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Trema il confine est dell’Ucraina. Quattro attacchi russi a Kharkiv, colpito anche un centro commerciale. Kiev indaga i suoi ufficiali per la mancata difesa del fronte. Per il segretario dell’Alleanza atlantica la soluzione è scatenare le armi Nato sul territorio della Russia

Chi più ne ha

IL LIMITE IGNOTO.

«Ciò che sta accadendo oggi a Bruxelles e a Washington… sta creando l’atmosfera per un eventuale conflitto militare, che potremmo anche descrivere come una preparazione all’entrata in guerra dell’Europa»: la dichiarazione del sovranista ungherese Viktor Orbán sembrava una boutade, invece è stata confermata e rilanciata ieri dal segretario della Nato Jens Stoltenberg in una intervista all’Economist nella quale invita gli alleati Nato che forniscono armi all’Ucraina a «porre fine al divieto di usarle per colpire obiettivi militari in Russia».

Insomma, prepariamoci ad entrare in guerra con la Russia. Un intervento il suo a gamba tesa nella delicata campagna elettorale in corso per le europee, dove i governi Ue e gran parte degli schieramenti politici, tacciono sulla questione cruciale per il destino dell’Europa; per l’Economist Stoltenberg si rivolge anche a Biden, che ancora vuole controllare ciò che l’Ucraina può attaccare con i sistemi forniti dagli Usa – ma il segretario di Stato Blinken la pensa come Stoltenberg. Si tirano le somme di quello che finora hanno fatto la Nato, gli Usa, l’Ue e molti governi a partire da Giorgia Meloni: nuovi 60 miliardi in armi per Kiev, decisione di acquisti di munizioni concordate anche con il prelievo dal Pnrr, operazioni d’intelligence, accordi di cooperazione militare decennali, gli F-16 in arrivo dopo aver addestrato i piloti… Tutto perché l’inutile massacro continui e in assenza totale di una iniziativa congiunta dell’Ue per un tavolo negoziale per il cessate il fuoco e per un accordo di pace concordato – non il finto summit senza la Russia di giugno in Svizzera. Mentre dal Sud del mondo le iniziative per la pace non mancano: Xi in Europa di questo ha parlato, tanto che il ministro degli esteri ucraino Kuleba con la moglie di Zelensky sono corsi a Belgrado dopo la sua visita; e a Pechino il ministro degli esteri Wang Yi e il consigliere del presidente brasiliano Lula, Celso Amorim. propongono i temi di una de-escalation del conflitto.

Grave è la responsabilità della Ue. A fronte del fatto che sul campo, dallo stallo alla ritirata ucraina, non si prefigura alcuna possibile vittoria di una parte e nemmeno dell’altra, nonostante la limitata quanto sanguinosa avanzata russa; e che la situazione di stanchezza e di fuga di milioni di giovani russi e ucraini, un’intera generazione, dal fronte bellico, invece richiederebbe uno sforzo negoziale per fermare la guerra, recuperando i

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USCITA DI EMERGENZA. Il fumettista romano in trasferta a Budapest, nel mezzo del tour di presentazione del nuovo libro, per assistere al processo: «Non dico a nessuno se votare o meno, ma le persone devono avere gli strumenti per valutare la gravità della situazione. Che non è risolta con i domiciliari»

Zerocalcare: «Sulla candidatura di Salis tutti devono capire la posta in gioco» Il fumettista Zerocalcare - Ansa

«La cosa più pericolosa è l’idea del rompete le righe. La situazione di Ilaria Salis non è ancora risolta». Nel mezzo di un tour impegnativo e con poche pause per la presentazione del suo nuovo libro, Quando muori resta a me (Bao Publishing), Michele Rech in arte Zerocalcare ha preso un aereo per tornare a Budapest e seguire la terza udienza del processo all’antifascista italiana. Era sulle rive del Danubio anche il 28 marzo scorso, quando il giudice negò i domiciliari ottenuti finalmente ieri. Il fumetto a puntate Questa notte non sarà breve ha aiutato a tenere alta l’attenzione sul caso di Salis e forse anche a renderne possibile la candidatura alle prossime elezioni europee. Zerocalcare lo incontriamo nel tardo pomeriggio, a margine della conferenza stampa di Roberto Salis in un albergo del centro di Budapest.

Perché è ritornato?

Penso che la cosa più pericolosa in questo momento sia l’idea del rompete le righe, pensare che siccome sono arrivati i domiciliari allora è tutto risolto. In realtà non è risolto niente, è una situazione ancora molto rischiosa. È importante mantenere alta l’attenzione e la partecipazione su quello che sta succedendo.

Quindi crede ci sia il rischio che il miglioramento della condizione di Salis riduca la tensione intorno al suo caso, che ha portato al sostegno di ambienti molto diversi.

Il rischio è che nella percezione comune questo alleggerimento delle misure cautelari si traduca nell’idea che il pericolo è scampato. In realtà lei si trova ancora in una situazione detentiva, anche se ai domiciliari. E soprattutto se non viene eletta e il processo va avanti prima o poi si concluderà, forse già questo autunno. Probabilmente la sentenza sarebbe di molti anni di carcere. Quindi, evidentemente, la situazione non è affatto risolta.

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Durante questa campagna elettorale ci sono state indicazioni di voto esplicite e nette da parte di soggetti che hanno poca familiarità con le urne, dai centri sociali ai movimenti in Val Susa. Se lo aspettava?

Devo dire che mi ha stupito. Posto che c’è anche chi ha fatto un passo indietro di fronte alla questione elettorale, anche in maniera coerente con le proprie posizioni, si è effettivamente mosso un grosso pezzo che non è riconducibile all’elettorato di Alleanza verdi e sinistra. Perché in tanti hanno riconosciuto che questa situazione è l’occasione per portare finalmente a casa un risultato concreto. Cioè far uscire una persona di galera e forse anche lanciare un messaggio chiaro rispetto a certi temi e ad alcune pratiche.

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Ma per avere una rappresentanza che viene dal mondo dell’antifascismo militante o comunque dei movimenti sociali è necessario un arresto, il carcere e il rischio di tanti anni di galera?

Questo non lo so perché secondo me non è detto che tutto quello che si sta mobilitando lo faccia pensando alla rappresentanza. Immagino che tante persone siano concentrate sulla risoluzione del caso di Ilaria. Poi cosa vorrà portare come contenuti in Europa, se viene eletta, sarà uno step successivo.

Lei la voterà?

Come scelta mia non faccio campagna elettorale, quindi diciamo che non rispondo a questa domanda. Non voglio dire alle persone se devono o non devono votare, però mi sta davvero a cuore che tutti abbiano ben chiaro qual è la posta in gioco e siano in possesso di tutti gli strumenti per decidere cosa fare. Capendo la gravità della situazione.

L’armadillo su questo che dice?

Dice: “scappa, scappa perché stai parlando con questo qua?”

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REDDITOMETRO. A prima vista pare strano, o meglio suscita sospetto, che a emanare un simile decreto, teoricamente contro l’evasione fiscale, sia proprio il governo Meloni, fin qui distintosi per i diciotto condoni a vario titolo e per avere inserito nella delega fiscale il concordato preventivo
I confini confusi della «melonomics»

Dici «redditometro» e subito volano gli stracci nel governo e tra i partiti che lo compongono. Tanto più che il decreto ministeriale è già da lunedì in Gazzetta ufficiale. Meloni si comporta come se non ne sapesse nulla. E «congela» tutto, lasciando che sia il viceministro delle finanze Leo a gestire la patata bollente al prossimo Consiglio dei ministri.

A prima vista pare strano, o meglio suscita sospetto, che a emanare un simile decreto, teoricamente contro l’evasione fiscale, sia proprio il governo Meloni, fin qui distintosi per i diciotto condoni a vario titolo e per avere inserito nella delega fiscale il concordato preventivo, in base al quale l’Agenzia delle entrate si dovrebbe mettere d’accordo con il contribuente su quante tasse pagherà nei successivi due anni. In più siamo in campagna elettorale e si sa che l’argomento fiscale è inviso particolarmente all’elettorato potenzialmente di destra. Vale perciò la pena di vederci più chiaro.

La norma, ovvero l’accertamento sintetico del reddito, trae le sue origini dal lontano 1973 (Dpr 600). Poi vi mise mano Tremonti nel 2010, durante l’ultimo governo Berlusconi, con l’intenzione a parole di potenziarne l’efficacia senza però ottenere risultati incisivi. Anche Renzi lo ritoccò nel 2015 per giungere infine nel 2018 al provvedimento del governo Conte-Salvini che, con il cosiddetto «decreto dignità», non cancellava affatto il «redditometro» ma anzi richiedeva un nuovo provvedimento attuativo con l’indicazione puntuale delle voci di spesa per individuare la reale capacità contributiva del cittadino.

Si può dire quindi che il decreto, che tanto fa imbestialire sia Salvini che Tajani, non è altro che un atto dovuto. In effetti sulla materia era intervenuta nel 2022 anche la Corte dei Conti la quale lamentava la scarsa efficacia dello strumento e ne richiedeva un’intensificazione dell’utilizzo sulla base degli evidenti incrementi patrimoniali e delle manifestazioni di agiatezza riscontrabili in una parte della popolazione.

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Il nuovo decreto infatti contiene l’elencazione di 56 voci di spesa censite e soprattutto due quasi novità. La prima è che la presunzione di reddito viene calcolata non facendo riferimento alla spesa media, ma a quella minima ricavata dall’indagine Istat sui consumi delle famiglie. La seconda, e qui sta il nocciolo, è che nel contraddittorio ciò che prevale sulla stima teorica sono le informazioni fornite dal cittadino. Argomento questo su cui insiste particolarmente, a propria difesa, il ministro Leo quando afferma che non si lascia campo libero alla discrezionalità dell’amministrazione finanziaria.

Ma allora la contraddizione fra questo decreto e il concordato preventivo che dovrebbe entrare in funzione a giugno, viene di molto ridimensionata e non credo si faccia peccato pensare che il primo è funzionale al secondo. Nel senso che si vuole spingere il contribuente a incamminarsi sulla strada di una contrattazione con l’amministrazione finanziaria che può metterlo al sicuro per i prossimi due anni e nello stesso tempo può favorire un ingresso più rapido di risorse nelle casse dello Stato.

Meno soldi, ma subito, con buona pace della giustizia fiscale. Infatti non è difficile intuire che il percorso di questo decreto – che scatta solo nel caso in cui si presuma che i redditi dichiarati siano del 20% inferiori a quelli reali; che si articola in un doppio contraddittorio fra il contribuente e l’amministrazione fiscale, lasciando al primo la possibilità di dimostrare l’inesattezza della quantità di reddito che gli viene imputata – appare fin d’ora tutt’altro che veloce e lineare, con la probabilità di fare la fine delle precedenti versioni di cui appunto la Corte dei Conti lamentava l’inefficacia.

D’altro canto qualche segnale il governo lo doveva pur dare, seppure in controtendenza più apparente che reale con la sua politica, a fronte dei continui richiami, finora verbali, che vengono dalle istituzioni europee riguardo alla leggerezza con cui si sono decisi condoni, bonus e sostegni vari ad esclusivo vantaggio di ceti che stanno certamente al fondo della gerarchia sociale. Lo scontro sul superbonus fra Giorgetti e Tajani ne è la conseguenza. Anche la melonomics, fatta di liberismo condito da cattiveria sociale, ha dei limiti. Più li rende confusi meglio è. Non è moltiplicando decreti che si combatte l’evasione, ma con la volontà politica di farlo, rafforzata dalla sofisticata strumentazione di indagine già esistente. Ma se manca la prima, la seconda resta inerte o rema contro

 

 

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QUALE SOLUZIONE. Senza l’avvio di un processo reale di decolonizzazione e se l’autodeterminazione non sarà piena, i palestinesi si ritroveranno con uno Stato sulla carta e un’apartheid paradossalmente legittimata dal resto del mondo

Senza liberazione lo Stato è una trappola Una manifestazione per la Palestina - Ansa

Ieri, all’annuncio norvegese di riconoscimento dello Stato di Palestina, in molti non hanno potuto fare a meno di notare che a rompere il ghiaccio sia stata Oslo, la città in cui nell’agosto 1993 si conclusero gli accordi politici tra Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp) e Stato di Israele.

MENO di un mese dopo, furono pubblicamente sanciti dalla stretta di mano tra Yasser Arafat e Yitzhak Rabin a Camp David. L’Intifada era agli sgoccioli, gli accordi di Oslo ne certificarono la fine. Pochissimi all’epoca ne intuirono la trappola, a prevalere fu la gioia per l’inizio di un percorso che si immaginava irreversibile.

C’è chi lesse in quella stretta di mano una vittoria dell’Intifada, ma dell’Intifada fu la tomba. Perché da Oslo non uscì quello che i palestinesi sognavano – e sognano: non tanto uno Stato, quanto la libertà. Il diritto ad autodeterminarsi.

È in questa chiave che andrebbe letta la decisione di Norvegia, Irlanda e Spagna (a cui dovrebbero seguire Slovenia e Malta) di riconoscere lo Stato di Palestina. Con l’ingresso di Oslo, Dublino e Madrid i paesi che hanno fatto altrettanto sono 143. Due terzi del pianeta, eppure uno Stato di Palestina non esiste: non esiste perché manca un elemento indispensabile, l’autodeterminazione.

Che la libertà di scegliere per sé passi per la fondazione di uno Stato è convinzione predominante nei sistemi liberali ma non risolutiva. Che la forma dello Stato-nazione sia la via d’uscita dal colonialismo lo è ancora di meno, tanto più in una regione che ha assunto quel modello a suon di mandati coloniali, con paesi nati tirando linee dritte dove prima i confini non c’erano. Lo Stato-nazione – forgiato su élite politiche imposte da fuori e identità uniche tagliate con l’accetta – è stato per il Medio Oriente un disastro.

I PALESTINESI dovrebbero poter decidere per sé, superando l’idea – predominante a Washington e Bruxelles – che un’eventuale entità possa nascere solo da un negoziato tra le parti, che la sua legittimità discenderebbe da Israele. Non una liberazione, ma una concessione.

Le leadership israeliane che si sono susseguite nei decenni l’hanno narrata così, tanto da porre costantemente diktat utili a rinviare a un tempo indefinito (Netanyahu una decina di anni fa le chiamò «postille»): negoziamo pure, ma alcuni punti non saranno mai sul tavolo.

Non lo sarà Gerusalemme, considerata capitale unica e indivisibile dalle leggi fondamentali israeliane. Non lo saranno i confini dell’eventuale Stato il cui controllo resterebbe a Israele. Non lo saranno le colonie, impossibile smantellarle. Non lo sarà il diritto al ritorno di sette milioni di rifugiati (il 66% dell’intero popolo palestinese).

Di che Stato si parla? Quale Stato si sta riconoscendo? L’esistenza legittima di uno Stato si riconosce quando un’entità esistente e già sovrana è realtà. Non è questo il caso: i territori del 1967 (Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme est) sono occupati.

IL RICONOSCIMENTO altrui diventa dunque la mossa politica con cui si spera di fare pressione su Israele, sugli Stati uniti e sul loro diritto di veto che, di nuovo a metà aprile, ha bloccato la mozione del Consiglio di Sicurezza che chiedeva di fare della Palestina un membro a tutti gli effetti. Dalla necessità di superare un simile blocco, nasce la spinta di cancellerie e partiti che, anche in Italia, insistono da mesi su una soluzione a due Stati mentre a Gaza si uccidono cento persone al giorno, in Cisgiordania si confiscano altre terre e dentro Israele i palestinesi restano cittadini di serie B.

Di fronte a quello che la Corte internazionale di giustizia ha definito «genocidio plausibile» e quello che Amnesty e Human Rights Watch hanno chiamato «regime di apartheid» sarebbero più urgenti altre misure: sanzioni internazionali, embargo militare, rottura dei rapporti diplomatici. E l’avvio di un processo reale di decolonizzazione: se l’autodeterminazione non sarà piena, i palestinesi si ritroveranno con uno Stato sulla carta e un’apartheid paradossalmente legittimata dal resto del mondo

 

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RIFORME. La maggioranza cerca di correre ai ripari per velocizzare il voto. Resta irrisolto il tema del premio di maggioranza, no della Lega al ballottaggio

 Senato, la protesta in Aula - LaPresse

L’esame e il voto degli emendamenti al ddl sul premierato in Senato regalano anche momenti surreali, o almeno di involontaria ironia, e anche grotteschi. Iniziamo da quelli involontariamente ironici. Ieri mattina alle 11.34 il capogruppo di Fi Maurizio Gasparri ha pubblicato sui social una propria foto sorridente a Palazzo Madama con il commento: «Finalmente al Senato si comincia a votare in Aula sul premierato». Ebbene il primo emendamento al ddl Casellati è stato votato dopo sei ore, alle 17.34. Alla fine della giornata i voti effettuati sono stati solo 45, sui circa 3mila emendamenti presentati. Certo, il presidente La Russa ha applicato sin dal secondo voto la regola cosiddetta del «canguro» (che consente con un solo voto di respingere emendamenti analoghi). Ma la preoccupazione del centrodestra, e soprattutto della ministra Casellati, era evidente, anche nei tratti tirati dei volti. «Vi terremo inchiodati in Senato per giorni e giorni» ha dichiarato il capogruppo del Pd Boccia.

Il primo articolo del ddl, su cui si è votato ieri, contiene norme marginali rispetto al cuore del provvedimento: prevede l’abrogazione del potere del Capo dello Stato di nominare i senatori a vita. Eppure il centrodestra è rimasto bloccato per tutta la giornata in Aula per poter esitare pochi emendamenti, tra quelli votati e quelli saltati con i «canguri». Che fare dunque? Il dibattito dentro Fdi è stato tra chi proponeva una prova muscolare a suon di contingentamento dei tempi, e chi ha osservato che questa polarizzazione gioverebbe alle opposizioni per le elezioni europee, mobilitando un’area del non voto. Anche La Russa, ieri in difficoltà a gestire l’Aula, ha fatto riferimento alla richiesta giuntagli da Fi del contingentamento dei tempi: «Finora sui tempi non ho detto nulla, però aiutatemi», ha quasi supplicato rivolgendosi a Boccia. Un appello che permette di riferire gli episodi grotteschi, dopo quelli ironici.

Le opposizioni avevano organizzato una protesta in Aula da mettere in atto al momento del voto del primo emendamento, vale a dire quella di sventolare una copia della Costituzione. Evidentemente nell’ansia di avvisare cineoperatori e fotografi, i gruppi d’opposizione hanno fatto trapelare la notizie che è arrivata alle orecchie del centrodestra. Ed ecco che poco prima del voto è entrata un aula un commessa con un bustone pieno di un centinaio di copie della Costituzione, consegnate al capogruppo di Fdi Malan e da questi ai senatori di maggioranza. Lo sventolio della Costituzione è stato – per così dire – bipartisan. Con una effimere felicità del centrodestra convinto di aver sventato il blitz delle opposizioni.

Agli aspetti ironici e grotteschi si sono affiancati quelli seri. Come hanno evidenziato in un comunicato Peppino Calderisi e Stefano Ceccanti, nella replica martedì, sulla legge elettorale del premierato sono emerse due versioni diverse e opposte: quella del relatore Alberto Balboni e quella di Casellati, a cui è affidato il compito di presentarla al termine della prima lettura del suo ddl sul premierato. Ebbene, Balboni ha detto che se nessuno supera la soglia del 40% il premio di maggioranza non scatterà, mentre la ministra ha fatto capire che invece ci sarebbe un ballottaggio per assegnarlo. Inutile chiedere chiarimenti ieri. Sempre martedì il leghista Paolo Tosato in Aula ha fatto capire e confermato che la Lega il ballottaggio non lo vuole. Ma come ha osservato Marcello Pera occorre prevederlo nel caso in cui non ci fossero due poli alle elezioni ma tre.

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IL CONVEGNO A ROMA TRE. La fine delle guerre è la condizione per il dialogo tra le grandi potenze: l’umanità deve affrontare in concordia migrazioni, clima e povertà. Convegno di Costituente Terra giovedì 23 maggio 2024

Un uomo d'affari dietro la bandiera dell'Ue

 L’Europa sta negando se stessa. L’Unione europea è nata su due fondamenti, l’uguaglianza e la pace: per porre fine ai razzismi, ai campi di concentramento e, soprattutto, alle guerre. Entrambi questi fondamenti stanno oggi venendo meno. È questa la prospettiva che dovrebbe essere presente, ma che è totalmente assente, nell’attuale campagna per le elezioni europee.

Innanzitutto l’uguaglianza. La disuguaglianza è in aumento in tutta Europa e soprattutto in Italia, dove la povertà assoluta è triplicata negli ultimi quindici anni, mentre è più che raddoppiato il numero dei miliardari. Ma sono le leggi in materia di immigrazione – le odierne leggi razziste – che stanno mostrando il riemergere in Europa di un’antropologia della disuguaglianza, alimentata da perverse ossessioni nazionaliste e identitarie.

L’Europa ha un debito enorme nei confronti del resto dell’umanità. Per secoli, proprio in nome del diritto di emigrare da essa rivendicato a fondamento delle sue conquiste e colonizzazioni, gli Stati europei hanno invaso, occupato, dominato, depredato e sfruttato gran parte dei paesi del mondo.

Oggi che l’asimmetria si è ribaltata e sono i disperati della terra che fuggono da quegli stessi paesi ridotti in miseria, l’esercizio di quel diritto si è trasmutato in delitto. Militarizzazione dei confini, penalizzazione dei soccorsi in mare, sequestro dei migranti finché non ne avvenga il rimpatrio o l’accoglimento delle domande d’asilo, hanno blindato la fortezza Europa, dove è riapparsa la figura della «persona illegale», clandestina o detenuta unicamente per ragioni di nascita.

A causa dell’apartheid dei poveri del pianeta, il genere umano è spaccato in due: un’umanità che viaggia liberamente nel mondo, per turismo o per affari, e l’umanità dei sommersi e degli esclusi, costretti dalla miseria e dalla fame a terribili odissee, fino a rischiare la vita nel tentativo di arrivare in Europa dove sono destinati a detenzioni illegittime o a sfruttamenti come non-persone.

L’altro valore fondante dell’Europa, la pace, è scomparso dall’orizzonte delle politiche europee, proprio nel momento forse più

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