saranno le destre – non è la prima volta – ma perché questa volta il partito maggioritario sarà quello post-fascista, “imbellettato” dalla leadership di Giorgia Meloni ma poco diverso – nelle parole d’ordine come nel linguaggio e nel portato culturale che esprime – da quello di Gianfranco Fini. Sarà una svolta perché andremo finalmente a un redde rationem per il Pd e la sinistra tutta. Dal 26 settembre, la storia della sinistra in Italia dovrà ricominciare.
La destra non vincerà perché raccoglie più voti di prima, ma perché saranno M5S e Pd che perderanno quelli che avevano. Sono i voti validi che decidono il risultato. Dei 10,7 milioni che il M5S aveva raccolto, si e no la metà confermerà il suo voto; gli 8,6 milioni che il centro-sinistra aveva, quelli resteranno. E dal calo complessivo dell’affluenza beneficeranno le destre che, con ogni probabilità, non prenderanno più di quei 12,1 milioni che avevano preso nel 2018, ma saranno maggioritarie. E anche “l’altra” sinistra raccoglierà più consensi.
L’Italia in declino è arrivata al capolinea e con essa la prospettiva neo-liberista sposata da più di vent’anni dal centro-sinistra a guida Pd. Le classi popolari andranno riconquistate, mentre il conflitto sociale coverà sempre più rancoroso, gettando a mare la logica che siano i mercati a guidare le scelte. Sarà il momento di riprendere in mano il timone della giustizia sociale e ambientale se non vogliamo l’orbanizzazione definitiva di questo Paese.
Commenta (0 Commenti)ELEZIONI. Per contrastare la disaffezione al voto, e la crisi della sinistra, servirebbe un fatto clamoroso, un impegno straordinario di soggetti organizzati e di singole personalità che esprima una volontà "credibile" di un cambiamento di rotta.
Non si può che condividere l’appello al voto di Norma Rangeri, dall’inizio al finale: il peggio del peggio per la democrazia è togliere la voglia di votare. È il dramma che sta davanti a noi.
Un fenomeno drammatico che coinvolge tanti elettori democratici e di sinistra, nella convinzione diffusa che votare non serva. Ma se è così, per contrastare la disaffezione al voto, e la crisi della sinistra, servirebbe un fatto clamoroso, un impegno straordinario di soggetti organizzati e di singole personalità che esprima una volontà “credibile” di un cambiamento di rotta.
Che cosa si può fare oggi, giunti sulla linea di traguardo? Un impegno che valga dal giorno dopo, quando la dura realtà che temiamo sarà un fatto compiuto? Un impegno a fare insieme un esame congiunto del voto per avviare una fase nuova? Un contratto da un notaio in cui chi firma si impegna a lasciare il partito/movimento al quale aderisce per partecipare ad una nuova fase costituente?
Nella mia rete relazionale c’é chi voterà Pd, chi Verdi-Sinistra italiana, chi Unione Popolare, chi M5s. Non parliamo di entusiasmo che non sappiamo più cosa sia, ma gli argomenti a sostegno delle singole posizioni sono spesso deboli da un punto di vista razionale e talora anche simili: con lo stesso scopo (superare la soglia o poter condizionare..) si fanno scelte diverse, e la confusione regna sovrana.
Inutile adesso distinguere tra il 25 ed il 26. Tutti, convinti votanti, probabili astenuti e sostenitori di due voti diversi tra camera e senato per salvare capre e cavoli, saremo costretti ad iniziare un cammino nuovo. Allora cominciamo a tracciarlo e forse così facendo questo ci aiuterà a scegliere meglio cosa fare il 25.
Io metterei al primo posto una ammissione: riconoscere che siamo inadeguati a passare dai mega obiettivi ideali alla traduzione operativa in termini di risorse, tempi, modalità, ad agire nello spazio tra cultura di opposizione e cultura di governo. La prova concreta è per me l’aver accettato che il Pnrr, un’operazione storica per le scelte implicite, per le risorse che impegna e per le condizioni che impone, sia stato approvato dal parlamento senza discutere. Autoritarismo del governo? Si. Ma anche impreparazione dei partiti (sinistra compresa) e delega ai tecnici (scelta comoda per nascondere le proprie debolezze).
Questo vuoto va colmato costruendo un filo che colleghi bisogni sociali, loro traduzione in obiettivi, uso delle risorse, capacità di collegare risorse ed obiettivi e di misurare cosi la politica. Senza restare fermi agli slogan (su questo terreno vince il populismo) e senza mettersi nelle mani dei tecnici (che suicidio quello di Letta con l’agenda Draghi!).
Al secondo posto dovremmo mettere, penso, il tema guerra ed armamenti. Sul sostegno all’Ucraina e sulla condanna della Russia c’è stata una ampia, anche se non totale, convergenza. Ma sulla ricerca di una soluzione diplomatica e di pace e su una linea di riduzione delle spese militari siamo stati deboli. Ammutoliti dalla paura di essere inquadrati come filo russi. Possiamo riprenderci la nostra autonomia di giudizio e di proposte senza allinearci dietro gli Usa? Possiamo riappropriarci del tema del disarmo e delle spese militari come temi di pace e di futuro? Per parlare così ai giovani ed al mondo cattolico?
E che dire del silenzio sulla crisi della globalizzazione e sul multipolarismo di fronte alla rinascita di confini e dazi doganali, e muri commerciali e della nuova divisione globale in blocchi ideologici militari col rilancio di una Nato mondiale?
Per tornare ai temi quotidiani più vicini alla vita delle persone, abbiamo subito una cavalcata del malessere praticata con abilità dalla doppia destra di Salvini e Meloni capaci di collegarsi direttamente a bisogni popolari, a categorie sociali ed economiche colpite dalle crisi. Intrecciando cultura corporativa vecchia e populismo nuovo, queste forze hanno relegato la sinistra nelle aree privilegiate dei centri storici e delle élite. Mentre il sindacato era spinto all’angolo a proteggere i lavoratori vittime della crisi cercando forme e strumenti di difesa. Ma finendo così per abbandonare il campo sociale delle disuguaglianze, delle nuove povertà, del disagio giovanile.
Comunque vadano le elezioni il sindacato e le forze sensibili a questi temi dovranno trovare sintonia e sinergia per condizionare e cambiare la politica. Ne avremmo, quindi, cose da fare dopo il 25. Ciascuno guardi bene in casa propria. Perché della sconfitta che si delinea non siamo tutti ugualmente responsabili. Né possiamo cavarcela chiedendo scusa adesso. Dobbiamo prepararci ad una faticosa ricostruzione con tanta, tanta, umiltà.
Commenta (0 Commenti)25 SETTEMBRE È GIÀ PASSATO. Sembra autoavverarsi quella infausta profezia che vede il PD destinato al suicidio, come già accadde per Veltroni e Renzi e non c’è molto da rallegrarsi anche tra chi, da tempo, ha deciso di non votare più per esso
Molti e onesti compagni sono stati spiazzati, e ora smarriti, di fronte alla scelta di Letta di non fare accordi con Conte e di non aprire ad un’alleanza che comprendesse l’intero arco della sinistra frammentata. Una scelta incomprensibile tanto più rispetto a una legge elettorale infame che avrebbe dovuto obbligare le sinistre a fare fronte comune, almeno dal punto di vista elettorale, contro uno schieramento di destra che appare (anche se non lo è) compatto.
Ora Letta invoca il “voto utile” per non perdere indecorosamente. Ma questa volta la trappola non funziona, sia perché Conte appare capace e determinato di guidare lo schieramento M5S, sia perché a sinistra è nata la nuova formazione di Unione Popolare che si richiama a quei valori e a quelle classi da tempo abbandonate dal PD di Letta.
Unica giustificazione a sua difesa sarebbe la necessità di proseguire in quella fantomatica agenda Draghi e ricercare il consenso dell’establishment
Leggi tutto: Pensiamo al dopo, quanto mai minaccioso - di Enzo Scandurra
Commenta (0 Commenti)Putin ha avuto dal vertice di Samarcanda con Xi Jinping quello che voleva fortemente. Una risposta all’isolamento delle sanzioni occidentali e al fronte anti-russo, anche se ha alluso in maniera criptica, per la prima volta, alle «preoccupazioni cinesi» sul conflitto.
Il capo del Cremlino, definito da Xi «un caro e vecchio amico», era arrivato in Uzbekistan per la conferenza dell’Organizzazione per la cooperazione di Shangai (Sco) accompagnato dall’eco sinistra della batosta subita nella disordinata ritirata da Kharkiv e prima di decollare aveva lanciato un avvertimento agli Stati uniti: «Gli Usa sono in guerra se forniscono missili a lungo raggio a Kiev».
L’incontro con Xi nei suoi piani doveva confermare, come è stato, la tenuta politica e strategica della sponda cinese nella guerra in Ucraina e i piani comuni di stabilire un «nuovo ordine» internazionale da contrapporre a quello americano-occidentale.
XI JINPING HA DETTO quel che Putin voleva sentirsi dire, anche se, come vedremo, le sfumature sono importanti. La Cina è pronta a lavorare con la Russia «come grandi potenze, per instillare stabilità ed energia positiva in un mondo in tumulto», ha detto il presidente cinese a Putin. Il quale ha denunciato «i tentativi inaccettabili e orribili di creare un mondo unipolare». E Putin, nel lisciare il pelo a Xi, ha condannato, sin dalle prime battute «le provocazioni degli Stati uniti nello Stretto di Taiwan». «Sosteniamo – ha detto – il principio di un’unica Cina». Posizioni inappellabili. «Nessuno ha il diritto di ergersi a giudice sulla questione di Taiwan», ha proclamato Xi Jinping.
MA NON ERA FORSE QUI, nella piazza del Registan di Samarcanda, che i tubi in rame dei re timuridi annunciavano tra le mura delle madrasse i loro proclami? Non è poi così lontana, nel tempo, Samarcanda.
Per Xi Jinping, tra poche settimane protagonista del congresso del Pc cinese, questo era il primo viaggio fuori dalla Cina negli ultimi due anni dell’era Covid, dopo la tappa dell’altro ieri in Khazakistan, in coincidenza con il viaggio di papa Bergoglio che sembra ormai l’unico rimasto tra i leader a invocare la fine della guerra: «Quanti morti ci vorranno per arrivare alla pace?», si è chiesto.
Qui Xi nel 2013 aveva lanciato la Nuova Via della Seta, la Belt and Road Initiative, programma di grandi infrastrutture nel cuore dell’Eurasia che si incrociano con l’espansione commerciale cinese e le rotte delle nuove pipeline dell’energia.
A SAMARCANDA lo aspettavano non solo Putin e i Paesi dell’Asia centrale membri della Sco ma anche i leader di Iran – entrato da ieri a farne parte ufficialmente con il presidente Ebrahim Raisi -, l’indiano Narendra Modi che sull’Ucraina ha preso le distanze dall’occidente, il turco Erdogan – membro della Nato che però non impone sanzioni a Mosca – ma anche i capi di Azerbaijan e Armenia tornati di nuovo sul piede di guerra con in mezzo una Turchia che nel Caucaso, appoggiando militarmente Baku, fa allo stesso tempo da contro-altare e da mediatore con una Russia che fatica assai a mantenere il suo ruolo storico di assoluta protagonista regionale, insidiata anche da un’Unione europea che con gli accordi sul gas della Von der Leyen fa capire di stare più con Baku che con Erevan, in barba ai principi di equidistanza politica.
A Samarcanda, dove certo non tutti sono amici, c’era in questi due giorni un parterre che rappresenta circa la metà della popolazione mondiale e un quarto del Pil del globo, uno schieramento, non un’alleanza, pronto però a rimettere in discussione il predominio occidentale sul mondo.
DALL’INCONTRO TRA PUTIN E XI è emerso quel che si prevedeva da parte russa: il tentativo di Mosca di spingere la Cina ad appoggiare una posizione di confronto verso l’Occidente, con un sostegno ancora più deciso di Pechino contro «l’egemonia globale degli Stati uniti».
Dopo l’invasione dell’Ucraina il 24 febbraio Xi Jinping – che poco prima aveva incontrato Putin a Pechino per le Olimpiadi invernali – ha sostanzialmente condiviso una lettura del conflitto che rintraccia le sue origini nella penetrazione della Nato nell’Europa centrale. È comunque da sottolineare che se Pechino ha condannato le sanzioni occidentali, allo stesso tempo si è ben guardata dal violarle. Un editoriale di due giorni fa del Global Times sottolineava che «la Cina non è mai stata coinvolta nella guerra Russia-Ucraina ed è sempre stata a favore della sovranità e dell’integrità territoriale di tutti i Paesi». Lo stesso China Daily, quotidiano del Partito comunista, ha insistito sulla «neutralità cinese» esprimendo «simpatia per le vittime del conflitto testimoniata dall’aiuto materiale a Kiev per superare la crisi».
Ma, sottolineano i cinesi, Pechino non può non avere buoni rapporti con Mosca con cui condivide 4.300 chilometri di confini.
IL SOSTEGNO ALLA RUSSIA è evidente anche da alcuni segnali. Uno simbolico: Xi non ha mai avuto una conversazione telefonica con Zelenski. E soprattutto il numero tre cinese Li Zhanshu nella sua recente visita a Vladivostok e Mosca per le esercitazioni militari di Vostok 2022 (cui hanno partecipato i membri della Sco) è stato chiaro nell’affermare che «noi sosteniamo totalmente tutte le misure prese da Mosca per proteggere i suoi interessi fondamentali, compreso il dossier dell’Ucraina dove Usa e Nato hanno posizioni che minacciano la sicurezza nazionale della Russia». Non solo: la Cina negli ultimi mesi ha aumentato del 100% i suoi acquisti di petrolio russo (come l’India del resto) e non si escludono in futuro forniture cinesi a Mosca di tecnologie sensibili aggirando le sanzioni, come del resto Pechino fa già con l’Iran e la Corea del Nord.
L’OBIETTIVO PRINCIPALE del vertice era dimostrare che gli anatemi e le sanzioni dell’Occidente non sono sufficienti per isolare un paese. L’elemento in comune condiviso dai russi, dai cinesi e dagli altri partecipanti è la volontà di rimettere in discussione il presunto dominio occidentale. Un segnale che il mondo sta cambiando.ù
Nel Piano nazionale di contenimento dei consumi di gas naturale del governo, che ha un orizzonte a brevissimo termine, perché non guarda oltre il marzo 2023, c’è una piccola parte relativa all’efficienza energetica, che prevede un risparmio di appena 0,2 miliardi di metri cubi. Per quanto piccolo, notiamo che per la prima volta il governo cita il tema, anche se non lo fa in modo non esplicito» racconta Francesca Andreolli, Ricercatrice energia di ECCO, il think tank italiano per il clima. Migliorare l’efficienza energetica di una casa equivale a ridurne i consumi. Gli interventi per farlo riguardano l’isolamento e la coibentazione, sostituendo infissi e porte, isolando termicamente il tetto o aggiungendo cappotti termici, l’installazione di un impianto solare per la produzione di acqua calda sanitaria, il rinnovamento degli impianti di riscaldamento ma anche l’acquisto di elettrodomestici meno energivori. Il riferimento all’efficienza energetica a cui fa riferimento Andreolli è a pagina 14 del documento pubblicato sul sito del ministero della Transizione ecologica, dove – in relazione alle misure comportamentali che comportano un investimento iniziale, e quindi più difficili da attuare – si fa riferimento alla sostituzione di elettrodomestici a più elevato consumo con quelli più efficienti, alla sostituzione di climatizzatori con quelli più efficienti, all’installazione di nuove pompe di calore elettriche in sostituzione delle vecchie caldaie a gas, all’installazione di pannelli solari termici per produrre acqua calda, alla sostituzione lampadine tradizionali con quelle a led. Questi interventi avrebbero secondo l’Enea un potenziale di risparmio di 1 miliardo di metri cubi di gas, ma solo un quinto sarà realizzato nell’orizzonte del Piano, il prossimo inverno.
Perché a suo avviso vale la pena evidenziare misure a cui è attribuito un potenziale di risparmio pari al 2,5% dell’obiettivo complessivo?
Nonostante esistano dal 2007 una serie di bonus finalizzati a migliorare l’efficienza energetica, in precedenza il tema non era mai citato: adesso almeno se ne parla, per lo più in relazione al «superbonus 110%», che è al centro del dibattito politico anche se non si discute quasi mai entrando nel merito degli aspetti tecnici della misura e su come possa essere migliorata.
Il Piano è a breve termine ma anche poco coraggioso, spiega la vostra analisi. Quale sarebbe una risposta strutturale?
Con bollette così alte, legate all’aumento del prezzo del gas ognuno di noi sta facendo uno sforzo per ridurre i consumi. Già nei primi mesi del 2022 la domanda gas è scesa del 6% nella rete di distribuzione (prevalentemente domestico) e del 9% nell’industriale. Di fronte a questo, il governo propone un Piano che è il minimo indispensabile per raggiungere l’obiettivo richiesto dall’Europa, un taglio del 15% nei consumi. Una riflessione di medio termine dovrebbe affrontare il tema delle rinnovabili. E se la previsione di Elettricità Futura di installare 20 gigawatt (GW) all’anno nei prossimi tre anni è stata ridimensionata a 6 o 7 GW. Oggi si è un po’ accelerato sulle autorizzazioni, ma un problema resta: i risparmi sono ottimi quando diventano strutturali.
Interventi strutturali sono quelli sul patrimonio edilizio. «Con gli attuali prezzi del gas una abitazione di 100 m2 nella zona climatica della pianura padana in classe G ha una bolletta annua di 2.573 €, in classe A la spesa si riduce a 383 €. Oltre 2000€ in meno», scrivete.
Un piano per l’efficientamento energetico del patrimonio edilizio è necessario. La prima legge che ha introdotto il tema è del 1976, ma molti edifici sono precedenti, per cui il nostro patrimonio richiede moltissima energia, le case sono vecchie e hanno una classe energetica superiore alla F o alla G. È fondamentale migliorarne le prestazioni.
È ciò che si sta facendo con il Superbonus?
Il Superbonus è una misura introdotta per ridare vitalità al settore edilizio e ha dato risultati: il settore è rinato. Adesso però bisogna puntare agli obiettivi europei, va adeguato al pacchetto fit for 55 che ha alzato al 55% dal 40% l’obiettivo di riduzione delle emissioni al 2030. Il Superbonus deve diventare uno strumento che punti al raggiungimento di quegli obiettivi. Va aggiornato anche il Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima 2030, adeguando l’obiettivo di risparmio a 1,5 milioni di tonnellate equivalenti di petrolio all’anno. Per far questo dobbiamo ripensare i bonus, fare opera di razionalizzazione. Non tutti (bonus facciate o bonus casa) sono legati ad interventi sull’efficienza. Il superbonus senz’altro è costoso ma ha molti aspetti positivi. Il principale è che considera le prestazioni dell’edificio nel suo complesso, andando ad analizzare la classe energetica prima e dopo: gli obiettivi, però, non sono così sfidanti, perché un miglioramento di due classi, quando parti dalla F o dalla G, non dà la sicurezza che si realizzino ristrutturazioni profonde, quelle che garantiscono un risparmio superiore al 60%. Un altro problema del superbonus e dell’ecobonus è che continuano a incentivare le caldaie a gas, mentre dovremmo elettrificare i nostri consumi. Dovremmo incentivare piuttosto le pompe di calore elettriche. La misura, però, non va assolutamente eliminata: è necessaria, altrimenti non si spinge il settore verso la decarbonizzazione.
A fronte di queste esigenze, qual è il suo giudizio sul dibattito politico legato al superbonus?
È surreale, perché dovrebbe entrare sugli aspetti tecnici della misura, a partire da tutti gli aspetti che devono essere migliorati, affrontare il tema della razionalizzazione dei bonus e offrire un indirizzo verso gli obiettivi di efficienza energetica, per valorizzare solo tecnologie compatibili con la decarbonizzazione. Dovrebbe affrontare l’esigenza di un piano di lungo periodo, dando obiettivi e scadenza. Esempi: entro il 2028 dobbiamo arrivare ad avere tutte le case almeno in classe energetica D, nel 2035 in classe B. La scadenza brevissima è una delle cause della bolla che ha fatto aumentare i costi delle materie prime. La politica poi dovrebbe affrontare anche il nodo della «cessione dei crediti», perché questo meccanismo ha permesso di superare una serie di problemi, ad esempio garantendo la possibilità di realizzare investimenti anche a chi è affittuario e aprendo l’opportunità del superbonus anche a chi ha redditi più bassi. Questo anche se i dati confermano che il superbonus è una misura mediamente utilizzata da chi appartiene alle classi di reddito più elevate. Potremmo pensare anche a livelli di detrazione diversi rispetto alle classi di reddito.