Rappresentanza. Se un «partito» a sinistra non c’è, non è un caso
La discussione sulla crisi della «forma partito» dura da qualche decennio. Con il riflusso degli anni Ottanta scoprimmo che non funzionava più, né nel modello leninista d’avanguardia né in quello di «partito nuovo, di massa» di Togliatti. Il manifesto pubblicò già sul mensile del settembre 1969 un’inchiesta a firma di Lucio Magri e Filippo Maone che lanciava l’allarme sullo stato di salute del Pci e sulla necessità di connetterlo a lavoro e società).
La questione non è stata risolta neppure dai gruppi della nuova sinistra post ‘68, spesso nuclei inossidabili (Potere operaio) o puramente movimentisti (Lotta continua). L’idea di unificare la nuova sinistra in un partito unico non è mai decollata, come neppure quella di una forza alternativa al Pci di un qualche peso e dimensione. Lo stesso manifesto ha depositato al riguardo riflessioni sul merito di grande interesse fin dal primo numero del mensile nel giugno 1969 (l’intervista di Rossana Rossanda a Jean-Paul Sartre), cui seguirono saggi teorici ed esperienze nella ricerca di una strategia consigliare che guardava ad Antonio Gramsci e al socialismo dell’autogestione, ma poca pratica politica.
La crisi non è stata risolta dopo la dissoluzione del Pci, quando nel 1991 mosse i primi passi Rifondazione comunista. Di quella esperienza ci sono tracce del percorso iniziale (Garavini, Cossutta, Magri, altri) e poi di quello consolidatosi con la segreteria di Fausto Bertinotti con sforzi di innovazione politica ma non organizzativi. C’è stata infatti in Rifondazione assai poca innovazione sul tema della «forma partito», se non nel suo essere più aperto del passato nei rapporti con i movimenti (l’esperienza di Genova 2001 e dei no global). Come ci si organizza sul territorio e sul lavoro, come si partecipa alle decisioni, come si coabita in un comune luogo politico in modo plurale e organizzato sono questioni appena sfiorate da quella esperienza rifondativa.
Sul versante del Pds-Pd la consapevolezza della questione ha portato verso lidi ancora maggiormente fragili e velleitari: partito «leggero» senza sezioni territoriali e con Circoli, «primarie» come metodo nelle decisioni in cui hanno fatto finito per fare breccia personalizzazione della politica e gruppi di pressione senza neppure copiare fino il fondo le primarie del Partito democratico statunitense dove votano gli iscritti e non anche i semplici elettori. Insomma, si brancola nel buio quando si affronta la discussione sul «partito».
Se un «partito» a sinistra non c’è, non è quindi un caso. Vorrei dirlo ad Alfonso Gianni, Aldo Carra, ai tanti amici e compagni che sulle pagine del manifesto sollecitano periodicamente a porsi il rovello di una organizzazione partitica. Questa assenza non è frutto del destino cinico e baro. Bensì della mutata composizione di classe della società, delle forme digitali della comunicazione e delle tecnologie, del mutato ruolo di identità e ideologie, della crisi dell’organizzazione novecentesca in partito e altro ancora.
Un nuovo partito deve fare i conti con tutto ciò che abbiamo alle spalle. Servono, di conseguenza, sperimentazione e fantasia politico/organizzativa ammettendo che il quesito non può avere risposte prefabbricate e già fallite. Si può partire, in un inedito itinerario, per esempio dall’inventario di forme sperimentate negli ultimi anni: rete per temi omogenei, uso di internet, parzialità organizzative, nuova geografia degli interessi sociali e individuali da rappresentare (il femminismo ha prodotto tante novità in questo campo su cui riflettere), confederazione di esperienze e di soggetti diversi.
In tale riflessione resta tuttora affascinante l’idea gramsciana di «partito intellettuale collettivo» e «moderno principe» che ha il compito di indicare la rotta e di unificare in un progetto/programma gli input provenienti da movimenti e aggregazioni sociali. Questo «partito» con una sua cultura specifica che pensa alla trasformazione sociale come a un processo di «case matte» da conquistare è quello che ci manca.
Oggi, invece, la maggioranza di noi – nonostante Sinistra italiana, Articolo Uno, eccetera – è senza casa politica. Chiedersi perché è un cruccio da affrontare. Se la trovassimo, e nel nome avesse qualche riferimento a ecologia e nuovo socialismo, non sarebbe male.
Commenta (0 Commenti)Sinistra . Nel nostro orizzonte è una coalizione elettorale a diventare oggetto di strategia; una congiuntura piuttosto che una struttura. Una congiuntura dove l’autoconservazione dei già eletti, quasi sempre dirigenti ai livelli più alti dei club politici che decidono le modalità della coalizione, assume un aspetto centrale
Seggi elettorali sanificati in Francia © Lapresse
Dopo aver negato giustamente (opportunamente?) la fiducia al governo Draghi, molti dei dirigenti di Sinistra italiana hanno ribadito che ciò non metteva in discussione la loro «strategia», cioè il mantenimento per il futuro di un asse, strategico appunto, con una coalizione a centralità Pd.
Nel linguaggio di più di un secolo e mezzo di storia del movimento operaio i termini «tattica» e «strategia» sono stati utilizzati in maniera distinta, ma, nello stesso tempo, all’interno di una concezione coerente del loro svolgimento.
La «strategia» rappresentava l’aspetto profondo, la funzione storica del movimento contrapposta alle logiche, altrettanto profonde, in cui si manifestavano le diverse forme di accumulazione del capitale. La ragion d’essere, insomma, della totale autonomia teorica e politica relativa ad un’altra progettazione della modernità.
Nel nostro orizzonte è una coalizione elettorale a diventare oggetto di strategia; una congiuntura piuttosto che una struttura. Una congiuntura dove l’autoconservazione dei già eletti, quasi sempre dirigenti ai livelli più alti dei club politici che decidono le modalità della coalizione, assume un aspetto centrale.
Ora, per un partito che ha voluto chiamarsi con l’ambizioso nome di «Sinistra italiana», che si trova ad operare in un paese dove la sinistra non ha nessuna influenza sui processi di mutamento economico-sociale in corso, dove al massimo può costruire una nicchia istituzionale, quale dovrebbe essere l’obbiettivo prioritario realmente strategico? Impegnarsi, ovviamente, nella ricostruzione di un più generale soggetto politico che dia davvero senso al nome scelto per la propria componente. Una visione strategica che, proprio in quanto tale, nulla ha a che fare con i travagli all’interno del Pd.
Il Pd è un «partito governativo di centro», come l’ha definito, con ragione, la direttrice di questo giornale (16 marzo), come lo definiscono tutti coloro che fanno riferimento a disamine empiricamente fondate.
Il fatto che ci siano molti che lo negano, un po’ come succede per i no-covid, appartiene ad una dimensione psico-ideologica, a interessi di posizionamento politico. «Si tratta di puri artifici retorici (…) creati per illudere i bacini elettorali un tempo di riferimento» (L Michelini, Critica del liberismo italiano, 1990-2020, Fondazione Feltrinelli 2020). Questioni del tutto estranee tanto ad analisi teorica che ad analisi storica. Per quanto riguarda l’aspetto teorico esiste ormai una vasta letteratura di studi seri sulla completa organicità del Pd alla temperie culturale neo-liberale.
L’esame attento della storia di trent’anni delle varie «cose» e poi del Pd, prova empiricamente come tale temperie si sia risolta con coerenza nella concretezza delle scelte di politica economica.
Persino Mario Tronti, che pure la lunga vicenda delle «cose» ha attraversato da interno, dice ora che una grande sinistra di alternativa «manca in Italia da ormai tre decenni», e che il Pd avrebbe «bisogno di «diventare altro» da ciò che è (Riformista, 15 maggio). Quello di Tronti, però, non può essere che pensiero desiderante, perché l’identità profonda di un partito che, nelle varie denominazioni, ha trent’anni di storia è quella storia stessa. Sul tema dell’identità plasmata da tale storia sono possibili solo variazioni, che possono avere una qualche influenza sulla tattica relativa alle possibili coalizioni, ma nessuna sulla necessità strategica.
D’ altronde Letta è stato molto chiaro sulle caratteristiche della coalizione: «a guida Pd» e con una geometria disegnata tra i limiti di Calenda e Renzi da una parte e Fratoianni dall’altra, con quest’ultimo soddisfatto «che si rilanci la costruzione di un’alleanza plurale e larga» (il manifesto, 17 marzo). Naturalmente ha subordinato l’operazione al raggiungimento di un accordo su un programma che, per il suo partito, non può che avere caratteristiche di sinistra, suggerendo la necessità che nella definizione del programma non si possa prescindere dall’esigenza di ragionare sul «grande tema che ruota intorno al capitalismo e alle sue prospettive». Questione del tutto essenziale sul piano strategico.
Si tratta però, ancora, di un pensiero desiderante riguardo a una coalizione nella quale tutte le altre componenti considerano l’uso della categoria «capitale» in quanto criterio interpretativo di politica e storia al pari di una bestemmia in chiesa. Come pensa il segretario di «Sinistra italiana» di sciogliere questo nodo che sta alla base del suo modo di coniugare la tattica con la strategia?
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Intervista. Parla Nicola Fratoianni di Sinistra italiana
Nicola Fratoianni, segretario di Sinistra italiana, dà una valutazione positiva dei primi giorni di Enrico Letta da leader del Pd: «Bene che si rilanci la costruzione di un’alleanza plurale e larga – dice – Ci sono le condizioni per lavorarci».
Facciamo un passo indietro. La nascita del governo Draghi sta ridisegnando il sistema politico? Ne uscirete come ne siete entrati?
Non penso che ne usciremo uguali. Il primo effetto è stato un terremoto nel campo del centrosinistra e del M5S e un rilancio della destra. Era prevedibile perché questo governo sposta l’asse della maggioranza verso destra. Per questo occorre lavorare per il dopo, costruire un’alternativa alle destre. È più urgente di prima.
Letta che prospettiva apre?
Apre una discussione. L’esito dipende dalla qualità dei contenuti e da come li definiremo. Occorre un confronto tra le forze politiche ma anche con le tante esperienze civiche del paese. Noi ci siamo, con le nostre idee e le nostre proposte.
Quali, in particolare?
Affrontiamo l’emergenza ma discutiamo di cosa accadrà dopo. Una riforma progressiva del fisco e una patrimoniale sulle grandissime ricchezze. Guardiamo alla Spagna, dove un governo di sinistra propone la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario fino 32 ore per quattro giornate lavorative settimanali. È una proposta che incrocia questioni del lavoro e ambientali, come la riduzione delle emissioni. E poi salario minimo e Ius soli, anche se con questa maggioranza è complicato che passi. Serve una piattaforma che definisca in modo chiaro l’alternativa tra noi e la destra.
Letta nel suo discorso di insediamento ha detto una cosa non scontata: ok all’alleanza col Movimento 5 Stelle, ma al momento non sappiamo cosa diventerà.
Cosa sarà il M5S, che oggi è impegnato in una rigenerazione con Conte, è difficile dirlo. Ma è compito di tutti lavorare fin da subito perché la rigenerazione dei 5 Stelle stabilizzi e qualifichi l’alleanza a cui lavoriamo. Fino a oggi è stata l’oggetto di un’evocazione. Su molte cose la discussione va significativamente approfondita.
Con questo governo sta emergendo anche l’ambivalenza del concetto di «transizione ecologica»: rischia diventare solo una forma di ristrutturazione capitalista.
Questo rischio si accompagna alla discussione sulla transizione non da oggi. È un grande tema che ruota attorno al capitalismo e le sue prospettive. Anche di questo bisogna fare una delle questioni centrali nella definizione del programma, mi pare del tutto evidente che non potrà essere questo il governo che avvia una transizione ecologica che vada nella direzione auspicata. Dobbiamo fare i conti con la situazione attuale pensando alla ricostruzione di un campo di alleanze e a un programma che ne definisca l’anima. Sono il primo a dire che le alleanze sono necessarie, ma perché questo impegno produca un risultato positivo serve un cambio di passo.
Con che legge elettorale? Su questo Letta fa un passo indietro rispetto a Zingaretti, rilanciando il maggioritario.
Noi continuiamo a pensare che una riforma proporzionale che restituisca agli elettori alla possibilità di scegliere gli eletti sia la soluzione migliore. Il maggioritario ha prodotto un degrado nel dibattito pubblico e peggiorato lo stato della nostra democrazia.
Come si muove in questo contesto Sinistra italiana?
Sinistra italiana in questo momento cresce, crescono gli iscritti e la partecipazione. Credo sia la risposta alla scelta politica che abbiamo fatto, non votare la fiducia a Draghi e contestualmente di rilanciare le ragioni di un’alleanza per l’alternativa. Per questo, da qui, non ci chiudiamo in uno spazio autoreferenziale ma continuiamo il confronto con ciò che si muove attorno a noi.
Come vedete la ripartenza proposta da Elly Schlein?
Mi pare che proponga uno spazio trasversale a partire dal quale costruire convergenze. Noi abbiamo le nostre proposte, a partire da patrimoniale, riduzione dell’orario di lavoro, salario minimo e sospensione dei brevetti per rendere il vaccino un vero bene comune universale. Ogni volta che si apre uno spazio Sinistra italiana è disposta a dare il suo contributo.
Domenica 14 marzo 2021, il partito democratico avrà un nuovo segretario, il gentile e affabile, un po’ algido, Enrico Letta.
Quello di “Enrico stai sereno” pronunciate dal bugiardo di Rignano, la “peste” che porta scompiglio nella casa democratica, incessantemente da quasi ormai dieci anni.
Sia quando era dentro e ancor di più ora che ne è fuori. Se dobbiamo però da esprimere un giudizio più sereno e obiettivo di quanto non consenta la passione politica, che ci porta a provare tumultuosi sentimenti di avversione (all’odio non c’arriviamo), verso chi causa crisi e rotture, intenzionalmente e per puri calcoli di interesse personali e di gruppo, dobbiamo pur riconoscere che lo “sporco lavoro” gli viene molto facilitato dalla condizione precaria, per usare un eufemismo, in cui versa il partito di riferimento.
Una situazione che definire declinante è poco, si potrebbe dire vero e proprio costante deliquio, oscuramento delle facoltà politiche. Altrimenti come sarebbe potuto accadere che una compagine che vale meno del 2% riuscisse a ribaltare una coalizione che raggiunge più del cinquanta per cento alla Camera e si avvicina alla maggioranza assoluta al Senato?
E come potrebbe accadere che un segretario di partito che gode di un’ampia maggioranza, almeno dal punto di vista nominale, sia indotto dalle difficoltà a gettare irrimediabilmente la spugna, quasi scappandosene? Giustamente il professor Ignazi ha ricordato illustri precedenti sempre nello stesso ambito. E come è possibile che si giunga nel volgere di pochi giorni ad individuare e ad eleggere un nuovo segretario, con procedura d’emergenza, senza uno straccio di discussione che possa far comprendere questa nomina verso quale sbocco porta?
Tutto nel silenzio di ovattate riunioni di capicorrente, i quali si impegnano ad una “tregua” fino alla scadenza congressuale. Sono questi, personaggi su cui si può fare affidamento? E in cambio di cosa hanno accettato un segretario in parte diverso ma senza dubbio con evidenti elementi di continuità col dimissionario di cui hanno chiesto incessantemente e rumorosamente la testa fino ad ottenerla?
Sono domande di senso che un qualsiasi attivista, iscritto a un normale partito, dovrebbe porsi davanti a scenari tanto imperscrutabili e inquietanti. In casa PD invece, tutto tace, tutto si svolge nella più banale indifferenza della base, come in quelle ridicole finte tragedie, in cui alla fine il morto si mette a ballare, si scopre che è una farsa e lo spettacolo si conclude con piroette, appalusi, trombette e pinzillacchere.
Perché quel che conta al fondo è che la “macchina” continui a girare, le variegate truppe di ministri, sottosegretari presidenti-governatori, sindaci, assessori, consiglieri, e tutta la svariata umanità del professionismo politico, possa proseguire il suo quotidiano tran tran in condizioni di stabilità e sicurezza.
Purtroppo quel partito è ridotto ad essere fondamentalmente questo, e quindi non c’è molto da sperare, anche dall’onesta e generosa seconda occasione che il mite Enrico si concede.
Sergio Caserta
Commenta (0 Commenti)Nella discussione sulle manifestazioni di interesse nel Consiglio Comunale nel 2020, quel progetto fu approvato a maggioranza (contrari il M5S e L'Altra Faenza) dopo la presentazione di un emendamento (votato da tutti) che aggiungeva due punti alle altre “compensazioni” previste:
Relativamente alle opere da realizzarsi per garantire l’interesse pubblico, si indica di intervenire sulla previsione della scheda di PSC relativa alla realizzazione del Parco Fluviale e dei relativi interventi funzionali a questo tra cui:
passerella ciclo-pedonale che congiunga l’argine del fiume lato Orto Bertoni – parco Baden Powell con l’argine di via Sarna;
procedere alla realizzazione del Parco Fluviale nell’ansa del fiume o diversamente alla sistemazione, per una più facile ed intuitiva fruizione, di entrambi gli argini del Fiume Lamone nel tratto compreso tra il Ponte delle Grazie e la futura passerella di collegamento.
Nel successivo Consiglio dell'Unione della Romagna Faentina, il testo fu approvato definitivamente aggiungendo nella prima riga, dopo si indica di intervenire, le parole in quota parte. Quali implicazioni debba avere questo emendamento non è chiarissimo.
Se i costi aggiuntivi di queste compensazioni fossero tali da comportare la rinuncia al progetto da parte dei proponenti, certo chi era contrario a questa urbanizzazione, non se ne dispiacerebbe. Ma naturalmente fin dall'inizio di questa vicenda si sono espresse legittimamente posizioni molto diverse, anche dichiaratamente a favore del progetto.
Le associazioni ambientaliste, anche con iniziative diverse, hanno insistito soprattutto contro il consumo di suolo e contro lo snaturamento del paesaggio, tenendo anche conto di una situazione con tante altre aree edificabili spesso incomplete e con moltissimi appartamenti vuoti, per molti dei quali ci sarebbe piuttosto la necessità di una loro riqualificazione.
A questo proposito è intervenuta anche Europa Verde:
“L’urbanizzazione della zona di via Firenze, meglio identificata come Villa Ghilana, ci riconduce a considerare come il consumo di suolo per costruire nuove case non sia una necessità”. E avanzano una proposta: “Invece di concedere nuove urbanizzazioni e nuova cementificazione, semplifichiamo le norme per il recupero dell’esistente, ad eccezione degli edifici vincolati, ripensando al maggior parte delle direttive che ingabbiano la nostra città in una visione di immutabile conservazione, rigenerando la cultura locale”.
Su come potrebbe essere affrontata oggi la questione, Faenza Coraggiosa in un suo comunicato, si è espressa così:
E' doveroso che l'Amministrazione parta dai deliberati approvati dal passato Consiglio Comunale in riferimento alle specifiche manifestazioni d’interesse, sulle quali non è nostro compito oggi dare giudizi. Tuttavia, ci esprimiamo affinché, per tutte le manifestazioni d’interesse approvate e poi confermate dai proponenti, l'Amministrazione garantisca che le cosiddette “compensazioni” - ossia le opere da realizzarsi da parte dei privati a fronte delle concessioni urbanistiche - siano non solo quelle indicate dalle delibere, ma siano le più congrue per garantire l’interesse pubblico.
Ora, si sta attendendo di saperne di più sul confronto sull'Accordo operativo presentato dai proponenti all'Amministrazione.
La questione della passerella ciclo-pedonale di attraversamento del Lamone dietro il quartiere Orto Bertoni, sembra essere una delle questioni più delicate. Si sono espresse posizioni favorevoli, non solo per l'interesse di chi abita nei pressi, ma anche per il completamento del progetto di parco fluviale collegato all'anello dei 4 ponti (https://www.yumpu.com/it/document/view/47875522/anello-dei-4-ponti-per-gli-altri ) mentre per i promotori del progetto avrebbe dei costi insostenibili rispetto al valore dell'urbanizzazione.
Per rispondere alle compensazioni richieste, i proponenti intenderebbero intervenire solo sul Parco Fluviale, sostenendo, come apparso sulla stampa, che “le risorse economiche destinate alla pubblica utilità raggiungono la ragguardevole somma di oltre 700mila euro”.
Naturalmente, compresa in questa cifra, ci sarebbero 312mila, come monetizzazione del 20% di terreno edificabile da cedere per legge all'Amministrazione (come per tutte le urbanizzazioni, che in questo caso potrebbero servire per fare edilizia sociale); 358mila che comprendono opere che sono necessariamente funzionali all'urbanizzazione stessa (verde pubblico, parcheggio, strada ciclo-pedonale, innesto su via Firenze, ecc..) ed è incluso l'intervento aggiuntivo richiesto dall'emendamento, ma per il quale resterebbe ben poco.
Nella bozza di Accordo Operativo presentato (visibile sul sito dell'URF) a questo proposito si indica:
REALIZZAZIONE OPERE SUL PARCO FLUVIALE da eseguirsi su indicazione dell’Amministrazione Comunale per la valorizzazione e potenziamento del Parco Fluviale Fiume Lamone per la somma complessiva di € 40.000,00 oltre a IVA.
Lo scopo di questo scritto non è sostenere una tesi precostituita, a favore o contro questa o quella scelta, ma piuttosto di far circolare e richiedere informazioni.
Quali sarebbero le indicazioni che l'Amministrazione darà per valorizzare e potenziare il parco? Se deve comprendere i due argini del fiume, prima o poi, comunque questa passerella servirà? Quale sarebbe l'ordine di grandezza dei costi dei diversi interventi? La somma complessiva indicata nella bozza di Accordo si ritiene congrua?
Queste, non intendono essere domande tendenziose. Spesso, da più parti, si parla della necessità della “partecipazione”, dei “portatori di interesse”, ma più in generale di tutti i cittadini, si tratta di trovare le forme più utili per farlo, a partire da una informazione trasparente.
La partecipazione (su questa vicenda, ma soprattutto su prossime discussioni come quella sul Piano Urbanistico Generale) non può essere riservata alla necessaria trattativa tra i proponenti dei progetti e l'Amministrazione, né solo alla discussione nelle Commissioni e nei Consigli Comunali, l'assetto del territorio è un bene comune che riguarda tutti e tutti devono essere potenzialmente coinvolti.
* A cura della redazione di Qualcosa di Sinistra
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Il Governo Draghi si è insediato, sostenuto dalla più larga maggioranza parlamentare che la storia repubblicana ricordi, e la sinistra, o meglio quel che ne resta, è riuscita a dividersi ancora una volta.
Lo so anch’io chi è Mario Draghi, cosa rappresenta e da dove viene, ho letto anch’io i nomi di ministri e sottosegretari, e lungi da me rivalutarne alcuni adesso dopo averli visti all’opera in precedenti governi, ma in tempi di emergenza globale come quella che stiamo vivendo da più di un anno a causa della pandemia, io faccio veramente fatica a capire le ragioni di chi come Fratoianni, il suo minuscolo gruppuscolo (chiamarlo partito ormai mi sembra veramente esagerato) e altri parlano di governo delle banche, della BCE, trionfo della restaurazione, dei poteri forti, della Confindustria, ecc.
Vedendo poi la loro narrazione, che non sa andare oltre gli slogan a base di un Conte defenestrato dai poteri forti perché il suo governo PD-MS5-LEU, era un governo di svolta e di rottura col passato, sgradito ai poteri forti mi cascano veramente le braccia e mi chiedo veramente in quale realtà vivano costoro!
Questo governo è un governo di emergenza, nato per affrontare una situazione di emergenza e che si troverà a gestire ingenti risorse per cercare di far uscire il nostro Paese dall’emergenza, in una situazione come quella che stiamo vivendo, si è più incisivi partecipando a questo tentativo o isolandosi in una torre di avorio? Sulle scelte concrete, su chi sarà contento o scontento di queste scelte ci si può legittimamente dividere, dire no a priori mi sembra veramente una scelta difficilmente
comprensibile ai cittadini e cittadine desiderosi di tornare per quanto possibile ad una vita normale!
Il Parlamento votando la fiducia a Draghi, ha deciso di affidare le sorti del Paese ad un “commissario straordinario”, un tecnico che però ricoprirà un ruolo politico e opererà scelte politiche, con la politica che in un certo qual modo ha democraticamente deciso di rinunciare ad essere se stessa in attesa di tempi migliori, ma come si è arrivati a questo ennesimo governo tecnico, come mai la politica sia sempre più debole e delegittimata, dovrebbe essere la prima cosa su cui la sinistra dovrebbe interrogarsi, invece assistiamo a silenzio e buio assoluto, difesa del proprio orticello e navigazione a vista, sia da parte dei
contrari che dei favorevoli al governo Draghi, a dimostrazione ulteriore e drammatica di come si sia persa la capacità di analisi della realtà e di quanto il fossato tra politica e popolo sia sempre più profondo, e di come i gruppi dirigenti della Sinistra tutta, istituzionale o meno, si rivelino ancora una volta veramente inadeguati.
Raffaele Morani
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