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Si vede già con chiarezza che l’opinione pubblica si divide sul “dopo” in due diversi orientamenti. C’è chi auspica una “ricostruzione” il più possibile rapida, per riavere una produzione ed un mercato “come prima più di prima” (crescita) e, dato che nessuno è così stupido dal credere che la pandeconomia riporterà indietro le lancette della storia, con grandi cambiamenti dettati solo dalle regole della competizione e dei mercati. Il loro punto di forza è il bisogno, generalmente avvertito, di un ritorno rapido alla “normalità”.

Gli altri sono quelli del “niente potrà più essere come prima” ed hanno in mente un “nuovo modello di sviluppo” finalmente rispettoso dell’ambiente, anzi che lo metta al primo posto, e contrappongono all’inevitabile supersfruttamento provocato dai primi (ripartire subito, prima del 4 maggio, anche sulla pelle dei lavoratori …!!!) la richiesta di una maggiore qualità del lavoro e di una migliore equità sociale che passi anche attraverso una robusta redistribuzione della ricchezza. Il loro punto di forza è quello di basare la spinta alla “ricostruzione” su un nuovo patto fra capitale e lavoro e su un’auspicabile alleanza fra classi sociali per il conseguimento del bene comune.

E nell’immediato? Il primo problema dell’emergenza affrontato dal governo è stato quello di evitare che le misure del lockdown provocassero sofferenze insopportabili e inaccettabili alle famiglie colpite dal blocco. Blocco dei licenziamenti (fino al 17 maggio), sospensione degli sfratti (fino al 30 giugno), rinvio dei pagamenti tributari (al 30 giugno), delle utenze e tributi locali (Tari, Tosap, Icp, bollette Acqua ecc), cassa integrazione estesa, bonus per i lavoratori autonomi (i 600 €). Contemporaneamente il governo ha cercato di scongiurare il tracollo delle imprese (a partire dalle piccole) a causa della drammatica crisi di liquidità, con piena (?) garanzia statale dei crediti a pronta attivazione da parte delle banche.
Questo nell’immediato. Ora è evidente che molte altre misure di sostegno sociale, alleggerimento fiscale, e sussidio

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 La stimolante riflessione di Alessandro Messina “Io ho paura ma vorrei poter comprare una poltroncina al cinema Sarti” si collega a diverse - “piccole” o più grandi - iniziative che stanno nascendo in Italia e nel mondo, per affrontare subito l'emergenza sociale ed economica in atto, ed evitare che l'emergenza che stiamo vivendo crei nuove diseguaglianze.
Pensiamo alle iniziative spontanee, forse partite da Napoli, ma che si stanno diffondendo ovunque, dei cesti di generi di prima necessità, con il cartello “chi può metta, chi non può prenda”.
Oppure, sul versante della ristorazione e del piccolo commercio, anche in Italia si stanno muovendo i primi ristoranti che chiedono un sostegno ai proprio clienti per ripartire quando l'emergenza finirà. L'idea è quella di proporre voucher da spendere in futuro (Dining Bonds) e nascono diverse piattaforme per fare rete (di cui sarà necessario verificare l'autenticità).
Ancora, la proposta delle Sardine di Bologna di effettuare "Versamenti volontari progressivi sul reddito per costituire un fondo di garanzia" contro la crisi economica. In pratica, un fondo di garanzia messo in piedi con il contributo di tutti. Con la logica che non sarà a fondo perduto. Una sorta di “microcredito” a cui potrebbero accedere anche tutte le categorie di lavoratori che rimarrebbero fuori dalle misure strutturali, tra cui i lavoratori in nero, i migranti

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Io ho paura.

Non ho paura di morire, ma di essere già morto. Ho paura che scompaiano definitivamente le cose e le situazioni nelle quali mi sento vivo, che alimentano le mie emozioni e la mia mente, che danno la spinta, a volte l’entusiasmo, per fare, per agire insieme, per vivere.

Come i grandi anziani, quelli che sopravvivono a lungo alla scomparsa dei loro cari e del loro mondo di relazioni pubbliche e private, spesso si spengono più per questa perdita che per ragioni biologiche, così io temo che questa pandemia (e soprattutto la depressione che ne seguirà) acceleri e faccia precipitare anzitempo tante cose del mio mondo che a me sono indispensabili e che, in evidente crisi da tempo, si esauriscano di colpo senza che se ne sia metabolizzata la estinzione trasfondendone le qualità in altri modi e luoghi.

Ho paura di non vedere più un film in un cinematografo, di non ritrovare più le piccole botteghe, le stanzette degli artigiani sopravvissuti, le vetrinette dei nostri ceramisti, le poche preziose librerie indipendenti dove curiosare liberamente come nel labirinto della propria mente, le riunioni politiche in stanze inadeguate ma preziose dove l’impegno civile e sociale non affida il suo messaggio solo alle parole, ma agli sguardi, ai gesti, al corpo, alla presenza insomma. Lo sappiamo tutti che la realtà virtuale è discriminatoria, non solo per il digital divide, ma anche perché non è democratica. Chi non sa scrivere con efficacia, chi non sa parlare “bene” ha diritto ad un spazio dove potersi esprimere e comunicare, non lo si può confinare nello sfogatoio imbelle ed impotente dei social.

Facciamo qualcosa!
Vorrei poter comprare una poltroncina al Cinema Sarti, magari per tenerla vuota dopo aver pagato il biglietto per il posto vicino (distanziamento …). Vorrei che la mia città, per come la conosco, non si spegnesse, perché con essa si spegne un valore civile.

Vorrei che i piccoli commercianti non venissero abbandonati alle perverse logiche delle rendite immobiliari in periodi di crisi e quindi ad affitti in fondo suicidi, che agli artigiani veri fossero riservati spazi nel centro della città (altro che trasformare tutto in garage!) vorrei che i ceramisti li pagassero per mantenere aperti i loro laboratori e le loro vetrine in centro storico, vorrei che i caffè dove ci si incontra, si legge, si chiacchiera fossero considerati per quello che sono, nodi importanti delle nostre relazioni e potessero perciò vivere serenamente.

Vorrei che le sedi delle associazioni, dei partiti, dei gruppi di giovani, che dovranno essere molto spaziose se le regole del distanziamento saranno destinate a durare a lungo, non fossero affidate alla logica di mercato per cui sopravvivono se si hanno “soci” danarosi o grandi organizzazioni alle spalle.

Sì, lo so, di fronte al dramma collettivo che stiamo vivendo sembrano piccole cose. Ma sono importanti!

In città qualcuno ci penserà?

Alessandro Messina
20 aprile 2020

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C’è consapevolezza, al Ministero dell’Interno, che il disagio sociale ed economico rischia di tracimare in conflitto, anche in forme radicali e violente, con pericolo per la sicurezza e l’ordine pubblico.

La Ministra Lamorgese arriva persino a chiedere ai Prefetti, uffici territoriali del Governo, articolazione su base provinciale del Ministero dell’Interno, di svolgere “un’opera di sensibilizzazione rivolta agli enti territoriali competenti ad adottare ulteriori misure di sostegno a situazioni di disagio sociale ed economico e di assistenza alla popolazione anche attraverso l’attivazione di sportelli di ascolto e la promozione di iniziative di solidarietà a vantaggio delle fasce di cittadini con maggiori difficoltà. In tale ambito, una particolare premura dovrà essere prestata, tra gli altri, al tema del disagio abitativo che nell’attuale scenario è destinato a subire un incremento significativo, a maggior ragione in quei contesti territoriali nei quali più alto è il rischio di tensioni”.

A me sembra allarmante che i Prefetti debbano essere coloro che sollecitano i Sindaci a prendersi cura delle fasce più deboli.

La pandemia, le restrizioni, la legislazione dell’emergenza, la perdita del pane quotidiano da parte di un numero enorme di cittadini hanno certamente acuito le condizioni di difficoltà estrema in cui già viveva una parte significativa della popolazione.

Tuttavia, la povertà e l’esclusione non sono solo effetti collaterali del coronavirus ma malattie endemiche del modello economico dominante, in cui troneggiano diseguaglianze esasperate, ingiustizia sociale, sfruttamento lavorativo, prevaricazione del capitale finanziario sulla dignità e libertà dei lavoratori, precarizzazione contrattuale, stupro della natura, dell’ambiente e del territorio per assecondare uno sviluppo vorace, che arricchisce pochi e danneggia moltissimi.

E allora mi preoccupa molto che dal Ministero dell’Interno si chieda di “contenere le manifestazioni di disagio che possono verosimilmente avere risvolti anche sotto il profilo dell’ordine e sicurezza pubblica”.

Le manifestazioni di disagio devono essere disvelate, comprese e affrontate con politiche radicali, coraggiose e innovative, non con la militarizzazione dello spazio pubblico dove si svolge il conflitto sociale regolato dai principi cardine della Costituzione.

L’attuale legislazione dell’emergenza ha giustamente limitato temporaneamente la libertà di circolazione delle persone perché in ballo c’è la salute, bene primario, individuale e collettivo che la stessa Costituzione (art. 16) indica quale legittima ragione di limitazione.

Ma l’ordine pubblico non può essere il masso che schiaccia col suo peso le libertà costituzionali.

In ambito giudiziario, per esempio, potrebbe accadere che dopo avere testato per qualche mese le “udienze cartolari” (un ossimoro!) dove al confronto delle parti in contraddittorio davanti al giudice terzo, si sostituisce lo scambio a distanza di note scritte, il modello dell’emergenza diventi sperimentato modello ordinario del processo.

In ambito sociale, parimenti, potremmo assistere a limitazioni del diritto di sciopero, del diritto di riunione, della libertà di manifestazione del pensiero dissenziente, “giustificate” dall’emergenza e dalla tutela dell’ordine pubblico.

Ebbene, la Costituzione non contempla ipotesi di sospensione dell’ordine democratico o dello stato di diritto e, anche laddove il Governo, in casi straordinari di necessità e urgenza, adotti decreti-legge, questi devono comunque essere sottoposti al Parlamento per la conversione in legge, per stabilizzare i loro limitati effetti.

E allora, i Prefetti facciano i Prefetti, i Sindaci facciano i Sindaci, esercitando le loro specifiche e distinte prerogative senza interferenze improprie.

Il compito di ” intercettare ogni segnale di possibile disgregazione del tessuto sociale ed economico, con particolare riguardo alle esigenze delle categorie più deboli” spetta ai Comuni, non alle Prefetture.

Non sia mai che con la scusa dell’ordine pubblico si tornasse surrettiziamente ad una impropria ed illegittima gerarchizzazione e ad un contenimento militare del conflitto sociale.

Restiamo a casa, ma restiamo vigili.

Andrea Maestri

* Andrea Maestri, nato nel 1975, avvocato ravennate, con un nutrito curriculum nella tutela di minori, immigrati ed altre soggettività “deboli” è una figura nota negli ambienti della cultura e dell’associazionismo di sinistra a Ravenna. Antifascista, consigliere comunale a Ravenna dei DS prima e del PD poi, riveste il ruolo di capogruppo di quel partito prima di uscirne. È stato deputato nella scorsa legislatura. Autore de “L’uomo nero” di critica alle politiche di contrasto all’immigrazione messe in campo dal PD prima ancora che se le intestasse il governo successivo. 

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Rete Disarmo: F-35, l'unica via è non comprarli (20/02/2014) - Vita.it

In tempo di coronavirus, vorrei segnalarvi un fatto che per me, che abito vicino alle fabbriche varesine che producono elicotteri e aviogetti impiegati nelle guerre che sfregiano tante regioni del mondo, rappresenta una novità ed una svolta imprevista.

Come racconto nel post settimanale che è ospitato a questo link https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/04/02/aerei-da-guerra-indispensabili-leonardo-non-si-ferma-ma-le-condizioni-non-convincono-i-lavoratori/5753691/

i lavoratori dell’Alenia Aermacchi (oltre 1500 dipendenti) di Venegono hanno scioperato lo scorso Giovedì e non si sono presentati ai loro banchi e ai loro modernissimi attrezzi, giudicando non affatto indispensabile la produzione loro affidata, nonostante le pressioni del Prefetto di Varese e le arroganti affermazioni dell’Amministratore Delegato di Leonardo, Alessandro Profumo.

Quasi un’intimazione - peraltro subita purtroppo nei reparti novaresi dove si monta l’F-35 - giunta puntualmente in una intervista al Corriere della Sera dopo lo sciopero dei metalmeccanici della Lombardia. Nello stabilimento varesino, gli addetti hanno anteposto ad ogni altra cosa il rischio del contagio, l'incolumità della loro vita: assimilandosi in ciò, più o meno consapevolmente e come in un flash improvviso, ad altri viventi lontani, senza volto, vittime indirette della torsione che l’industria delle armi impone alla loro fatica, alla loro professionalità, alle loro conoscenze.

Non è cosa da poco un rifiuto deciso all'entrata della fabbrica e non era mai successo per ragioni spontanee e con una motivazione così imprevista nel settore aeronautico varesino – ne so qualcosa per i miei trascorsi sindacali - nemmeno nel grande fermento della classe lavoratrice, a cavallo fra gli anni ’60 e ’70 dello scorso secolo.

Si dirà che è prevalsa la paura, che una fermata in un frangente eccezionale come quello della pandemia in corso non è granché. Io mi azzardo a pensare invece che non tutto tornerà come prima e che, ad esempio, non riceverà la stessa scarsa attenzione di ieri continuare a privatizzare la salute in Lombardia, fino a non mantenere in vita i presidi sanitari e le apparecchiature adeguate e sufficienti a rendere efficace il legame sociale che sapeva unire virtuosamente (non "eroisticamente"!) gli abitanti del territorio con gli operatori negli ospedali.

E ho la convinzione che solo una profonda riconversione del modo e delle finalità sociali del lavoro e delle produzioni, oggi per gran parte non essenziali se non addirittura nocive, ci porterà ad evitare crisi sempre più gravi e con sempre meno tempo davanti.

La vicenda Aermacchi, certo, è solo un timido segnale: ma lo è tanto più in quanto l’accordo firmato dopo lo sciopero abilita le lavoratrici, i lavoratori ed i loro delegati a contrattare le condizioni della ripartenza degli impianti dopo Pasqua. Solidali e arricchiti di qualche riflessione in più sul futuro, non solo della loro azienda.  Un caro saluto. Mario

 


Mario Agostinelli
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blog: www.marioagostinelli.it

 

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