Tante cose dicono le elezioni americane, oltre a lasciarci sbigottiti. La prima riguarda la partecipazione al voto. I potenziali elettori sono stimati più o meno 240 milioni. Di questi, 170 milioni sono iscritti alle liste elettorali. Hanno votato per Trump circa 75 milioni. Quanti americani rappresenta?
La seconda cosa è che colpevolizzare i ceti meno abbienti e meno istruiti, divenuti razzisti e autoritari, è un falso, utile solo a scongiurare che la sinistra guardi troppo a sinistra. Egemone su quella moderata, la destra xenofoba ha guadagnato due milioni di voti. I democratici in quattro anni ne hanno persi 6 milioni.
Tutto fa pensare che li abbiano persi per lo più a favore dell’astensione e che la quota di gruppi sociali più deboli che ha deciso di votare per Trump è tutto sommato modesta. Trump ha ampliato solo di poco il suo seguito fatto per lo più di ceti benestanti, ceti intermedi e working class conservatori.
I democratici, intenti a curare i ceti istruiti, urbani e benestanti, hanno invece pagato cara le loro distrazioni: avranno pur rilanciato economia e occupazione, ma troppo poco hanno fatto per contenere l’inflazione e salvaguardare il potere d’acquisto.
Benché il non voto non sia così imponente, le cose vanno così dappertutto. E invalsa anche una routine. La sinistra delude e perde, la destra illude e vince, per essere sconfitta non da un progetto di governo alternativo, ma dai disastri che ha perpetrato.
A quel punto, la sinistra si trova a governare con un doppio handicap: il suo deficit di autorevolezza e d’idee e i danni ereditati dalla destra. Tamponerà questi ultimi, rimetterà in moto l’economia e ridurrà il debito pubblico, ma chiedendo nuovi sacrifici agli elettori, specie ai più deboli. Che allora per lo più non andranno a votare, perché la politica non li riguarda, e si creeranno le premesse di una nuova sconfitta della sinistra. Finché non accadrà che la destra, sempre più incattivita per nascondere i suoi fallimenti, prenda, una volta tornata al potere, la decisione più congruente coi suoi sentimenti, cioè abolire le elezioni.
L’Italia non fa eccezione. Anzi. Non è nemmeno il caso di fare l’inventario della variegata e deprimente offerta elettorale di quella che Antonio Floridia chiama la non-destra.
Il paradosso è che, come altrove, le misure politiche e il furore persecutorio della destra contro i migranti non sono maggioranza tra i cittadini.
In America, a dispetto del successo repubblicano, in molti stati i votanti hanno bocciato le restrizioni all’aborto. Se non che, le difficoltà che quarant’anni di neoliberalismo hanno suscitato per chiunque debba governare sono serissime. La finanziarizzazione ha rallentato il decadimento dell’occidente, ma a lungo andare va esaurendo i suoi effetti.
La destra xenofoba, complice la destra moderata, offre un narcotico per guadagnare altro tempo e per consentire ai soliti noti di fare altri affari.
La sinistra, volesse invertire la tendenza, avrebbe bisogno di risorse enormi. A fare la sinistra, dovrebbe addirittura rinegoziare i rapporti tra capitalismo, politica, società.
Che servano misure straordinarie l’ha certificato il Rapporto Draghi, senza troppo preoccuparsi dell’occupazione e non trovando di meglio che confermare un ruolo preminente ai privati e invitare l’Europa al riarmo.
La redazione consiglia:
Draghi sollecita fondi miliardari per l’economia Ue in guerraForse un segnale va cercato da altre parti. Se in Gran Bretagna Starmer pareva destinato a proporre una versione ingrigita di blairismo, qualche giorno fa Rachel Reeves, cancelliere dello scacchiere, ha presentato un bilancio che da un lato cerca risorse da una politica fiscale più severa verso i ceti abbienti, dall’altro promette massicci investimenti in alcuni servizi pubblici. Vedremo se farà o meno la fine delle promesse di Obama e di Biden. Che non hanno però saputo trovare nella società quel sostegno politico che serviva a resistere a chi le contrastava.
La politica è l’arte del possibile. Ma non è detto che il possibile sia il più facile e spesso il possibile non offre un’unica possibilità. Ora, poiché le sinistre (e la non-destra nostrana) proprio non ce la fanno, serve inventarsi qualcos’altro. Tra i tanti difetti, spicca la loro estraneità sociologica e culturale rispetto a larga parte del loro potenziale elettorato: non lo conoscono, né lo capiscono. I partiti di una volta colmavano questo gap. Ma è difficile che queste élites li reinventino. La società deve ormai proteggersi da sé.
Occorre un’iniziativa che giunga dai confini del sistema politico, dove si è costretti a parlare con la gente comune. Le destre estreme, che hanno evitato di farsi risucchiare totalmente dall’establishment, hanno parlato agli elettori, mettendo a frutto il capitale simbolico dormiente del nazionalismo.
A sinistra si deve far lo stesso, magari risvegliando e sfruttando un altro capitale simbolico relegato al margine come la cultura solidale e socialista. Contro la consuetudine invalsa da tempo, l’opposizione al governo va condotta anche fuori dalle mura del Palazzo e dal chiacchiericcio mediatico. Qui già operano il sindacato, un discreto tessuto associativo e di controinformazione, molti luoghi di riflessione, anche di alto profilo.
Su alcuni temi, come l’autonomia differenziata e l’emergenza climatica la mobilitazione è in corso. E infatti il governo la teme, tanto da adottare grevi norme repressive in materia d’ordine pubblico.
L’opposizione sociale può però assumere anche un ruolo propositivo, può elaborare un progetto di trasformazione sociale e spingere i partiti a fare ciò che di loro non farebbero. Anche questo forse fa parte del possibile