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COMMENTI. Il governo finge di non capire che se la domanda interna langue (salari fermi, perdita di potere d’acquisto, precariato), le misure avranno scarso effetto sull’occupazione

Confindustria comanda, palazzo Chigi obbedisce

Occorrere prendere atto che colui che tira le fila della politica economica e industriale in Italia è Carlo Bonomi, presidente di Confindustria. Non certamente il ministro Giorgetti, che si limita a passare i conti, né, men che meno, il ministro Fitto, responsabile di facciata del Pnrr italiano. D’altra parte il governo Meloni, come la buona parte di governi di destra non liberale, è stato creato proprio a tale scopo dischiarato: non disturbare il manovratore, termine molto più soft per indicare gli interessi padronali.

Ecco allora che Bonomi va a Bruxelles nel febbraio scorso, in occasione del vertice UE sull’economia e incontra i commissari europei Vestager, Gentiloni e Dombrovskis, perorando due idee che possono rafforzare il governo Meloni: la diffidenza nell’adozione del MES (il Fondo Salva Stati) e la possibilità di un intervento diretto del sistema delle imprese (ovviamente, quello confindustriale) nella gestione di quei fondi del Pnrr che il governo fatica a utilizzare. Si tratta di due assist a sostegno del governo Meloni e ribaditi in occasione della riunione del Consiglio dei Ministri sul decreto lavoro, simbolicamente e provocatoriamente indetto per il 1 maggio.

Le decisioni prese sono un regalo per Confindustria e ripagano il supporto padronale pro-governo. Si interviene con la riduzione del cuneo fiscale, provvedimento bandiera del decreto e propagandato come il primo intervento a sostegno dei salari da anni. Purtroppo è vero. I precedenti governi non hanno mai attuato politiche di sostegno alle retribuzioni: il salario minimo è rimasto sulla carta, la capacità contrattuale dei sindacati è ridotta al lumicino, visto che nulla è stato intentato per riaprire la contrattazione nazionale per favorire il recupero (almeno parziale) di quel 7,6% che L’Istat dichiara essere la perdita media reale dei redditi di lavoro nel corso del 2022 a causa dell’elevata inflazione. A differenza di altri paesi europei (UK, Spagna, Francia, Germania), qui da noi non si muove foglia.

Il taglio del cuneo fiscale sugli stipendi dei dipendenti (per un valore di 3,4 miliardi) varrà al massimo 28 euro netti (non i 52 euro lordi, propagandati dalla stampa di regime) in più al mese: dai 19,25 per i salari sino a 10.000 euro, ai 41,15 per i salari di 25.000 euro e i 32,85 per i salari fino a 35.000. Si tratta di un intervento del tutto parziale e insufficiente per recuperare la perdita del potere d’acquisto e per di più temporaneo, in vigore solo fino a dicembre 2023. Inoltre, essendo a carico della fiscalità generale e quindi di tutti i contribuenti, esimia il padronato da sborsare alcun euro, in un contesto dove l’elevata inflazione è servita a gonfiare in modo rilevante i profitti di impresa (come dichiarato anche dal Paul Donovan, autorevole capo economista della banca svizzera UBS, poco tempo fa).

Se tale provvedimento rappresenta lo specchietto per le allodole, ben diverse e peggiorative sono invece le finalità degli altri due provvedimenti inseriti nel decreto lavoro del 1 maggio. Il primo sancisce l’allungamento a 24 mesi della possibilità di utilizzare i contratti a termini senza causale, rendendo strutturale il provvedimento di deregolamentazione di tale contratto precario (già oggi largamente abusato) introdotto, a scopo temporaneo causa sindemia, dal governo precedente. A ciò si aggiunge anche un ulteriore allargamento nell’uso dei voucher (lavoro occasionale usa e getta) la cui soglia di utilizzo per i lavoratori di aziende che operano nei settori dei congressi, delle fiere, degli eventi, degli stabilimenti termali e dei parchi divertimento sale sino a 15.000 euro.

Il secondo provvedimento riguarda l’abolizione del reddito di cittadinanza e la sua sostituzione con l’assegno di inclusione, che sarà rivolto solo alle famiglie che non superano la soglia Isee di 9.360 euro annue, in cui però devono essere presenti disabili, minori o over-60 e che potrà arrivare a 500 euro al mese, cui aggiungere 280 euro se il nucleo vive in affitto. Verrà erogato per diciotto mesi e potrà essere rinnovato, dopo lo stop di un mese, per periodi ulteriori di dodici mesi. Stretta del beneficio invece sugli occupabili: per loro farà il suo esordio lo Strumento di attivazione al lavoro dal primo settembre 2023, in cui la formazione con la partecipazione ai corsi diventa vincolante. Sarà di 350 euro e al massimo per dodici mesi, non rinnovabili.

Infine, a vantaggio ancora del mondo delle imprese, è previsto per dodici mesi, l’esonero del 100% dei contributi previdenziali per i datori di lavoro che assumono i beneficiari dell’Assegno di inclusione con contratto a tempo indeterminato o di apprendistato.

Ancora una volta, le scelte di politica economico sono tutte a vantaggio del lato della produzione e delle imprese, Confindustria ringrazia sentitamente. Il governo fa finta di non capire che se la domanda interna langue per stagnazione dei salari, perdita di potere d’acquisto, precarizzazione del lavoro e dei redditi, tali misure sono solo un regalo ai profitti e poco effetto avranno sull’occupazione (se non quella di accentuare la già elevata precarizzazione). E non sarà sufficiente neanche la proposta di un piano per il lavoro, come auspicato dai sindacati e, su queste pagine, anche da Laura Pennacchi, a poter invertire la situazione.

Di sicuro, in Italia, mancano tutta una serie di politiche pubbliche di salvaguardia del territorio e dell’ambiente, a sostegno dei servizi sociali primari, ecc. La carenza di manodopera in questi ambiti è notoria, a partire dalla sanità e dall’istruzione, che vedono diminuire i finanziamenti pubblici in rapporto al Pil.. Ma tali politiche sono possibili solo se sono accompagnate da un piano di riforma complessivo del welfare, che garantisca continuità di reddito, introduca un salario minimo, adotti una politica fiscale redistributiva, tassando i più ricchi a favore dei più poveri.

Sinistra, se ci sei, batti un colpo

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COMMENTI. Tutto sarebbe filato liscio al Concertone del Primo Maggio se non ci fosse stato l’intervento del fisico Carlo Rovelli. Sfilata di cantanti sui quali gli esperti hanno subito stilato una […]

Il buco nero della guerra

Tutto sarebbe filato liscio al Concertone del Primo Maggio se non ci fosse stato l’intervento del fisico Carlo Rovelli. Sfilata di cantanti sui quali gli esperti hanno subito stilato una classifica, convinta conduzione necessariamente retorica ma manco troppo, e soprattutto decine e decine di migliaia di giovani e non, sotto la pioggia ad ascoltare, a partecipare al solito rito.

Che stavolta è sembrato a tutti meno ripetitivo, meno sottrazione del conflitto e più restituzione di temi veri, perché ridotto all’osso del confronto tra il triste presente del lavoro precario e i contenuti della Costituzione. Intanto nelle stesse ore, quasi a contraddire la giornata «altra» dei giovani in piazza per il Concertone che resta organizzato e voluto dalle tre confederazioni sindacali, la presidente del Consiglio Meloni – che chiama Cgil-Cisl-Uil con il termine spregiativo “la triplice” come del resto i fascisti hanno sempre fatto nel Belpaese – mandava in onda, volutamente in alternativa al protagonismo sindacale delle piazze, uno spot sulla «sua» febbrile giornata lavorativa, sullo sfondo i ministri ridotti a comparse, con un piano sequenza che scavava negli angoli di Palazzo Chigi, così indimenticabile da far apparire quello della “Giornata particolare” di Ettore Scola come una prova d’esami dello Sperimentale di cinematografia. Poi l’intervento di Carlo Rovelli che ha fatto ancora di più la differenza.

Il fisico, teorico e studioso dei «buchi bianchi», considerato tra i maggiori divulgatori scientifici al mondo, gentile e pacato come sempre si è rivolto ai giovani leggendo un suo testo nel quale ad ogni tratto ha ripetuto un intercalare: i problemi seri del mondo dove «non tutto è meraviglioso» possono essere affrontati solo dai giovani, «solo voi potete affrontarli».

«C’è una catastrofe ecologica che sta arrivando e rischia di rovinarvi il futuro – ha detto – e nessuno prende le decisioni per fermarla perché a qualcuno dà fastidio, ci sono diseguaglianze che crescono, ma voglio dirvi che stiamo andando verso una guerra che cresce e invece di cercare soluzioni i Paesi si sfidano, invadono paesi, soffiano sul fuoco della guerra e la tensione internazionale non è mai stata così alta come adesso».

Poteva bastare la catastrofe ambientale, si poteva pure sopportare la denuncia delle diseguaglianze che dilagano e che si aggraveranno con i provvedimenti del governo Meloni come in piazza hanno denunciato i segretari confederali e in particolare Landini, ma l’insistenza sulla guerra è stato davvero «troppo», uno «scandalo»: «Spendiamo più di due trilioni di dollari in spese militari – ha continuato Rovelli senza alcuna

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Alfonso Gianni (il Manifesto): «Dalla riunione dei Paesi ...

La lettura del Def ci conferma in buona sintesi che la Melonomics è una prosecuzione della politica economica di Draghi, con marcate accentuazioni in chiave di austerity, perfettamente coerenti con le attuali scelte europee, sempre più subordinate agli interessi Usa, e alla politica monetaria restrittiva della Bce.

Mentre sul terreno dei diritti civili e sociali, come sulle politiche migratorie, il governo ha da subito incrudelito scelte ed atteggiamenti – con l’aggiunta delle note dichiarazioni fascisteggianti da non sottovalutare - che lo avvicinano di più all’area orbanista, la sua politica economica si modulava finora lungo due indirizzi.

L’uno, rappresentato dal neoliberismo nella sua forma più cruda, accentuando le politiche privatistiche e antiwelfare, motivate culturalmente – si fa per dire - dal rilancio in ogni campo dell’esaltazione del merito.

L’altro, costituito da un insieme di neocorporativismo e di sbriciolamento distributivo, che cercava di non alienarsi i ceti popolari.

Da quanto emerge, il Def sposta il vacillante equilibrio tra questi due aspetti decisamente a favore del primo. Non si prevede alcuna reale politica di bilancio per contrastare la contrazione dell’economia e l’immiserimento della popolazione, accentuati dalla guerra - di cui non si intravede, non a caso, né fine né tregua – dall’incremento dell’inflazione e dall’aumento dei tassi che la Bce persegue indefessamente.

Si dirà che gli spazi per una simile manovra sono scarsi. La soglia “psicologica” dell’1% di crescita promessa dalla Meloni non è raggiunta per quanto riguarda il “tendenziale” a legislazione vigente. Il Def la inchioda allo 0,9%, ma le stime di autorevoli istituzioni sono più basse, a cominciare dal Fmi che prevede per l’Italia un rialzo del Pil dello 0,7%, entro un quadro che riporta la crescita mondiale ai valori del 1990, con possibilità di peggioramento.

È vero quindi che il governo Meloni si muove in un quadro difficile, ma scelte e incapacità lo aggravano pesantemente, come si vede anche nell’implementazione del Pnrr. Soprattutto lo si vede nell’incremento dell’avanzo primario, cioè del risparmio al netto delle spese per interessi, che, nel 2024 sarà pari a circa 6 miliardi, per crescere a 26 e 45 miliardi nei due anni successivi.

La cancellazione della Fornero – cavallo di battaglia della destra “sociale” – è così passata in cavalleria.

Mentre si prevede la finalizzazione nella legge di Bilancio di fine anno di un ulteriore aumento delle spese militari di circa 1,8 miliardi, dall’1,38% del Pil all’1,48%, con l’obiettivo voluto dalla Nato di raggiungere il 2%.

Né i 3 miliardi che sbucano dal mantenimento del deficit tendenziale al 4,5%, in luogo del previsto 4,35%, che verranno utilizzati, con un futuro provvedimento, per ridurre il cuneo fiscale, risolvono alcunché sul fronte delle troppo basse retribuzioni.

Mentre la riforma fiscale annunciata, con la riduzione delle aliquote da tre a due, premierà i ceti più forti, distruggendo ogni barlume di progressività.

Lo riconosce persino Confindustria – che di suo però non vuole mettere nulla – quando osserva che gli effetti sulla busta paga saranno modesti. Se si considerano i tagli per pensioni e sanità già avvenuti, quelli ulteriori che verranno, specie in campo scolastico e sanitario anche in conseguenza dell’autonomia differenziata – se il progetto governativo passerà - si può prevedere che il taglio del cuneo fiscale non compenserà perdite ed esborsi di reddito di un lavoratore medio.

La riforma del patto di stabilità europeo, presentata in questi giorni dalla Commissione, respinge il puro ritorno al passato voluto dalla Germania e dai paesi “frugali”, ma la riduzione progressiva del debito, con un percorso da concordare, porta di fatto ad un commissariamento della politica di bilancio dei paesi più indebitati, fra i quali il nostro.

Vi è chi dice, come Bini Smaghi ex membro del board della Bce, che ormai il Def sarà inutile visto che non si può modificare quasi nulla lungo il percorso concordato. Come è noto il governo punta sullo scorporo di green e digitale dal calcolo su deficit e debito, che restano fissati, nella loro stupidità, agli obiettivi del 3% e del 60% del Pil come prima.

La partita si deciderà in estate, ma le premesse non sono buone. Intanto ci troviamo di fronte ad una enorme questione salariale, alla quale la risposta dei tre sindacati confederali appare debole e inadeguata. Almeno finora.

Eppure di fronte ad una inflazione del carrello della spesa che viaggia su due cifre e un aumento nel 2022 dei salari dell’1,1%, ci sarebbe spazio per un incremento significativo e percepibile delle retribuzioni, senza innescare alcuna spirale, come riconosce anche il Centro Europa Ricerche (Cer), il noto centro studi al quale in molti fanno riferimento.

Ma questo più che argomento di dibattito istituzionale è tema di lotta sociale e, appunto, sindacale

 

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Non servono passerelle, ma un luogo di elaborazione collettiva tra forze sociali e politiche che, con metodo democratico definisca una strategia della sinistra che inveri ora la Costituzione

 

Quel che noi chiediamo alle forze politiche è di uscire dalla retorica della costituzione, per prenderla sul serio, prendere sul serio la portata normativa del nostro patto sociale. Non è, infatti, tollerabile dividere l’Italia in nome di una isolata disposizione costituzionale, letta fuori contesto, (l’art. 116, III co) dimenticando il principio fondamentale dell’articolo 5 che impone l’unità della Repubblica, dell’articolo 3 che prescrive il rispetto del principio d’eguaglianza su tutto il territorio nazionale, dell’articolo 2 che richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. Non è sopportabile che si dimentichi che la nostra costituzione dispone di riconoscere e garantire i diritti inviolabili dell’uomo su tutto il territorio nazionale, per andare invece solo alla ricerca delle tutele minime dei diritti sociali e civili mediante una generale e generica “determinazioni” governativa dei Lep. Riscrivendo in tal modo per intero lo stato sociale utilizzando una Cabine di regia, formalmente assistita da una Commissione, la quale, per quanto quest’ultima possa essere ritenuta autorevole, è pur sempre un organo tecnico senza rappresentanza; escludendo invece il vero organo della rappresentanza reale, che è il Parlamento.

Non è accettabile che si favorisca la precarietà perseguendo nelle miopi politiche sulla flessibilità del lavoro sin qui adottate, che si voglia cancellare qualunque forma di

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SCENARI . Il processo della ricostruzione deve essere intrecciato, secondo il governo italiano, a quello dell’adesione dell’Ucraina all’Unione europea e alla sua integrazione nel mercato comune. Ecco il punto dell’ambiguità. Perché quello che avviene in realtà sul terreno dei rapporti tra Ucraina ed Unione europea mostra invece una realtà a dir poco opposta

La Cina dialoga. E dall’Est Europa sì alle armi no al grano 

Il ritorno sulla scena del conflitto ucraino della diplomazia cinese segna la giornata di ieri tra le più importanti per chi pensa ad una soluzione negoziata della crisi che si è ufficialmente aperta con l’invasione russa dell’Ucraina un anno e due mesi fa.

L’attesa telefonata di Xi Jinping è stata per Zelensky «lunga e significativa» accompagnata anche del rilancio degli scambi bilaterali con la nomina dell’ambasciatore ucraino a Pechino; per parte sua Xi ha insistito sulla linea cinese: «Il dialogo e il negoziato per la pace sono l’unica via d’uscita praticabile», aggiungendo che «non ci sono vincitori in una guerra nucleare», con chiaro monito per una crisi appesa all’uso sfrenato di armi sempre più micidiali e che rischia la «linea rossa» dell’atomica; e ribadendo, nonostante che Pechino non abbia messo sanzioni a Mosca e anzi difenda il rapporto «indistruttibile» con la Russia, che «il rispetto reciproco di sovranità e integrità territoriale è la base politica delle relazioni Cina-Ucraina».

Positive ma fredde le reazioni di Mosca e di Washington, ma l’avere allacciato questo dialogo è probabilmente una svolta nei rapporti internazionali appesi alla guerra ucraina, e anche al confronto, per ora solo di teatro, Usa-Cina per la crisi di Taiwan.
Di altro segno, se non opposto, la conferenza bilaterale tra Italia e Ucraina per la ricostruzione della martoriata Ucraina che si è svolta ieri a Roma. A guerra però non ancora conclusa, e anzi ogni giorno più sanguinosa.

Alla conferenza la premier Meloni ha portato come interlocutori del dividendo di guerra che si apre, ben 600 aziende italiane. «Parlare della ricostruzione dell’Ucraina – dice Meloni – significa scommettere sulla vittoria e

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25 APRILE. Questo anniversario della Liberazione è stato forse il più antifascista di sempre, perché ha moltiplicato la presenza di donne, anziani, ragazzi nelle piazze, da Milano a Roma

 Milano, 25 aprile - foto LaPresse

Mentre il presidente Mattarella va in montagna con Piero Calamandrei ricordando il significato del 25 aprile, la presidente del consiglio sciorina al Corriere della Sera un fiume di parole quando ne bastava una. Difficilmente i due Palazzi romani hanno mostrato la diversità, svelato la distanza, interpretato il contrasto tra una cultura che affonda le radici nell’antifascismo e perciò nella Costituzione, e una ideologia liberticida che galleggia sui luoghi comuni del neo-post-fascismo.

Questo anniversario della Liberazione è stato forse il più antifascista di sempre, perché ha moltiplicato la presenza di donne, anziani, ragazzi nelle piazze, da Milano a Roma (come abbiamo documentato con la diretta-tv sul manifesto.it), rinnovando l’impegno alla resistenza antifascista e antirazzista. Dopo sei mesi di messa alla prova del governo più a destra della storia dal ’45 a oggi, sappiamo che sono sotto attacco i diritti individuali e collettivi, civili e sociali da parte di forze e personaggi che, per convinzione, sono estranei ai valori della Resistenza.

LA REDAZIONE CONSIGLIA:

Speciale 25 Aprile ai tempi del governo di Giorgia Meloni: rivivi la diretta del manifesto

Per il partito di maggioranza il 25 aprile è ancora vissuto come il giorno della sconfitta, comunque camuffata, preferibilmente usando

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