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VERSO LE ELEZIONI EUROPEE. La sociologa e filosofa francese Dominique Méda: «La crescita del Pil non significa progresso, bisogna cambiare il paradigma». «Le guerre militari e commerciali accelerano il cambiamento climatico e mobilitano enormi risorse che dovrebbero essere destinate a investimenti ecologici». «Abbiamo bisogno di un’Europa più democratica, con un Parlamento che abbia più potere, smetta di cedere il passo alla Commissione e si rifiuti di accettare accordi meschini tra gli Stati»

Dominique Méda: «Ripensare le economie per una riconversione verde»

 

«Abbiamo bisogno di un’Europa più democratica, con un Parlamento che abbia più potere, smetta di cedere il passo alla Commissione e si rifiuti di accettare accordi meschini tra gli Stati. Non abbiamo nulla da guadagnare da un ritorno ai mercanteggiamenti tra Stati nazionali, o da accordi fatti in segreto come è accaduto con le ultime direttive sociali». Queste sono le parole di Dominique Méda, sociologa e filosofa francese, autrice di importanti opere sul cambiamento ecologico e la riforma del lavoro come Il manifesto del lavoro. Democratizzare. Demercificare. Disinquinare (Castelvecchi). L’abbiamo incontrata a Firenze, dove attualmente è visiting researcher presso l’Istituto Ciampi della Scuola Normale.

Dominique Méda

Per Mario Draghi è necessario un cambio di paradigma. L’Europa dovrebbe finanziare una transizione «eco-digitale», la sicurezza militare e la sicurezza economica e sociale. Cosa ne pensa?
Sono totalmente d’accordo con l’analisi sulla necessità di un cambio di paradigma. Ma credo che il paradigma di cui abbiamo bisogno sia più radicale. Da parte mia, utilizzo la nozione di riconversione ecologica, che significa che dobbiamo, da un lato, subire una forma di conversione, un cambiamento radicale nelle nostre rappresentazioni, e dall’altro, organizzare la ristrutturazione delle nostre economie. Credo che la lotta al cambiamento climatico e alla perdita di biodiversità debba diventare una priorità assoluta. Non sono sicura che Mario Draghi sia sulla stessa lunghezza d’onda.

Come mai?
Richiederebbe una pianificazione europea e nazionale, una riduzione radicale del consumo di materiali, la rinuncia alla crescita del Pil, la protezione dei prodotti nazionali ed europei attraverso una forma di protezionismo e una revisione delle regole dell’Organizzazione mondiale del commercio, la priorità data al settore pubblico rispetto a quello privato, una distribuzione organizzata delle materie prime.

Mi sembrano politiche opposte a quelle neoliberiste che ispirano l’Unione Europea.
Sì, ma l’idea di una biforcazione ecologica ha attraversato la storia delle istituzioni europee. Nel 1972, dopo aver letto il rapporto “I limiti dello sviluppo”, il vicepresidente della Commissione europea, Sicco Mansholt propose al presidente della Commissione, Franco Maria Malfatti, di lanciare un programma globale di cambiamento ecologico. Consiglio vivamente la lettura di questo programma. Purtroppo, negli ultimi cinquant’anni le istituzioni e le élite hanno perso la memoria di queste lotte.

Oggi i principali leader europei insistono sulla necessità di finanziare l’industria militare. Non le sembra che l’Europa si stia trasformando in un modello ancora più ingiusto?
Sì, è così. Da un lato, ci sono molte minacce da parte di imperi esterni, e purtroppo dobbiamo essere pronti ad affrontarle. D’altro lato, la tentazione dell’Europa di chiudersi in se stessa è in totale contraddizione con ciò che dovremmo fare: organizzare una cooperazione globale per dedicare tutte le nostre forze alla lotta contro l’immensa minaccia ecologica che ha iniziato a rendere il mondo inabitabile. Oltre a distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica da questo grave problema, le attuali guerre militari e commerciali stanno aumentando il cambiamento climatico e mobilitano enormi risorse umane e finanziarie che dovrebbero essere destinate agli investimenti ambientali.

Si dice che una transizione ecologica nella produzione comporterebbe la perdita di posti di lavoro…
È una possibilità, ma non l’unica. Io sostengo l’idea che, se si riesce a farla bene, la biforcazione ecologica potrebbe essere un’opportunità straordinaria per creare posti di lavoro e cambiare il lavoro. La maggior parte degli studi di cui disponiamo dimostra che la conversione ecologica potrebbe creare molti posti di lavoro perché i settori da chiudere o da ridurre sono a minore intensità di lavoro rispetto a quelli da sviluppare (infrastrutture di trasporto, isolamento degli edifici, agricoltura biologica, energie rinnovabili, ecc.) Inoltre, avremo bisogno di più lavoro umano perché dovremo fare meno affidamento sulle macchine che generano emissioni di CO2 e consumano energia. Ma questa conversione è complicata.

Perché?
La ristrutturazione industriale degli anni ’70, ’80 e ’90 è stata un fallimento in Europa. I lavoratori dei settori in via di riconversione sono stati licenziati o costretti al prepensionamento. Se non sappiamo come anticipare, organizzare e sostenere le ristrutturazioni future, ci sarà una forte resistenza al cambiamento. Ma se riusciamo a organizzare questi cambiamenti con le parti sociali e i lavoratori – democratizzando la governance delle imprese e dell’economia – allora, oltre a creare posti di lavoro, saremo in grado di cambiare il lavoro rendendolo meno intensivo e restituendogli un senso.

Lei sostiene un “modello di post-crescita”. Che cosa significa?
Ho iniziato a lavorare su questo tema alla fine degli anni ’90 e ho pubblicato Qu’est-ce que la richesse? una critica all’equazione tra ricchezza e progresso di una società e crescita del PIL. Il PIL non tiene conto delle attività essenziali per la riproduzione e il buon funzionamento della società; non è influenzato dalle disuguaglianze nella produzione, nel consumo o nel reddito; non tiene in alcun modo conto del degrado del nostro patrimonio naturale o della coesione sociale. Dobbiamo adottare altri obiettivi: soddisfare i bisogni essenziali di tutti rispettando i limiti planetari, e quindi altri indicatori.

Quali?
Se mi permette di usare questa immagine, si tratterebbe di racchiudere il PIL – la produzione – in altri due indicatori: l’impronta di carbonio, per rimanere nei limiti fisici planetari, e l’indice di salute sociale, sviluppato dalla mia collega Florence Jany-Catrice. Questo indice tiene conto del benessere sociale che non sempre è legato a un aumento del Pil.

Molti parlano di “crescita verde”. Non ha l’impressione che questo concetto ci impedisca di capire che è il capitalismo a impedire la biforcazione?
Sono assolutamente d’accordo. È solo un trucco che ci fa pensare che la crescita sporca e cattiva possa essere trasformata in crescita pulita con un colpo di bacchetta magica. Certo, sono stati fatti dei progressi in termini di disaccoppiamento: ora produciamo punti di PIL con meno CO2, ma per farlo correttamente avremmo bisogno di un disaccoppiamento radicale che, per il momento, sembra possibile solo con l’aiuto di tecnologie dirompenti che non sono disponibili o i cui effetti potrebbero essere peggiori del male. L’unica strada percorribile è quella della riduzione dei consumi materiali e della sobrietà.

Il suo approccio femminista mette in evidenza il ruolo spesso trascurato ma essenziale del lavoro delle donne. Che ruolo possono avere nella trasformazione che lei prevede?

Una delle prime ricercatrici a evidenziare la responsabilità dello sconvolgimento delle rappresentazioni e dei valori avvenuto nel XVII e XVIII secolo è stata una donna: Carolyn Merchant.In un libro straordinariamente importante, The Death of Nature (La morte della natura), pubblicato nel 1980, l’autrice mostra in che misura la rivoluzione scientifica che ha accompagnato la Modernità abbia determinato la traiettoria dell’Antropocene. In particolare, sottolinea il modo in cui Francis Bacon ha promosso lo sfruttamento della natura e l’estorsione dei suoi segreti, anche attraverso la violenza. Anch’io ho raccontato questo ai miei studenti senza aver letto Merchant.

Forse perché le donne sono più sensibili a questa forma di dominio?
Lo sono, ma non perché siano intrinsecamente diverse, ma perché sono state e continuano a essere dominate e valorizzate negativamente. Le donne sono in una posizione migliore per chiedere l’attuazione di un cambiamento di paradigma: da quello attuale dello sfruttamento, della conquista e dell’estorsione a quello della cura. Questo ci permette di ripensare il lavoro non più come attività finalizzata allo sviluppo e allo sfruttamento, ma come attività che permette la sussistenza rispettando la terra che ci permette di ottenerla. Si tratta di una linea di pensiero molto interessante che diversi ricercatori stanno esplorando. Ed è una buona cosa

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ELEZIONI. Intervista a Raniero La Valle, candidato con Pace, Terra e Dignità

 Raniero La Valle - Ansa

Raniero La Valle, giornalista, ex parlamentare della sinistra indipendente eletto nelle liste del Pci, storico esponente pacifista, ha promosso con Michele Santoro la lista Pace, Terra e Dignità per la quale corre in tutte le circoscrizioni. Lo raggiungiamo durante la campagna elettorale. «Lo avevamo già visto con la raccolta delle firme necessarie a presentare la lista: si interessano alle cose che diciamo persone che ci hanno detto che erano anni che non si interessavano alla politica.

Come si spiega tutto ciò?
La disistima per la politica dipende dal fatto che la gente ha cominciato ad accorgersi che quello che si decide in politica non cambia la loro vita quotidiana. E invece parlando di guerra non è così, tocchi questioni base, c’è di mezzo la vita e la morte il rapporto con gli altri. Ecco perché queste elezioni europee possono essere considerate importanti più delle politiche.

Per la prima volta si percepisce l’importanza dell’Unione europea per i destini dei singoli paesi.
Sì, c’è un rovesciamento. Finora le europee erano trascurabili, stavolta sono diventate più importanti. Noi speriamo che servano a decidere i grandi destini del mondo. Se l’Europa diventasse un grande soggetto sul piano mondiale allora le cose cambierebbero. Purché non sia una potenza tra le potenza e che non si mettano a combattere per il dominio mondiale.

Uno dei vostri obiettivi era costringere gli altri soggetti politici in campo a parlare di guerra e pace. Le sembra che stia succedendo?
Direi di sì. L’episodio più evidente è quello dei 5 Stelle che hanno messo la parola «Pace» nel loro simbolo. Direi che esercitiamo un’influenza indiretta, anche se spesso circolano risposte sbagliate. Ora ad esempio in molti dicono che il vero coronamento dell’Ue è arrivare a politica estera e difesa comuni. Apparentemente serve a difendere la pace, ma di fatto è una cosa pericolosissima perché vuol dire avere un esercito. Circola il mito dell’esercito europeo, come se non bastassero la Nato e gli eserciti nazionali. L’esercito europeo sarebbe il sigillo di un super-stato. Ancora peggio, forse, è il luogo comune sulla richiesta di abolire il diritto di veto e decidere a maggioranza. Sarebbe catastrofico: immaginiamoci se si decidesse a maggioranza, magari coi piccoli paesi determinanti, di fare una guerra. A quel punto l’Italia sarebbe obbligata a partecipare.

Raniero La Valle

La gente si è disaffezionata alla politica. Ma parlando di guerra non è così, tocchi questioni base, c’è di mezzo la vita e il rapporto con gli altri

Dunque, vi preoccupa un’Europa che parla con una voce sola?
La democrazia è fatta anche di no, di dialettiche e contrapposizioni. Se ci costringono a fare la politica della Francia o della Germania non va bene. Dunque questa idea di parlare con una sola voce è pericolosa. I nostri amici della sinistra dovrebbero essere messi un po’ in guardia a questo proposito. Su questi temi l’Europa o si suicida o si salva.

Parlare di guerra significa andare oltre la divisione tra destra e sinistra?
Sì proprio perché non è una questione ideologica. Quale è la soluzione di sinistra al genocidio in corso a Gaza? La linea del due popoli e due stati, cioè una cosa che non avverrà mai? Non sarebbe meglio un unico stato non monoetnico? Dobbiamo trovare soluzioni reali ai problemi, altrimenti riempiamo documenti di avveniristiche soluzioni che non si realizzano. Quella della Palestina non è solo una questione politica, li c’è anche un grande dramma religioso. E c’è tutta la grande storia ebraica che va conservata: Gerusalemme deve restare quella che è ma deve essere accogliente nei confronti di tutte le religioni.

Vale anche per la guerra russo-ucraina?
La Russia non deve essere isolata, non deve essere unicamente l’oggetto dei nostri sdegni ma deve far parte dell’Europa delle nostre culture. Spero proprio che non arriveremo al punto che in Italia chi si oppone alla guerra alla Russia è Salvini, se avviene, e sarebbe traumatico, sarebbe per colpa della sinistra. Quando abbiamo fatto la lotta contro i missili Cruise chi stava ci stava: in Sicilia raccogliemmo un milione di persone, e non erano tutti amici di Pio La Torre.

Supererete la soglia del 4%?
La logica mi dice che avverrà. La nostra proposta non vuole manco sconfiggere le altre, le attravesa tutte. Quindi potremmo avere un grande risultato, anche se non ci fanno passare nei grandi canali media.

Raniero La Valle

Circola il mito dell’esercito europeo, come se non bastassero la Nato e gli eserciti nazionali. Ma l’esercito europeo sarebbe il sigillo di un super-stato

Ma c’è Michele Santoro, che è un volto televisivo.
Certamente. Lui è un punto di forza. È pur sempre una persona sola ma sarà determinante.

A che gruppo aderireste se doveste essere eletti?
Bisogna ribaltare la domanda. Quali gruppi sceglieranno noi? Quali gruppi confluiranno sulla nostra proposta?

Continuerete a esistere anche dopo il voto?
Senz’altro. Era questa l’intenzione iniziale. Quando abbiamo cominciato con Michele volevamo costruire una cosa permanente che imponesse questi temi al dibattito pubblico. Poi ci siamo accorti che il primo incidente erano queste elezioni e abbiamo deciso che ci dovevamo stare. E allora abbiamo partecipato.

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TOGHE E POLITICA. la destra mentre è già imbarcata per una riscrittura della forma di governo vuole partire anche per un’altra modifica della Costituzione. Sempre a botte di maggioranza

Il vecchio pallino di farla finita con l’indipendenza

 

Mentre infuriano le guerre mondiali, il parlamento italiano discute di premierato, così può essere una prova di contemporaneità il fatto che un senatore di maggioranza provi a risolvere la faccenda a botte. Certi conflitti, però, sono più sceneggiati che agiti e così quando i senatori dell’altra parte si tolgono le giacche è solo per protesta e non per rispondere colpo su colpo. In ogni caso da oggi le camere vanno in pausa per le europee e la pessima riforma della Costituzione che vuole intestarsi Meloni ha fatto solo un passo avanti.

Quello che serviva a confermarla come argomento di richiamo elettorale: chi non vuole un solo capo che decide senza troppi impicci? Anche il fatto che in parlamento scatta la rissa e si finisce in maniche di camicia può essere la prova che le aule sono ingovernabili. Per cui viva i pieni poteri. Non viene il sospetto che il parlamento è ridotto a un teatro proprio perché le decisioni già oggi non passano più di lì. Eppure basterebbe dare un’occhiata alla lista dei decreti legge (uno a settimana) per averne la prova.

Mentre le guerre mondiali fanno scempio di giustizia e i crimini internazionali sono diventati una linea di politica estera, il governo italiano si occupa anche, effettivamente, di giustizia. Nel senso, però, dei giudici con le toghe nere e rosse di casa nostra. Si potrebbe pensare che non è una cattiva idea, visto che una causa civile ci mette qualche anno a partire e poi quando parte almeno tre anni a concludersi.

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Solo che il governo non si preoccupa di questo: sarebbe in fondo troppo semplice, basterebbe ad esempio assumere nuovi addetti all’ufficio del processo che sta funzionando bene o confermare le migliaia di precari che già ci lavorano. E non si occupa neanche delle carceri, dove il sovraffollamento è esploso e l’estate si annuncia come una tortura al quadrato. Si occupa, invece, di un’altra bandierina elettorale, questa volta quella che vuole sventolare Forza Italia.

Nello scambio a tre, la Lega è probabilmente quella che è cascata meglio, perché l’autonomia differenziata è l’unica legge ordinaria delle tre “riforme” ed è anche quella più vicina all’approvazione definitiva. A cascar male anche in questo caso è il paese, che si troverà a breve con i diritti graduati per residenza e l’egoismo stabilito per legge.

La riforma della giustizia merita attenzione, malgrado sia stata evidentemente messa insieme in tutta fretta per dare anche a Forza Italia quello che chiedeva a una settimana dal voto. Non bastava il nome di Berlusconi nel simbolo del partito e la sua foto nei santini elettorali. Si sa che la buonanima ci teneva e la «separazione delle carriere» arriva come ennesimo omaggio alla memoria. Festeggiato non a caso dai ministri con la stessa esclamazione che fu del Cavaliere – «una riforma epocale» – quando di questi tempi tredici anni fa il suo governo approvò una riforma simile (scritta un po’ meglio). Le cronache informano che fu tanto poco «epocale» che se ne parlò solo per qualche settimana, sui giornali e mai in parlamento.

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Questa approvata ieri è, da allora, l’unico caso di un testo di riforma costituzionale sulla giustizia che sia stato ufficialmente varato dal Consiglio dei ministri. Così la destra mentre è già imbarcata per una riscrittura della forma di governo – che per Meloni un giorno è «la madre di tutte le riforme» e il giorno appresso «chi se ne importa» se non viene approvata – vuole partire anche per un’altra modifica della Costituzione. Sempre a botte di maggioranza, quindi a volerla prendere sul serio il referendum costituzionale non sarà alla fine uno ma saranno addirittura due.

Eppure sul serio questa destra va presa, se non per le probabilità che un simile testo sgangherato arrivi in porto – il modo in cui si dovrebbero «eleggere» senza eleggerli, ma sorteggiandoli, i rappresentanti nei Csm, che diventano due ma conservano un solo vertice, e com’è disegnata l’«Alta corte» disciplinare che spezzerebbe l’autonomia della magistratura, ma senza spezzarla, resta del tutto oscuro – almeno riguardo alla ispirazione. Quella sì è chiarissima.

Perché altrimenti impuntarsi a cambiare la Costituzione per dividere giudici da pm (ai quali al contrario farebbe benissimo provare quella esperienza) quando già adesso cambia funzione appena l’1,5% dei togati? La risposta allude chiaramente ad altro, non all’efficienza e neanche alla terzietà delle toghe. Allude all’indipendenza della magistratura, che adesso disturba i manovratori per esempio quando una giudice smonta i provvedimenti anti migranti perché si ricorda che leggi comunitarie e Costituzione valgono più dei mille decretini di Piantedosi. E dunque fare del pubblico ministero, un po’ alla volta, un braccio della polizia può fare tanto comodo. Soprattutto quando con l’altro braccio la polizia ha cominciato a picchiare

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A CINQUANT'ANNI DALL'ECCIDIO DI PIAZZA DELLA LOGGIA A BRESCA. I volumi di Benedetta Tobagi per Laterza, e di Pietro Garbarino e Saverio Ferrari per Red Star Press. Sfatato il falso mito per cui quegli eventi sarebbero inintelligibili e ricostruite precise responsabilità. I legami tra la destra eversiva, gli apparati militari dell’intelligence italiana e dell’alleanza atlantica. Due analisi rigorose del fenomeno che ha insanguinato a lungo il Paese all’ombra della Guerra Fredda e nel quale hanno giocato un ruolo di primo piano i neofascisti
Stragi, la memoria ritrovata Maurizio Galimberti, Studio N03, piazza della Loggia, Brescia

In uno spazio pubblico in cui la rimozione del passato ha assunto una funzione centrale nella costruzione di un presente senza storia, i lavori che muovono in «direzione ostinata e contraria» divengono preziosi. È il caso di due volumi che, mentre procede l’iter giudiziario dei processi per la strage di Bologna del 1980 e di Piazza Loggia a Brescia del 28 maggio 1974 (di cui ricorre oggi il cinquantesimo anniversario), si incaricano di costringerci a ragionare sulle vicende umanamente più tragiche e democraticamente più drammatiche della storia repubblicana. È il caso dei libri di Benedetta Tobagi, Le stragi sono tutte un mistero (Laterza, pp. 288, euro 18), e di Pietro Garbarino, Saverio Ferrari, Piazza della Loggia cinquant’anni dopo (Red Star Press, pp. 152, euro 15).

ENTRAMBI I TESTI si presentano apparentemente come strumenti divulgativi ma in realtà mostrano da subito la capacità di approfondire (in modo convincente) e spiegare (in modo chiaro) temi assai complessi come quello relativo alla natura dello stragismo in Italia ovvero di un fenomeno storico duraturo, collocato dentro il cuore della Guerra Fredda e capace di incidere sulla qualità del sistema democratico e costituzionale della Repubblica. Ciò grazie al concorso di neofascisti come esecutori materiali; di apparati di forza dello Stato (nei suoi vertici tanto dell’Ufficio affari riservati del Ministero dell’interno quanto del Servizio informazioni difesa) come operatori della logistica delle stragi, dei depistaggi e delle esfiltrazioni; di significative parti delle classi dirigenti e proprietarie come finanziatori; di alti ufficiali della Nato non solo come interlocutori e protettori dei responsabili ma come osservatori decidenti seppur in un quadro non univoco, anzi «polimorfico», come ricorda Tobagi.

La storica, che maneggia con sapienza il tema, passa in rassegna larga parte del dibattito pubblico sugli anni del tritolo sfatando il falso mito secondo cui gli eventi stragisti sarebbero inintelligibili; chiarendo che non esistono servizi segreti «deviati» ma solo servizi segreti; smontando teorie dietrologiche protese alla costruzione di immaginarie piste alternative come quella palestinese o internazionale per la strage di Bologna del 1980.

Contestualmente si potrebbe aggiungere anche che la retorica celebrativa delle istituzioni «lo Stato ha vinto» e quella postfascista «la destra vittima di persecuzioni giudiziarie» hanno concorso ad erodere, nell’immaginario collettivo, l’evidenza dei fatti.

È POSSIBILE AFFERMARE la vittoria dello Stato con tanta solennità quando, in media dopo mezzo secolo dai fatti, i processi non sono ancora conclusi; il grado di impunità dei responsabili resta altissimo; la memoria pubblica è praticamente evaporata nelle nuove generazioni per le mancanze di quelle precedenti? Così se da un lato Tobagi cita il sondaggio del 2006 condotto nelle scuole superiori di Milano (secondo cui il 41% degli studenti riteneva le Brigate Rosse e non i neofascisti di Ordine Nuovo responsabili della strage di Piazza Fontana) dall’altro non ci si può esimere dal sottolineare come il lavorio di tutti quei «narratori» pubblici, che l’autrice definisce generosamente «filo-governativi rassicuranti», abbia iniziato a fare breccia facendo leva non su argomenti e contenuti di merito quanto piuttosto su banalizzazioni, uso del senso comune, stanchezza e disattenzione dell’opinione pubblica.

IN QUESTO SENSO Garbarino e Ferrari riallineano fatti e documenti offrendo un focus importante sulla strage di Brescia del 1974 e soprattutto su quella organizzazione «denominata Ordine Nero nella quale erano confluiti i reduci del gruppo Movimento politico Ordine Nuovo, a loro volta eredi di quel Centro studi Ordine Nuovo, fondato nel 1956 da Giuseppe Umberto (Pino) Rauti e confluito in parte, nel 1969, nel Msi di Giorgio Almirante». Un gruppo che, lungi dall’essere «solo» filo-nazista, rappresentò una struttura intranea agli apparati militari dell’intelligence italiana e dell’alleanza atlantica negli anni della guerra non ortodossa al comunismo fatta di stragi, attività eversive e minacce golpiste. Un percorso che oggi ha portato il processo di Brescia sulla soglia degli uffici del Comando Nato di Verona.

Gli autori offrono così, per il tramite dell’intelligenza dei fatti, elementi conoscitivi imprescindibili e richiamano l’osservazione sul modo in cui nella sfera pubblica è rappresentato il «racconto» delle stragi e, dunque, sul modo in cui noi, in ultima istanza, rappresentiamo noi stessi

 
 
 
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INTERVISTA. Fabrizio Barca (Forum Disuguaglianze e Diversità): "Un viaggio di più di cento tappe in Italia per la giustizia sociale e ambientale. Meloni dice che il progetto Ue sulla transizione ecologica è "disumano". La sinistra dovrebbe rispondere che è il sistema di produzione a frenare la trasformazione"

 Fabrizio Barca (Forum Disuguaglianze e Diversità) - Aleandro Biagianti

Fabrizio Barca, co-coordinatore del Forum Disuguaglianze e Diversità, è con molti altri membri del Forum impegnato in un tour di presentazione del volume Quale Europa (Donzelli), scritto in vista delle elezioni europee dell’8 e 9 giugno.

Le tappe saranno più di cento. Quale Italia sta incontrando in questo viaggio?
Un’Italia viva, non a caso. Ci invitano i grumi del formicolio produttivo e sociale esistente nel paese. Dal Friuli alla Sicilia ci sono isole di diritti auto-costruiti che agiscono in molti settori, dal fare impresa sociale e industriale ai servizi. Sono impegnate di fatto ad attuare l’articolo tre della Costituzione, rimuovere gli ostacoli dello sviluppo della persona umana. Emerge un dato.

Quale?
C’è una consapevolezza della scarsa conoscenza di ciò che avviene nel parlamento europeo e una sfiducia nel potere, e nel volere, contare in Europa. Una lontananza forte dalle sue istituzioni che rispecchia la situazione attestata anche da un sondaggio dell’Eurobarometro.

Come lo spiega?
Con la solitudine. Oggi sono soli i cittadini, che votano sempre meno. Ed è solo anche chi è eletto a Bruxelles perché perde il rapporto con la società. Noi cerchiamo di riannodare i fili. Stimiamo che, in questo viaggio, parleremo con 7 mila persone. Se ciascuno discutesse con altre 15 potremmo coinvolgere 100 mila persone sulle questioni della giustizia sociale e ambientale affrontate nel libro. Tireremo le conclusioni al festival «Desiderabili futuri», organizzato con Legacoop a Oristano dal 26 al 29 giugno.

Nel libro ci sono tredici proposte offerte come strumento per scegliere chi eleggere. Di cosa si tratta?
Di rovesciare il modo di votare. L’Europa è in bilico tra distopia e eutopia; quelle proposte fanno la differenza. E allora noi suggeriamo di partire da lì, da bandiere che vorremmo veder portate in Parlamento europeo e poi pescare dalle liste chi può farlo. A usare il libro così è anche la rete paneuropea coordinata dalla tedesca Brand New Bundestag. Chiamando in 10 Stati membri candidate e candidati a esprimersi, ne hanno selezionati cento, in diversi partiti. Quindici sono italiani. Nel nostro paese il nodo della rete è «Ti Candido».

Il progetto di Meloni è creare una nuova maggioranza «per cambiare l’Europa». Che tipo di Europa sarebbe?
Quella che purtroppo si profila, ma peggiore. Esiste un moto reazionario che ha già spostato l’asse politico. La coalizione moderata che ha governato fino ad ora, e il modo in cui ha reagito nell’ultimo periodo alle pressioni della destra, è già la prefigurazione di una distopia. La frenata sul Green Deal è avvenuta. Si ipotizza un debito pubblico europeo per aumentare la spesa per la difesa e non per la ricerca. È stato sospeso il patto di stabilità per il Covid, ma poi è stato reintrodotto. Nella pandemia Sudafrica e India hanno chiesto di sospendere i diritti intellettuali sui vaccini, il Parlamento europeo si è espresso in maniera favorevole, ma la Commissione ha rifiutato.

Le sinistre le sembrano all’altezza?
No. Non vedo la risposta giusta quando la Presidente Meloni accusa il progetto di trasformazione ambientale di essere «disumano».

Perché il messaggio passa?

Perché lei coglie il tratto dirigista del progetto e la disattenzione per il suo impatto sulle persone. Il blocco che governa l’Europa ha avuto il gran merito di avere impostato questo progetto, ma ha trascurato la società, lo ha attuato senza il dialogo sociale che ti consente di adattarlo ai contesti, di farlo diventare di proprietà delle persone più vulnerabili.

Come si risponde, a suo avviso, alla critica di Meloni?
Dicendo che la responsabilità è del sistema di produzione e non delle persone, puntando alla sua trasformazione e dicendo che a essere «disumano», a colpire l’umanità, è chi frena questa trasformazione.

Manfred Weber, il leader dei popolari europei, ha accusato il Pd di non avere votato il patto europeo sulle migrazioni sul quale si trova d’accordo con i conservatori e una parte dei socialisti.
A me sembra invece che Elly Schlein abbia fatto bene a rigettare una soluzione deprecabile che mostra un approccio neocoloniale con l’Africa, un continente che ci disprezza per gli abusi compiuti per secoli. Senza contare che il testo usa la cooperazione internazionale come strumento repressivo. Almeno su questo il centro-sinistra italiano ha fatto centro.

Le speranze di una ripresa in Italia sono state legate ai soldi europei del Pnrr. Riuscirà a mantenere le promesse?
Mi auguro che si possa fare il meglio possibile, ma il metodo di attuazione è vecchio. Rivela un dirigismo benevolo: miri a migliorare la sanità o la pubblica amministrazione, ma non intercetti i saperi delle persone nei territori. Piombi sulla loro testa. È una boccata di ossigeno, ma dopo che succede?

Il governo dice che sta andando tutto bene…
Non è proprio così, a cominciare dalla mancanza delle informazioni sui progetti. Come Forum abbiamo denunciato dall’inizio l’assoluta inadeguatezza del sistema di monitoraggio. Abbiamo suggerito alla Commissione di adottare il sistema che esiste per i fondi di coesione europei, OpenCoesione. E invece si è andati indietro, non abbiamo una fotografia adeguata della situazione. È fondamentale coinvolgere i cittadini nella gestione delle risorse europee. Non ci si può ricordare di loro solo quando si vota

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DAVANTI ALL’ORRORE. Cambiati per sempre senza sapere ancora come, senza poterci ridefinire in qualcosa. È così che riceviamo le immagini irricevibili di quei corpi che ondeggiano nel fuoco, dello sterminio compiuto dall’esercito israeliano, l’altra notte a Rafah

Fantasmi in un tempo senza parole La Guernica di Pablo Picasso al museo Reina Sofia

Fosse una questione filologica, staremmo qui a spiegare perché si può usare la parola genocidio, a spiegare che sì: si può usare questa parola, perché le parole hanno una definizione e poi vanno libere nel mondo in attesa di incarnarsi ancora e ancora, belle e brutte, nelle azioni, e quindi il fatto che sia stato usato per gli ebrei e per gli armeni purtroppo non esclude che la si possa usare ancora. Ma non è una questione filologica.

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Sulle tende di Rafah bombe da 2 tonnellate. Poi il rogo: 45 uccisi

È un’altra questione, e chi la sposta lì, io lo capisco: è perché è difficile mettere insieme le parole quando mancano le parole.
Le parole mancano davanti alla morte dei civili palestinesi nelle tende di Rafah perché la realtà è così oltre l’immaginazione e implica così tanti aspetti che non riesce a essere porzionata in gruppi di sillabe, quelli che vanno bidimensionali su di un foglio a comporre frasi.

Quando mancano le parole si vorrebbe essere tutti Picasso e fare Guernica, per il suo talento e per quell’arte che ha una capacità di sfondamento verso la terza dimensione, si vorrebbe essere tutti Goya. È che il significante è troppo più grande del significato, qualunque cosa io scriva non contiene quello che vedo, quello che accade.

Al salone del Libro di Torino di quest’anno l’incontro più devastante è stato un incontro di poesia. Con me e Paola Caridi c’era uno dei poeti di lingua araba più conosciuti: Najwan Darwish. È palestinese. Noi eravamo in questa sala “internazionale”, davanti a noi persone con la cuffia per la traduzione simultanea e persone che non ne avevano bisogno, ragazze, tante ragazze, velate e con i capelli sciolti, c’erano i libri, l’ufficio stampa (in Italia è pubblicato da Hopefulmonster con la traduzione di Wasim Dahmash, titola Esausti in croce), tutto quello che siamo abituati a vedere alla presentazione di un libro, ma poi c’era il corpo di questo poeta, giovane, bruno, come abitato da uno spettro.

Tenere la conversazione sulla poesia era difficilissimo: c’era questo spettro dentro di lui che ci agitava, che voleva venir fuori, e fuori dalla struttura fieristica c’erano degli studenti in pacifica protesta per il genocidio di Gaza. Ovviamente circondati dalla polizia – scelta del questore non della direzione del Salone – ma capite che nessuno è al sicuro finché davanti agli studenti c’è la polizia in tenuta antisommossa.

E poi, finalmente o purtroppo, quando una persona gli ha chiesto se la sua poesia fosse cambiata, e come, dal 7 ottobre, lo spettro è uscito, Darwish ha risposto: «Non è la mia poesia che è cambiata, io sono cambiato. E anche voi siete cambiati, magari non ve ne siete accorti».
È così – cambiati per sempre senza sapere ancora come, senza poterci ridefinire in qualcosa – che riceviamo le immagini irricevibili di quei corpi che ondeggiano nel fuoco, dello sterminio compiuto dall’esercito israeliano, l’altra notte a Rafah.

Così cambiati, senza parole. Vergogna – non basta; orrore – non dice; criminali – aiuta ma non specifica. Il poeta ci spiega ancora, in un’intervista rilasciata il 28 novembre scorso a El Pais:«Non posso proteggere con la poesia la vita di un bambino. Se fossi un politico potrei fare altro, e direttamente; se fossi un medico potrei curare i feriti. È dunque un tempo triste, per essere un poeta».

Un tempo senza parole è un tempo vuoto, nel vuoto si annidano la frustrazione, l’impotenza, la rabbia e il sentimento più inquietante: sentirsi in colpa per essere nati nella parte occidentale del mondo. Ci vorrà tanto tempo per cominciare a trovare le parole nuove, e ascolteremo dai testimoni e dai poeti come fare, impareremo dai sopravvissuti, solo da loro come metterle in fila, intanto non siamo dissimili da quei fantasmi

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