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EUROPEE. Nicola Fratoianni, segretario di Sinistra italiana, rivendica il «metodo Avs»: «Andiamo oltre noi stessi, non abbiamo pretese di autosufficienza»

 Nicola Fratoianni - Ansa

Quando intercettiamo Nicola Fratoianni, segretario di Sinistra italiana e deputato di Avs, sta andando alla Camera a consegnare le 150 mila firme raccolte per chiedere che Netanyahu venga processato come criminale di guerra. La nostra discussione parte dalle ultime uscite di Giorgia Meloni. «Segnalano la propensione sfacciata all’uso improprio e contundente della propaganti per mezzo delle istituzioni – sostiene Fratoianni – Sulle liste d’attesa siamo di fronte a un gigantesco imbroglio sul diritto alla salute, uno schiaffo in faccia a medici, infermieri e operatori sanitari che da anni aspettano il rinnovo del contratto, con un sistema che ha il 97% dei macchinari diagnostici obsoleti».

Torna anche, seppure con una nuova veste, il tema della criminalizzazione dei migranti.
Siamo all’ennesima tappa di una strategia che non esiste: nel corso di questa legislatura si sono susseguiti annunci di svolte storiche, accordi con dittatori, ripetizioni di scelte fallimentari degli anni precedenti, per non parla di quello che fanno in Albania. Se Meloni vuole seriamente intervenire su questo tema venga in parlamento e cambi la legge Bossi-Fini, che ha fabbricato irregolarità. E denunci i trafficanti veri: la guardia costiera libica con la quale questo governo, e i precedenti, ha collaborato.

La produzione di annunci è proporzionale alla carenza di risorse economiche?
Hanno fatto un Def senza numeri per non fare scelte lacrime e sangue prima delle elezioni. Meloni gioca una partita tutta interna alla sua coalizione, punta a confermare e consolidare il suo primato ma è una prospettiva cieca, perché non ha sbocchi sul piano politico. E forse non ha sbocchi neanche rispetto alla governance europea: vedremo se i suoi elettori ci staranno.

Avete scelto di tenere il simbolo di Avs per dare un segnale di continuità del progetto. Al tempo stesso avete molti candidati in prima fila (penso a Salis, Smeriglio, Marino e Lucano) che non hanno la tessera di Avs. Come si tengono le due cose?
Abbiamo scelto di correre con il simbolo di Avs per una questione di credibilità. È la conferma di un impianto, di una proposta politica. Mi sento di dire che il 9 giugno verranno eletti diversi parlamentari europei di Avs. A conferma del fatto che siamo in crescita. Quanto ai candidati, è del tutto naturale: abbiamo sempre inteso la costruzione di Avs non solo come ristretta alle due forze politiche che l’hanno creata, vogliamo parlare al di là del recinto dei fondatori.

Avete messo insieme gente di diverso tipo. Immaginate un partito come una coalizione?
È una costruzione nuova che parte dalle sfide attuali, bisogna passare dalla relazione tra molte dimensioni non per risolvere i problemi da un giorno all’altro ma per immaginare nuove soluzioni. Siamo nati di fretta, poi ci siamo consolidati e non ci siamo frantumati. Abbiamo rilanciato: le candidature dimostrano questo capacita di attrazione. Abbiamo lavorato molto su questa nuova proposta, sulle parole, sul linguaggio, sugli strumenti e sulla lettura dei problemi. E abbiamo scelto di mettere in campo una proposta aperta nel senso pieno della parola: perché non si considera autosufficiente e vuole costruire accumulazione di forza, credibilità e radicamento. Il risultato di queste elezioni europee ci darà elementi di valutazione ma possiamo già dire che siamo in una fase nuova. E che possiamo chiudere la lunga stagione di irrilevanza, fragilità e frammentazione a sinistra.

In che gruppo andranno in Europa i vostri eletti?
Alcuni coi Verdi, altri con la sinistra. È quello che accade agli eletti di Sumar in Spagna e ad altre forze altrove. Lo abbiamo detto da tempo, non lo consideriamo un elemento di debolezza ma una grande occasione. I nostri eletti avranno comunque il vincolo del programma, sulle questioni decisive esprimeranno un voto coerente. Bisogna costruire anche in Europa elementi di convergenza. Già sinistra e Verdi votano insieme molto spesso. Ma bisogna andare avanti, mettere insieme punti di vista che sono entrambi largamente necessari.

Però una parte dei Verdi europei ha posizioni molto diverse dalle vostre su un tema decisivo come la guerra.
Chiunque conosca le famiglie europee sa che articolazioni del genere esistono. E ribadisco: i nostri rispetteranno il programma di Avs. Siamo l’unica forza che fin dalla scorsa legislatura nel parlamento italiano non ha mai votato per l’invio di armi. E usiamo parole chiarissime sulla Palestina, come dimostra la consegna delle firme di oggi.

Si vota anche in diversi comuni. Come ci arrivate?
Anche qui, abbiamo lavorato per costruire convergenze e coalizioni in grado di offrire alternative alla destra. Siamo quelli che con più chiarezza dicono quello che pensano sulla redistribuzione della ricchezza e sulla necessità di una patrimoniale, sul lavoro siamo nettamente al fianco della Cgil e dei referendum per cancellare la precarietà. Diciamo nettamente come la pensiamo su guerra e pace e sulla conversione ecologica. Ma nello stesso tempo siamo tra i più determinati nella costruzione dell’alternativa. Non dipendete tutto da noi, ma questa urgenza si pone e da lunedì prossimo si porrà con maggiore forza: il rifiuto di rassegnarsi all’idea che Meloni debba restare per sempre al governo.

 

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EUROPEE. Intervista a Massimiliano Smeriglio, candidato con Alleanza Verdi Sinistra

 Massimiliano Smeriglio - Lapresse

Quando sentiamo Massimiliano Smeriglio, candidato alle europee con Alleanza Verdi Sinistra nella circoscrizione centro e nel nordovest, si trova in giro per il Lazio. Più precisamente a Spigno Saturnia, comune di poco più di duemila anime in provincia di Latina. «Circola disincanto – racconta – L’astensione sarà determinante. E non aiuta un dibattito tutto piegato sulla politica nazionale».

C’è disincanto anche a sinistra?
Dal nostro punto di vista sta andando bene. Dopo tanti anni noto interesse, vivacità, convergenza di storie, reti, movimenti e liste che si candidano con la declinazione «in comune».

Realisticamente, se Avs dovesse eleggere parlamentari europei, per la maggioranza sarebbero indipendenti e civici.
È un segnale positivo. Va riconosciuto a Si Verdi di aver mantenuto alle scorse elezioni politiche un punto di vista nazionale prezioso per parlare con altri. Poi, nel corso di quest’ultimo anno, c’è stato uno scatto dovuto a una ragione oggettiva: il governo di destra impone discussioni lunari su proibizionismo, razzismo, il gender. A sinistra ci si mobilita. La destra non potendo risolvere questioni materiali si inventa nemici immaginari: i migranti, gli ambientalisti o i raver. C’è anche la delegittimazione dell’antifascismo, che corrisponde al disegno politico di colpire l’architettura costituzionale. E poi la guerra. Bisogna contrastare il riarmo, per un’Europa capace di sganciarsi dall’influenza atlantica. Anche su Gaza: se Meloni dice «due popoli due Stati» faccia come Sanchez e riconosca la Palestina. Da questa posizione si potrebbero contrastare gli estremismi religiosi di Hamas e di Netanyahu.

Avete lavorato sulle esperienze municipaliste.
C’è voglia di rimettersi in cammino, non limitandosi a presidiare in maniera virtuosa la dimensione municipale e provando a costruire un punto di vista nazionale ed europeo. Qualche giorno fa abbiamo avuto al Leoncavallo, luogo di per sé simbolico, un incontro nazionale con diverse reti civiche.

Su questo ha scommesso quando ha lasciato il gruppo dei Socialisti e democratici?
Ho fatto un investimento sui nessi amministrativi, sui conflitti e le vertenze con uno sguardo sui temi internazionali. Questo voto serve a costruire un soggetto politico democratico, trasparente e aperto. Non è solo una corsa alle preferenze. Ci siamo presi la responsabilità della candidatura di Ilaria Salis. Lei è stata coraggiosa, ha scelto la comunità che le somiglia di più. Non possiamo sbagliare: dobbiamo arrivare al 4%. La battaglia per liberarla e portarla in Europa non è finita.

Giorgia Meloni punta tutto sullo spostamento a destra del baricentro della maggioranza a Bruxelles e Strasburgo.
È difficile per la modalità di funzionamento del parlamento europeo, che spinge a cercare il negoziato continuo. D’altro canto, questo spostamento c’è già stato con la scomparsa di David Sassoli e del Next generation Eu, con l’arrivo di Metsola e con l’ingresso dei conservatori di Ecr nel board della presidenza. Ancora, c’è la guerra: un business e un clima in cui la destra sguazza. Meloni ci prova: ha l’ambizione di sdoganare forze impresentabili per costruire un contrappunto al Ppe e trascinarlo a destra. Non hanno espresso lo spitzenkandidat per lasciarsi le mani libere.

Se Meloni fallisce la sua campagna europea che succede?
Non ci sono margini in economia. Nonostante la spinta del Pnrr il paese si trova sostanzialmente in recessione. Dal primo gennaio entra in vigore il patto di stabilità imposto dai paesi frugali. E loro hanno obbedito. Si torna alle regole del pre-pandemia, al laccio al collo della spesa pubblica e dei servizi pubblici locali in un momento in cui la sanità è al pre-collasso. La destra cerca di contenere questa spinta negativa agitando feticci.

E quindi?
Se i numeri dell’attuale coalizione di destra-centro e quelli delle opposizioni da lunedì prossimo saranno comparabili significa che esiste uno spazio politico che bisogna riempire per una piattaforma di alternativa.

In tempi non sospetti lei non si è sottratto alla possibilità di cambiare la Costituzione di fronte al mutamento di alcune condizioni materiali.
Ce lo hanno spiegato i padri costituenti: la Carta può evolvere. Ma non siamo di fronte a un passaggio del genere. Le riforme della destra non hanno nulla di organico, sono mance ai rispettivi elettorati. Tra un premierato che mette fuorigioco il presidente della Repubblica e l’autonomia differenziata che produrrà venti programmi scolastici, venti sistemi sanitari, venti approcci folcloristici alle situazioni locali, torniamo a una dimensione medievale

 

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Mimmo Lucano e la parabola del 'modello Riace' - Notizie ...
 
Il mio sogno è stato quello di una politica che crede nell'impossibile. Una politica che non si rassegna e porta avanti battaglie di liberazione, contro muri e fili spinati.
 
*** Puoi ascoltare la mia intervista a @fanpage qui sotto:
 
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Ainid Bandiera della Palestina, bandiera della Palestina libera, 90 x 150  cm, con 2 occhielli in ottone, poliestere di alta qualità (bandiera della  ...

Sono passati 76 anni dalla Nakba, quando centinaia di migliaia di persone furono costrette a lasciare la loro casa e a rifugiarsi in campi profughi nei paesi limitrofi. Tutt’ora sono lì sfollati
in attesa di fare ritorno a casa loro come prevede il diritto internazionale. In questo interminabile periodo di tempo il popolo palestinese ha subito ogni forma di violenza fisica, morale, etica e culturale, è stato umiliato, emarginato, isolato e anche torturato nella sua dignità.
Da allora non ha mai smesso di lottare in tutte le forme, partendo dalla lotta armata fino alla diplomazia, attraversando diverse difficoltà, senza essere stato sconfitto nonostante i vari tentativi ed i complotti contro di esso. 

Nel lontano 1988, al Consiglio Nazionale Palestinese ad Algeri, il presidente Arafat proclamò unilateralmente l’indipendenza della Palestina con la formula dei “due Stati per due popoli”. Da allora ad oggi sono state adottate decine di risoluzioni dell’Onu, il consiglio di Sicurezza e l’Assemblea Generale, a favore della Palestina. Ma nessuna risoluzione è stata applicata da
Israele per la complicità degli Usa e del mondo occidentale.
Dal 1988 ad oggi hanno riconosciuto la Palestina oltre 146 Stati su 193 facenti parte delle Nazioni Unite. Per ricordare a tutti quali sono, si trovano qui elencati con l’anno del riconoscimento.
Fu l’Algeria nel 1988 il primo paese a riconoscere la Palestina per la sua storia, la sua lotta e guerra di liberazione, che ancora non è finita purtroppo. Hanno seguito l’Algeria: Bahrein, Iraq, Indonesia, Libia, Kuwait, Malaysia, Mauritania, Marocco, Somalia, Tunisia, Yemen, Turchia, Afghanistan, Bangladesh, Cuba, Madagascar, Giordania, Nicaragua, Pakistan, Malta, Qatar, Zambia, Arabia Saudita, Serbia, Emirati Arabi Uniti, Gibuti, Albania, Brunei, Mauritius, Sudan, India, Egitto, Repubblica Ceca, Cipro, Gambia, Nigeria, Seychelles, Slovacchia, Sri Lanka, Bielorussia, Namibia, Unione Sovietica, Vietnam, Cina, Burkina Faso, Cambogia, Isole Comore, Guinea, Guinea Bissau, Mali, Mongolia, Senegal, Ungheria, Repubblica democratica popolare di Corea, Capo verde, Niger, Romania, Tanzania, Bulgaria, Maldive, Ghana, Zimbabwe, Togo, Ciad, Laos, Sierra Leone, Uganda, Repubblica del Congo, Angola, Mozambico,
Sao Tomè e Principe, Gabon, Oman, Polonia, Repubblica democratica del Congo, Nepal, Botswana, Burundi, Repubblica del Centro Africa, Bhutan (tutti nel 1988); Rwanda, Etiopia, Iran, Benin, Guinea Equatoriale, Kenya, Vanuatu, Filippine (1989); Swaziland (1991); Kazakistan, Turkmenistan, Azerbaijan, Georgia, Bosnia (1992); Tagikistan, Uzbekistan (1994), Papua Nuova Guinea, Sudafrica, Kirghizistan (1995); Malawi (1998); Timo Est (2004); Montenegro (2006); Costarica, Costa d’Avorio, Libano (2008); Venezuela, Repubblica dominicana
(2009); Brasile, Argentina, Bolivia, Ecuador (2010); Cile, Guyana, Perù, Suriname, Paraguay, Uruguay, Lesotho, Liberia, Sud Sudan, Siria, Salvador, Honduras, Saint Vincent e Grenadine, Belize, Dominica, Antigua e Barbuda, Grenada, Islanda (2011); Tailandia (2012); Guatemala, Haiti (2013); Svezia (2014); Santa Lucia, Vaticano (2015); Colombia (2018); San Kits e Nevis (2019); Barbados, Jamaica, Trinidad e Tobago, Bahamas, Spagna, Irlanda, Norvegia (2024). 

Il 28 maggio scorso i primi ministri norvegese Jonas Gahr, spagnolo Pedro Sanchez e irlandese Simon Harris hanno dichiarato formalmente il riconoscimento della Palestina. Una decisione storica che ha un valore politico di grandissimo rilievo non solo dal punto di vista simbolico. I tre primi ministri hanno definito questa scelta politica “un riconoscimento
necessario per favorire la pace e la sicurezza nella regione”. La risposta rabbiosa di Israele è arrivata subito dopo l’annuncio: ha richiamato gli ambasciatori a Dublino, Madrid e Oslo. E
poi ha messo in atto la vendetta contro i palestinesi.
Informazioni riservate dicono che prossimamente altri Stati europei seguiranno Spagna, Irlanda e Norvegia. A questo va aggiunto il consenso generalizzato delle opinioni pubbliche mondiali che fa sì che nessuno possa trascurare o giocare con l’ambiguità come si è fatto per lungo tempo nel mondo occidentale. Oggi gli Stati devono decidere se si collocano dalla parte giusta della storia, come hanno fatto i popoli, oppure continuano con la loro ambiguità, a partire dall’Italia, perché la storia non perdonerà.

Il mondo deve rendere giustizia a questo popolo e deve chiedere scusa in modo solenne a quei bambini massacrati e bruciati vivi solamente perché palestinesi.
Con questa barbarie non hanno ucciso e bruciato vivi solo quei bambini, ma hanno bruciato anche la nostra dignità, il nostro essere persone libere. Per ricordare quelli angeli uccisi nel sonno e perché non accada mai più ovunque il 26 maggio potrebbe essere la loro Giornata della Memoria.
Si chiamava Palestina, si chiama Palestina, sarà chiamata Palestina! La Palestina, signora Meloni non ha bisogno del suo riconoscimento, lei stessa e il suo governo ha/avete bisogno del riconoscimento della Palestina.

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PACE. Ma allora, perché nelle piazze d’Italia si fanno i picchetti militari, e a Roma sfila la parata delle Forze Armate?

Si celebra una vittoria referendaria. La Repubblica italiana nasce dalle urne. Gli elettori bocciarono la monarchia che aveva consegnato la patria al fascismo, condannandola a venti anni di violenza e dittatura, e poi una sanguinosa guerra. Una Repubblica, come vuole la Costituzione, fondata sul lavoro.

Ma allora, perché il 2 giugno nelle piazze d’Italia si fanno i picchetti militari, e a Roma sfila la parata delle Forze Armate?

La scheda elettorale e la matita simboleggiano questa giornata, che festeggia la Repubblica, cioè democrazia, libertà, pace, e non certo divise militari e fucili.

La Repubblica è di tutti, non dell’Esercito.

Il 2 giugno dev’essere una festa di popolo, senza transenne a dividere autorità e militari dai cittadini, che sono i veri protagonisti. Tutti uniti attorno alle istituzioni repubblicane e democratiche.

La Repubblica italiana ripudia la guerra, per questo alle Feste del 2 giugno, nelle città dove siamo presenti, sventoleremo le nostre bandiere della pace e della nonviolenza. Le associazioni della società civile, i sindacati dei lavoratori, i partiti democratici, devono essere gli attori principali di questa Festa degli italiani.

 

 

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NATO E "LINEA RUSSA". Come è già avvenuto per le crisi nei Balcani, l’Occidente è caduto nella trappola slava e ora si fa dettare l’agenda da Zelenski e da Putin. Stiamo avanzando come sonnambuli verso la guerra, senza capire come e perché

Alberto Negri | ISPI

 

Come è già avvenuto per le crisi nei Balcani, l’Occidente è caduto nella trappola slava e ora si fa dettare l’agenda da Zelenski e da Putin. Stiamo avanzando come sonnambuli verso la guerra, senza capire come e perché.

In Italia il governo e la maggioranza dei partiti, come l’opinione pubblica, sono contrari a usare le armi fornite all’Ucraina per attaccare dentro al territorio russo. Si sta creando una sorta di illusione di parziale “neutralità” del Paese che però è appunto un’illusione. A parte che non abbiamo alcun controllo sugli ucraini che le armi venute dall’estero le hanno già usate in territorio russo. Ma l’Italia ha oltre cinquanta basi militari americane e Nato e sul suo territorio ospita decine e decine di testate nucleari, ovviamente controllate dagli Stati uniti.

La nostra – come Paese uscito sconfitto nella seconda guerra mondiale – è una sovranità assai limitata. Noi abbiamo alleati che sono ex nemici e ce lo ricordano appena si presenta l’occasione, come nel 2011 quando Francia, Gran Bretagna e Usa decisero di distruggere il regime di Gheddafi, il nostro maggiore alleato nel Mediterraneo, fornitore di gas, petrolio, guardiano della Sponda Sud, che soltanto sei mesi prima avevamo ricevuto a Roma in pompa magna.

Non abbiamo margini di manovra. L’articolo 5 della carta atlantica mobilita tutti i membri dell’Alleanza a sostenere gli stati della Nato nel caso fossero attaccati. Un eventualità che poteva apparire remota qualche tempo fa ma che adesso fa parte di uno scenario possibile. Non siamo neutrali e nel caso di allargamento del conflitto entriamo in guerra, ci piaccia o meno. Non solo. Noi non decidiamo nulla perché le mosse di vari Paesi europei favorevoli a usare le armi in modo offensivo contro la Russia ci portano verso una escalation. Decisivo sarà ovviamente l’atteggiamento di Washington che sta definendo il nuovo patto di sicurezza con Kiev.

Come siamo arrivati a questo? Nel caso dell’Ucraina ha inciso assai la propaganda di guerra. Ci siamo forse già dimenticati che l’Ucraina aveva lanciato mesi fa un controffensiva secondo la quale avrebbe riconquistato un parte consistente dei territori perduti. In realtà non solo non era in grado di farla la controffensiva ma si è esposta a una nuova avanzata dei russi. Un disastro la cui responsabilità è dei vertici ucraini ma anche degli strateghi militari occidentali e in primo luogo di quelli americani. Hanno accettato la “bufala” della controffensiva senza battere ciglio: un errore imperdonabile che ora stiamo pagando tutti. Del resto cosa potevamo aspettarci dagli Stati uniti, reduci da clamorosi fallimenti come l’Afghanistan, l’Iraq, la Libia e la Siria? Chi, come chi scrive, li ha visti dipanarsi davanti agli occhi come inviato di guerra non è sorpreso da questa evoluzione disastrosa.

Del resto gli europei per storia e sensibilità diverse non potevano rimediare agli errori americani. Anzi hanno contribuito a rendere la situazione più difficile. Stati come Polonia, Paesi Baltici, Finlandia, Danimarca e Svezia prima erano tenuti a bada dalla Merkel, uscita di scena lei agiscono in proprio.

Del resto era destino che accadesse così con l’allargamento della Ue: deciso negli anni Novanta dalla Germania e da Prodi per conquistare nuovi mercati – ma al seguito dell’allargamento della Nato a Est promosso in chiave militare tutt’altro che democratica – si è rivelato sotto il profilo politico e strategico una delle mosse più ambigue e contraddittorie della storia. Bastavano degli accordi di associazione. Ma guai oggi a dirlo.

E chi ha pagato il prezzo più alto è stata proprio Berlino. Prima la Germania era la locomotiva dell’Unione europea, il Paese più importante, ora non decide nulla. Il cancelliere Scholtz è stato umiliato ancora prima che la guerra cominciasse quando, l’8 febbraio 2022, Biden alla Casa Bianca, davanti al mondo intero, gli ha imposto di chiudere il gasdotto North Stream con la Russia. Merkel lo aveva difeso strenuamente dagli attacchi del Congresso e dell’amministrazione Usa, gli ucraini con gli occidentali poi lo hanno fatto saltare.

La guerra, nonostante le conquiste territoriali russe, poteva finire qui, con questo messaggio evidente: la Russia doveva accantonare per sempre, o per lo meno per decenni, i legami con l’Europa. Con la conseguenza che l’area di influenza europea si era già praticamente dimezzata. Soprattutto se a questo aggiungiamo che l’Europa è praticamente scomparsa come interlocutore rilevante sia in Medio Oriente che in Nordafrica e nel Sahel. La guerra di Gaza insegna.

Adesso ci troviamo con un’Europa a trazione slava, assai lontana dai princìpi fondatori dell’Unione, con alleati come Usa e Gran Bretagna desiderosi di regolare i conti con Mosca e una Francia guidata dalle gesticolazioni politiche di un Macron che proprio in Africa ha subito umilianti sconfitte con i francesi costretti ad abbandonare Mali e Niger. Così siamo arrivati, nella speranza di sbagliarci, sull’orlo di un conflitto allargato.

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