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Opposizione La dinamica che ha portato all’esito delle elezioni liguri è molto evidente, molto meno semplice cercare di capire la lezione che se ne può trarre

Elly Schlein e Giuseppe Conte Elly Schlein e Giuseppe Conte – Ansa

La dinamica che ha portato all’esito delle elezioni liguri è molto evidente, molto meno semplice cercare di capire la lezione che se ne può trarre. Sul primo aspetto, la diagnosi è facile: il campo delle opposizioni, che a giugno aveva oltre 22mila di vantaggio, si ritrova ora sotto di 8.500 voti. Le defezioni sono quella degli elettori dell’area centrista (dall’8% al 2%) verso Bucci, e soprattutto quella del M5S che aveva il 10,2% e quasi 65 mila voti, e che ottiene ora il 4,6% e 26 mila voti.

Fin qui i numeri: poi cominciano le interpretazioni, soprattutto perciò che riguarda il M5S. Hanno pesato certo anche ragioni contingenti (la resa dei conti finale con Grillo poteva essere rimandata), ma siamo di fronte ad un dato strutturale, che però non costituisce più una giustificazione, ma semmai un’aggravante. Le dimensioni del crollo in Liguria sono del tutto simili a quelle registrate nelle altre tre elezioni regionali tenutesi quest’anno: in Basilicata (dal 25% delle politiche 2022 al 7,7%); in Abruzzo (dal 18,4% al 7%) ed anche in Sardegna, dove pure la candidata M5S ha vinto (dal 21,8% al 7,8%). Eppure, se bisogna credere ai sondaggi, sul piano nazionale il M5S sembra tenere intorno al 10%. Come spiegare questo divario? Non occorre qui richiamare le caratteristiche dell’elettorato del M5S, su cui ci siamo soffermati in altre occasioni. Tutto ancora valido; ma ora si deve aggiungere un altro elemento: si è dimostrata inefficace la strategia perseguita da Conte in questi mesi, fondata su una cauta ridislocazione del M5S sul versante «progressista», ma insieme sulla puntigliosa ricerca di distinzioni e su un continuo stop and go nei rapporti con i possibili alleati.

L’idea era forse che, in tal modo, si potesse stemperare la storica diffidenza degli elettori M5S verso gli altri partiti (e verso il Pd, in specie). Non ha funzionato: gli effetti sono stati quelli di un disorientamento dell’elettorato M5S (ora forse aggravato dall’aggressione di Grillo) e da una percezione di indeterminatezza sulla effettiva collocazione del partito. Nel dubbio, molti elettori si astengono, o si disperdono nelle più varie direzioni (lo si è visto anche in Liguria), specie quando la posta in gioco non viene sentita come rilevante e non può pesare il personale appeal del leader.

Bisogna sperare che la prossima assemblea “costituente” del M5S possa chiarire qualcosa, nell’interesse stesso della costruzione di un’alternativa. Sì, perché oramai dovrebbe essere chiaro che, se il M5S non tiene i suoi elettori, questi non è che andranno di corsa a rifugiarsi nelle braccia accoglienti del Pd o di AVS: troppo profonda la frattura maturata nell’ultimo decennio, per pensare che possa facilmente ricucirsi. È un segno di cecità politica, anche a sinistra, auspicare che il M5S imploda definitivamente: non sarebbe la sinistra a raccoglierne i cocci.

Ma se non ha funzionato la strategia del M5S, non si può nemmeno dire abbia funzionato del tutto quella del Pd: sì, certo, il partito è in ripresa, i voti arrivano, il Pd è un partito robusto, ma in un contesto in cui non ha una coalizione stabile (se si esclude il rapporto con AVS) e in cui quindi debole appare l’indicazione dell’orizzonte politico-strategico. Il tentativo della segretaria è stato quello di rendere credibile un campo di alleanze grazie alla paziente ricerca di convergenze su singole questioni. Ma è stata come una tela di Penelope: appena trovato un tema di accordo, subito dopo scoppiava un qualche incidente, che rovinava ogni messaggio di coesione.

Anche nelle interviste post-elettorali, Schlein insiste su questa linea, indicando cinque punti (sanità, scuola, lavoro, politiche industriali, diritti): tutto giusto, ma cosa non convince di questa impostazione? La sensazione è che non basti mettere una dietro l’altra le varie questioni, e che manchi una visione d’assieme, capace di unire e mobilitare davvero le forze interessate ad un cambiamento. Una proposta di governo, certo, ma fondata su una lettura critica della società italiana e dei suoi nodi strutturali, e su un’azione che sappia individuare, e poi provare a ricomporre, i soggetti sociali (oggi molto frammentati) che in tale proposta si possano riconoscere. La nota dolente, tuttavia, qui è duplice: per poter proporre agli altri una visione che tenga insieme i singoli aspetti programmatici occorre che il Pd, per primo, ne abbia una sua propria coerente (e non è certo solo un problema di oggi), e che scelga cosa dire su molte questioni su cui invece appare ancora forte la reticenza o l’ambiguità: prima fra tutte, la politica internazionale e il disarmo, ma poi anche le politiche istituzionali, o alcune grandi questioni economico-sociali come le riforme fiscali mirate ad una radicale redistribuzione del reddito.

E poi, lo strumento-partito: era stata annunciata l’anno scorso una conferenza organizzativa. Mi sembra sia un po’ sparita dall’orizzonte: sarebbe un errore. E non solo perché, così com’è, la macchina del partito è inadeguata (ad esempio, nell’assicurare un qualche presidio nelle tante aree marginali del paese), ma anche perché non funziona proprio quello che più servirebbe: sedi, canali e procedure di dibattito e di elaborazione politica ed intellettuale. Altrimenti, la visione, la propria e quella da discutere con gli altri, svanisce nel nulla.

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Clima Il clima a cui si dovranno abituare i popoli europei sarà un’altalena di lunghi periodi di siccità seguiti da piogge devastanti, concentrate e violente. C’è ormai una evidenza a cui non si può più sfuggire: il sistema idraulico del territorio europeo non è più all’altezza del nuovo clima e dell’intensità delle sue precipitazioni

Una pompa per l'estrazione del petrolio in un campo con pale eoliche foto Ap Una pompa per l'estrazione del petrolio in un campo con pale eoliche foto Ap

In Andalusia fino a qualche giorno prima il problema era la siccità, poi l’apocalisse, un finimondo di acqua e fango ha travolto la meravigliosa Valencia e si è portata via tutto, soprattutto tantissime vite umane. In tre giorni è caduta la pioggia che solitamente precipitava in un anno e mezzo. I nostri alluvionati come quelli di mezza Europa guardano sgomenti perché pensavano di aver subito la tragedia più grande.

Alcuni giornali non lo chiamano cambiamento climatico, ma impropriamente e genericamente “maltempo”. Si vuole confondere le popolazioni comunicargli che si è trattato di un evento eccezionale e non uno dei tanti eventi estremi che l’umanità dovrà subire perché chi la governa colpevolmente non ha fatto nulla per mitigare e adattarsi al cambiamento climatico.
Il clima a cui si dovranno abituare i popoli europei sarà un’altalena di lunghi periodi di siccità seguiti da piogge devastanti, concentrate e violente. C’è ormai una evidenza a cui non si può più sfuggire: il sistema idraulico del territorio europeo non è più all’altezza del nuovo clima e dell’intensità delle sue precipitazioni.

Questa è l’amara verità da dire alle popolazioni europee. Ed invece si cerca di comunicare che si tratta di eventi imprevedibili, catastrofi naturali che non si potevano né prevedere né contrastare. Le nostre sciagure, ma penso anche le altre hanno un copione fisso: un pugno di soldi, ovviamente pochi per ricostruire così come era, in attesa della prossima pioggia. Più a fondo si guarda più però emergono le colpe. È dalla fine degli anni ’90 che il mondo scientifico comunica ai decisori politici, quelli importanti e i tanti che lo sono meno che la terra ha la febbre altissima, che l’uomo ha provocato e che se entro il 2050 non si riuscirà a impedire che la temperatura salga oltre un grado e mezzo rischiamo l’estinzione. Al 2050 manca un soffio bisognerebbe accelerare l’abbattimento delle emissioni climalteranti ed invece continuano a crescere.

La comunità scientifica ci aveva anche detto come agire, quali tecnologie usare, quali rinunciare come il fossile: ciò che è mancata è la volontà politica. Oltre a raduni inutili, detti COP. convocati dall’Onu in cui si partoriva un documento dopo estenuanti trattative, che fissava obiettivi che nessuno poi rispettava, anche perché per gli stati inadempienti non erano previste sanzioni. In queste COP devono irrompere i popoli per avere un senso. A Roma si cercherà di farlo il 16 con sarà una manifestazione convocata da una miriade di associazioni anche per scuotere questo governo negazionista e chi vi si oppone. Il tema è cambiare il modello energetico, uscire dal fossile e promuovere le rinnovabili, il risparmio energetico. Non solo ma anche cessare di consumare suolo, produrre rifiuti. Insomma disturbare il manovratore, che con il piano Mattei vuole incatenare l’Italia al metano.

Ci diranno che non ha senso che singoli paesi o l’Europa stessa abbatta le emissioni se contemporaneamente grandi paesi come gli Usa e la Cina non fanno altrettanto. È vero, ma per convincere questi paesi a ridurre le loro emissioni serve che l’Europa decida unilateralmente e poi non è solo un sacrificio, ma significa accumulare un grande vantaggio di tecnologie, ricerca scientifica.

Questa unilateralità l’Europa l’aveva scelta con il piano verde, ma chi la governa, la rinnovata commissione europea pensa solo ad armarsi e ha buttato nel cassetto la transizione ecologica.
Quel cassetto può e deve essere riaperto lo si deve ai tanti alluvionati e soprattutto a quelli di Valencia, ma anche perché se si apre aiuta la pace a imporsi

 

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Intervista «Fare un pronostico su un fenomeno come questo è molto complicato perché si tratta di sistemi erratici». Il World Weather Attribution: «Il cambiamento climatico è la spiegazione più probabile poiché un’atmosfera più calda può contenere più umidità, portando a rovesci più forti»

Vista della distruzione nel comune di Letur colpito dall'alluvione foto Ansa Il giorno dopo l’alluvione a Letur, nel centro della Spagna – Ansa

Tutti gli indizi segnalano che l’alluvione che ha causato più di 155 morti in Spagna questa settimana portano a un colpevole: il cambiamento climatico. Gli scienziati sono cauti: non è possibile attribuire un evento, per quanto catastrofico, direttamente al cambiamento climatico. Almeno senza averlo studiato nel dettaglio.

Ma secondo una prima rapida analisi del World Weather Attribution (Wwa), un gruppo di riferimento a livello mondiale, le piogge torrenziali sono state il 12% più intense e due volte più probabili rispetto al clima preindustriale, cioè senza un pianeta più caldo di 1,3°C. L’analisi è solo preliminare perché non sono stati utilizzati ancora modelli climatici per simulare questo evento in un mondo senza riscaldamento indotto dalle attività umane. Ma il Wwa afferma che «il cambiamento climatico è la spiegazione più probabile poiché un’atmosfera più calda può contenere più umidità, portando a rovesci più forti. La relazione di Clausius-Clapeyron indica che a 1,3 °C di riscaldamento globale, l’atmosfera può contenere circa il 9% di umidità in più», spiegano in un comunicato. Inoltre, secondo un’analisi separata di Climate Central, un altro gruppo di specialisti del clima, il cambiamento climatico ha anche reso da 50 a 300 volte più probabili le temperature calde dell’Oceano Atlantico, che hanno aggiunto umidità alla tempesta.
Secondo Isabel Moreno, fisica, meteorologa e specialista di cambiamento climatico, «la questione è che ci troviamo in una situazione in cui l’atmosfera è in grado di trattenere più vapore acqueo, e questo è un fatto incontrovertibile», dice al manifesto.

La metereologa Isabel Moreno
La metereologa Isabel Moreno

La temperatura del Mediterraneo non è mai stata così alta.

Davanti alle coste spagnole oggi il Mediterraneo è a 22 gradi! A settembre era a 30, e in Italia ancora peggio. Immaginiamo che sarebbe potuto succedere con un evento del genere un mese fa. È nel Mediterraneo dove il cambiamento climatico si sente di più.

Perché?

Questi eventi sono più tipici del Mediterraneo perché interagiscono con i venti e l’energia che vengono da questo mare. In più nella costa sudest della Spagna i rilievi sono molto vicini al mare. Il mare porta venti umidi, che caricano ulteriormente l’atmosfera di “combustibile”. Oltre a questo, il mare così caldo rilascia l’energia, il “fiammifero” per accendere il fuoco. E poi c’è un problema orografico, cioè che vicino alla costa spagnola abbiamo una serie di montagne che aiutano che le precipitazioni si formino.

E poi c’è il tema della previsione.

Fare un pronostico su una Dana (depressione isolata ad alta quota, ndr) è molto complicato perché, innanzitutto, si tratta di sistemi abbastanza erratici, in cui una piccola variazione rispetto alla posizione iniziale può darti un risultato completamente diverso da quello che avevi previsto. E poi dobbiamo tenere conto del fatto che questi sistemi possono generare al loro interno sistemi più piccoli, come tempeste. Lì le previsioni diventano ancora più complicate, perché sapere dove circolerà un fronte, cosa che è relativamente facile da studiare, non è la stessa cosa che stabilire esattamente dove si formerà una tempesta o può formarsi un temporale. Si può stimare quanta acqua può rilasciare una Dana, ma è possibile che a causa della situazione caotica dell’atmosfera, un temporale rimanga ancorato a lungo in un determinato luogo e finisca per lasciare un’immensa quantità di precipitazioni.

Ma in questo caso le previsioni erano state piuttosto affidabili.

Sì, e da molti giorni. Sapevamo che sarebbe caduta una quantità significativa di precipitazioni e conoscevamo le aree in cui ciò avrebbe potuto verificarsi. Anche se la quantità di acqua che finalmente è caduta era significativamente più alta di quella prevista, che era comunque elevata. Motivo in più per prendere provvedimenti. Erano previsti 200 l/ m² e in alcuni punti invece si è arrivati a 600! Per avere un’idea, dato che la costa mediterranea è una delle regioni più secche del Mediterraneo, per molte zone quest’acqua è più della quantità di pioggia annuale media, che cade in poche ore. Se poi invece che in zone spopolate, cade su zone urbane, la catastrofe è garantita.

Cosa dovrebbero fare le amministrazioni?

Io credo che in fin dei conti dobbiamo partire dal presupposto che dobbiamo comunque adattarci agli eventi meteorologici estremi. Voglio dire, sappiamo che stanno aumentando come conseguenza del cambiamento climatico. E che con il tempo andrà sempre peggio. Ma anche se il cambiamento climatico non esistesse, alla fine dovremmo comunque adattarci agli eventi meteorologici estremi. Non sappiamo quando, ma è sicuro che succederà di nuovo. Sono già successi nel passato. Dobbiamo avere dei piani perché un evento meteorologico estremo non diventi una catastrofe. Se hai un avviso rosso, le autorità devono darti il permesso per non andare a lavorare. Devono esistere dei protocolli amministrativi, delle misure economiche. E per questo ci vogliono autorità politiche che facciano il loro lavoro.

 

 

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La destra all’attacco dell’ennesimo giudice: stavolta tocca a Gattuso, del tribunale di Bologna, per il rinvio alla Corte di giustizia Ue del decreto sui paesi sicuri. Ma Meloni non riesce a trovare una via d’uscita dal pasticcio dei centri per migranti in Albania

«Paesi sicuri» È Come per la calcolatrice, impugnata da Meloni in tv con Vespa per fare chiarezza sui numeri della legge di bilancio. Ma i conti non tornano e alla fine la […]

Giorgia Meloni durante un intervento al Senato foto Ansa Giorgia Meloni durante un intervento al Senato foto Ansa

È Come per la calcolatrice, impugnata da Meloni in tv con Vespa per fare chiarezza sui numeri della legge di bilancio. Ma i conti non tornano e alla fine la presidente del Consiglio ammette: «Ho fatto un casino». Anche sui migranti deportati in Albania hanno fatto un casino. Anzi, più di uno: la sfilza di decreti e protocolli ha prodotto un clamoroso fallimento. E moltiplicato le sofferenze di sedici persone, costrette a navigare di cella in cella: avessero accesso a un minimo di stato di diritto adesso potrebbero chiedere i danni.

Eppure ancora non basta, quel decreto “paesi sicuri” che avrebbe dovuto rimettere in riga i giudici, per il quale si era convocato di urgenza il Consiglio dei ministri e sfidato il Quirinale, ora sparisce. Si inabissa per evitare anche il pieno controllo parlamentare. Il governo si deve correggere, si accorge che i suoi proclami non funzionano. Ma ormai senza freni reagisce con un nuovo strappo alle regole. Non chiede scusa anzi attacca chi non si adegua al “casino”.

L’attacco è violentissimo. Colpisce anche la vita privata del giudice che ha applicato la legge che loro stessi hanno scritto. Sì, perché il collegio di Bologna, presieduto da Marco Gattuso, non ha disapplicato il decreto con dentro la lista dei “paesi sicuri” decisa al tavolo di palazzo Chigi. Eppure avrebbe potuto: la Corte costituzionale e la Corte di Giustizia ricordano ai giudici ordinari di interpretare il diritto in modo costituzionalmente orientato, cioè tenendo presente che Costituzione e diritto europeo sono sovraordinati rispetto alle leggi nazionali. Un principio che nessuna “commissione speciale” della maggioranza parlamentare potrà mai sovvertire, per quanto si stia pensando persino a questo. Ma il collegio del tribunale di Bologna ha fatto invece una scelta prudente e intermedia, limitandosi a chiedere ai giudici di Lussemburgo come regolarsi, visto che il governo italiano ha tirato fuori una legge che smentisce il diritto europeo.

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In fondo è proprio quello che il governo prevedeva, quando ha fatto il decreto. Ma la logica ormai è perduta, per non dire del dovere di leale collaborazione: il governo dei bulli alza la voce e il tono delle minacce non solo per andare contro chi non si adegua ma anche per coprire i propri errori. Meloni dice che il provvedimento del giudice Gattuso è «un volantino propagandistico» però guarda caso è lei che ritira la sua legge, perché non

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Precipizio climatico Secondo uno studio recente della rivista Nature, di qui al 2050 l’impatto del cambiamento climatico a livello globale costerà sei volte più di quanto avremmo dovuto spendere per prevenirlo. Invece, anche le timide politiche «green» impostate negli ultimi anni vacillano sotto i colpi di nazionalismi e populismi

Binari ingombrati da detriti a Paiporta, vicino Valencia - foto Ap Binari ingombrati da detriti a Paiporta, vicino Valencia – Ap

A forza di chiamarlo «riscaldamento globale» ci si era illusi che il cambiamento climatico si sarebbe presentato sotto forma di estati torride e inverni più miti di quelli a cui eravamo abituati. Invece settimana dopo settimana ci accorgiamo che l’enorme quantità di calore trattenuto dall’atmosfera a causa dei gas serra ha come conseguenza immediata l’estremizzazione del clima. La regione di Valencia ora sott’acqua fino a poche settimane fa combatteva con la peggiore siccità degli ultimi ottant’anni. Lo stesso si può dire per l’Emilia-Romagna e per l’Ardeche francese, allagate un’altra volta, così come tante regioni del Mediterraneo e del mondo. Il ricco occidente sta facendo conoscenza diretta di alcune delle ragioni che portano milioni di persone a lasciare le proprie terre precarie per spostarsi altrove.

Quelli che vediamo in tv o dal vivo sono gli effetti di pochi decimi di grado in più. Secondo gli accordi internazionali presi a Parigi nel 2015, il mondo si sarebbe dovuto impegnare per limitare l’aumento di temperatura entro 1,5 gradi in più rispetto all’era pre-industriale. Invece, l’ultimo rapporto annuale del Programma per l’ambiente delle Nazioni unite riferisce che con le attuali emissioni il mondo viaggia verso un aumento di 3,1 gradi, il doppio dell’obiettivo. Per raggiungerlo sarebbe necessario tagliarle del 42% in cinque anni, praticamente impossibile. Su quale sia la scelta più conveniente tuttavia non ci sono dubbi: secondo uno studio recente della rivista Nature, di qui al 2050 l’impatto del cambiamento climatico a livello globale costerà sei volte più di quanto avremmo dovuto spendere per prevenirlo. Invece, anche le timide politiche «green» impostate negli ultimi anni vacillano sotto i colpi di nazionalismi e populismi.

La manovra finanziaria del governo Meloni è esemplare in questo senso. Il governo ha infatti quasi azzerato il fondo destinato a finanziare la riconversione dell’industria automobilistica italiana (cioè Stellantis) alla produzione di auto elettriche: dei 5,8 miliardi rimasti in cassa la manovra ne ha tagliati 4,6. Saranno messi a disposizione della Difesa, a cui il governo ha garantito 40 miliardi di investimenti nei prossimi dieci anni. Evidentemente la priorità del governo Meloni non è collaborare allo sforzo internazionale per riportare sotto controllo il clima ma riguadagnare un posto nelle gerarchie militari globali.

È una tendenza non solo italiana. In Europa, insieme al governo italiano anche quello tedesco chiede a Ursula von der Leyen di rinviare il bando alle auto diesel e benzina stabilito per il 2035. Trattandosi delle due principali manifatture del continente, la spunteranno. Non va meglio a livello mondiale. Tra meno di due settimane il petrostato dell’Azerbaigian ospiterà la COP29, il summit annuale in cui governi e organismi sovranazionali stabiliscono come affrontare la crisi climatica e in cui l’Ue di solito difende le posizioni più ambientaliste. La socialista spagnola Teresa Ribera Rodriguez, designata vicepresidente della prossima Commissione con la delega alla transizione ecologica, sarebbe la politica più attrezzata per portare a buon fine il summit, ma non ha ancora preso servizio. Dunque a Baku l’Ue si presenterà con il solo commissario uscente alla giustizia climatica – riconfermato per il prossimo quinquennio – Wopke Hoekstra, ex-dipendente della petrolifera Shell. Von der Leyen ha affidato a lui, e non a Ribera, la modifica del regolamento ai combustibili fossili per auto e camion in Europa. Per gli Usa ci sarà Joe Biden. È un possibile alleato dell’Europa ma il suo peso dipenderà dall’esito delle presidenziali del 6 novembre.

Seppure la politica rinsavisse e imboccasse una strada virtuosa dal punto di vista ambientale, gli effetti delle minori emissioni si vedrebbero tra qualche decennio. Nel frattempo? Come sanno gli agricoltori emiliani, gli indennizzi pubblici arrivano col contagocce. Il governo italiano pensa di affidare il problema dell’adattamento climatico al mercato assicurativo. Dal 2024, le aziende sono obbligate a stipulare una polizza per proteggersi dal rischio climatico. La scadenza del 31 dicembre è quasi arrivata ma lo ha fatto solo il 5% delle imprese anche perché i premi assicurativi stanno diventando proibitivi e già intere aree europee sono dichiarate «non assicurabili». L’Italia, e non solo lei, si presenta di fronte alla crisi climatica nella peggiore situazione possibile: il mercato dell’energia è dominato da logiche militari, i consessi internazionali appaiono impotenti, il ritorno dell’austerità frena gli investimenti pubblici necessari ad adattarsi al nuovo scenario. La tempesta perfetta, se non fosse già una metafora di cattivo gusto.

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Pesti Intervista a Nicola Fratoianni, segretario di Sinistra italiana e deputato Avs

Nicola Fratoianni foto LaPresse Nicola Fratoianni – foto LaPresse

«Quando si viene battuti è sempre un’occasione perduta. Però…». Parlando del voto ligure, Nicola Fratoianni, segretario di Sinistra italiana e deputato di Avs, procede all’analisi della sconfitta con una constatazione seguita da un distinguo.

Però?
Come ha detto Andrea Orlando è stata l’occasione di rimettere radici laddove erano state spiantate. Il risultato genovese sta lì a dimostrarlo: si riparte da lì, non da una debacle. Adesso occorre lavorare perché la coalizione si dia un assetto stabile.

Alleanza Verdi Sinistra si conferma in crescita.
Ecco, quando indico la necessità di consolidare l’alleanza lo faccio proprio sulla base del nostro consolidamento che ci dice che viene premiato il nostro profilo culturale e politico di chiarezza, radicalità e coraggio sui temi ma anche grande attenzione all’unità.

Riccardo Magi per +Europa chiede un tavolo stabile della coalizione e dice che spetta al Pd convocarlo.
Che serva una dimensione stabile lo diciamo da tempo. Per quel che ci riguarda lo diciamo da prima delle elezioni politiche, quando si è compiuto il suicidio che ha portato Meloni al governo. Se tocca al Pd convocarlo non lo so, l’importante è che si faccia. Abbiamo bisogno di costruire alternativa nella relazione tra di noi e nel rapporto col paese, perché venga percepita come credibile, auspicabile, desiderabile.

Emerge il dato dell’astensione. Non è bastato lo spettro della corruzione a mobilitare l’elettorato?
A destra la legalità non è mai stata un valore. Berlusconi e la sua traiettoria politica hanno separato etica e politica. È sempre accaduto almeno da lui in poi che a destra questo tema incida poco sui risultati elettorali, a differenza del nostro campo. L’astensione continua a crescere perché la gente continua a non incontrare nella politica risposte alla propria condizione. Quando non riesci a modificare la condizione materiale delle persone, molti finiscono per pensare che non votare non serva più a niente. Questo problema ci riguarda. Ha a che fare con la qualità della proposta da portare avanti. Per questo siamo stati premiati e per questo dobbiamo alzare il tiro dell’ambizione, perché serve restituire la speranza: a questo serve la politica.

Sono mancati i voti del centro? Serviva Matteo Renzi?
Sono mancati circa ottomila voti. È curioso che tutti scatenino la caccia a Conte ma che nessuno osservi che la lista di Azione prenda l’1,7%. La crisi del centro come spazio politico è un dato su cui ragionare.

Il cammino verso la costruzione della coalizione è più facile o più difficile dopo ieri sera?
Si sa, le vittorie aiutano e le sconfitte rendono tutto più complicato. Ma non bisogna fare di questo passaggio elemento di divisione. In questi mesi abbiamo lavorato assieme su salario minimo legale, autonomia, premierato, riduzione dell’orario, abbiamo posizioni convergenti sulla legge di bilancio e siamo impegnati in modo unitario su molte questioni. Ma attenzione: questo passaggio ligure non deve diventare un ostacolo alla costruzione dell’alternativa. Dobbiamo accelerare, non frenare.

Cambiano i rapporti di forza dentro il fronte progressista?
Se la nostra attenzione si rivolgesse agli equilibri coalizione o a quelli interni ai rispettivi partiti commetteremmo un grave errore. Dobbiamo parlare al paese del fatto che la legge di bilancio non dà nessuna risposta alla povertà dopo aver tagliato il reddito di cittadinanza. Così come non danno nessuna risposta ai metalmeccanici che chiedono interventi di fronte all’ignavia di Stellantis e all’immobilismo del governo sulla transizione ecologica. Dobbiamo parlare di scuola e sanità pubblica. Esistono spazi di convergenza. A questo proposito lancerei una proposta alle opposizioni: non basta il lavoro parlamentare, lavoriamo per fare una mobilitazione comune attorno alla legge di bilancio. Gli equilibri interni e il ruolo di ogni forza politica si definiranno in seguito, quando il momento lo richiederà.

Resta il tema dirimente della guerra.
Dobbiamo guardare alle vicende di casa nostra, ma non dimentichiamo di alzare lo sguardo. Il parlamento israeliano approva norme che mettono fuori legge un’agenzia delle Nazioni unite. Siamo allo spregio del diritto internazionale. Anche su questo tema della pace e del no al riarmo segnaliamo l’urgenza di una mobilitazione.

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