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In relazione alla pubblicazione dello studio della Società Italiana di Medicina Ambientale (SIMA) sull'effetto dell'inquinamento da particolato e ad alcune polemiche, inclusa la dichiarazione dell'Assessore Regionale alla Sanità Priolo, pubblichiamo una riflessione di Giuseppe Onufrio direttore di Greenpeace Italia.

Giuseppe Onufrio

Abbiamo visto che – secondo la maggior parte degli esperti – la distruzione della biodiversità, l’avanzare dell’urbanizzazione e la globalizzazione potenziano a livelli fin qui inediti un meccanismo ben noto, ovvero quello del salto di specie (“spillover”) da specie selvatiche a uomo di nuovi virus.
È stata anche sollevata, da più parti, l’ipotesi che l’inquinamento dell’aria possa agire tanto come vettore dell’infezione quanto come fattore peggiorativo dell’impatto sanitario della pandemia in corso. Per quanto sia ancora presto per giungere a conclusioni generali, è bene iniziare a fare chiarezza su un altro aspetto, molto importante, della relazione tra epidemie virali e ambiente. O, meglio ancora, tra salute umana e inquinamento/distruzione ambientale.

L’inquinamento come vettore del virus?
Il primo aspetto è relativo all’ipotesi che il particolato fine agisca da “vettore” nel trasportare a più lunga distanza il virus che si coagulerebbe sulla superficie delle particelle (che hanno un diametro almeno una decina di volte superiore a quello del virus). Questa ipotesi, già avanzata in letteratura da tempo su casi specifici, implicherebbe che la diffusione del virus sia facilitata non dallo smog in generale ma dal particolato fine. E che dunque questo effetto si aggiungerebbe alla trasmissione del contagio come nota (da individuo a individuo).
Un “position paper” presentato dal prof Leonardo Setti dell’Università di Bologna ed altri, ha avanzato una correlazione tra i superamenti dei limiti per il PM10 nelle centraline di alcune città e il numero di ricoveri da Covid19. Si tratta di una

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La pandemia Covid-19 ha riaperto in Italia, in maniera drammatica, il dibattito sulla natura pubblica del nostro Sistema Sanitario Nazionale, che a causa dei tagli di bilancio operati negli ultimi 20 anni e del ruolo crescente della sanità privata, si trova ora in grandi difficoltà ad affrontare l'emergenza.  A sinistra si è levato un vasto coro per il rilancio della spesa sanitaria pubblica e per l'incremento delle risorse destinate alle professioni sanitarie. Un punto di vista diverso, ma non per questo inconciliabile col precedente, ispirato al principio di sussidiarietà e alla concezione della salute come "bene comune" ce lo propone un articolo del prof. Gregorio Arena apparso sul sito www.labsus.org che qui riportiamo.
RED

La pandemia, che tante cose cambierà nelle nostre vite, ha già cambiato anche il modo con cui “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività” (art. 32, Costituzione) inducendo le istituzioni ad affiancare, sia pure inconsapevolmente, l’amministrazione condivisa dei beni comuni al modello di amministrazione tradizionale.
Da un lato, infatti, la Repubblica sta tutelando la salute degli italiani secondo il modello tradizionale di intervento, cioè attraverso il Sistema sanitario nazionale in cui operano con grande abnegazione i nostri bravissimi operatori sanitari.
Dall’altro, però, la Repubblica si è resa conto che questa pandemia pone un “problema di sistema”, cioè un problema che non può essere risolto dai soggetti pubblici da soli e quindi ha chiesto l’aiuto di noi cittadini per rallentare e poi fermare la diffusione del virus. Ma lo ha chiesto sulla base dello scambio primordiale “obbedienza” (dei cittadini) in cambio di “protezione” (da parte dello Stato), non sulla base di un patto di collaborazione fra cittadini e istituzioni, alleati contro il comune nemico rappresentato dal virus.

Un “problema di sistema”
E invece il blocco totale del nostro Paese disposto per fermare la diffusione del Covid-19 potrebbe costituire un incredibile esempio dell’utilizzazione su scala nazionale del modello dell’amministrazione condivisa.
Abbiamo sempre detto che il vero motivo per cui è necessario affiancare il modello dell’amministrazione condivisa a quello tradizionale non è l’inefficienza, reale o presunta, delle pubbliche amministrazioni bensì è la crescita dell’entropia, intesa come aumento del disordine dei sistemi che presiedono alle nostre vite. E’ infatti l’entropia che provoca i “problemi di sistema”, quei problemi che nessun soggetto pubblico o privato è in grado di affrontare e risolvere da solo, come il cambiamento climatico, le grandi migrazioni oppure, appunto, le pandemie.

Dare un significato alto e nobile
La pandemia pone un “problema di sistema” perché è evidente che i soggetti pubblici, in questo caso le ASL ed il Sistema sanitario nazionale, non sono in grado di combatterla da soli ma hanno assoluto bisogno della collaborazione dei cittadini.
Questa collaborazione, però, darà risultati diversi e sarà più o meno efficace nella comune battaglia contro il virus a seconda di come le istituzioni si rivolgono ai cittadini. Una cosa infatti è limitarsi a

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Paolo Berdini da “il manifesto” del 04.02.2020

Molti commentatori hanno sottolineato lo straordinario merito del movimento delle sardine nella vittoria, ed in effetti la mobilitazione di tanti giovani ha risvegliato la voglia di tornare alle urne. Quelle piazze hanno parlato di accoglienza, tolleranza, inclusione sociale e di un sistema di servizi pubblici in grado di attenuare le disuguaglianze sociali. Hanno insomma riaffermato valori che sembravano abbandonati per sempre. Il voto dimostra dunque che la sinistra ha più di una ragione di esistere.
Ma i problemi restano. Le energie messe in moto dal movimento sono confluite verso il Partito Democratico che quei valori li ha messi da tempo in soffitta. Come spiegare questa contraddizione? Da una parte il meccanismo maggioritario ha fatto scattare la sirena del “voto utile”. E’ un bene che questo sia avvenuto, ma, se generalizzato, porterà la sinistra all’irrilevanza. La seconda motivazione riguarda la sinistra. Le tre liste presenti alle elezioni hanno avuto un giudizio severissimo perché la grande richiesta di unità che esiste si è infranta ancora una volta contro la miopia di gruppi dirigenti che prediligono la ricerca di identità che non esiste più: 23 mila voti su tre liste. Poco o niente.
Questo fallimento sta dando le ali ad una ipotesi politica di collocazione in un rapporto collaborativo con il Pd partendo dal risultato di Emilia Coraggiosa (3,8%).
Sono ovviamente felice di quel successo -e mi sono personalmente speso per esso- ma temo che l’elezione di 2 consiglieri sarà inessenziale a qualsiasi mutamento di indirizzi della Regione. La colpa più grave di Bonaccini, come ha scritto Piero Bevilacqua su

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da NuovaAtlantide.org

Un mio caro amico ha sintetizzato la dinamica che ha portato alla vittoria di Bonaccini e del PD in Emilia-Romagna con queste parole che condivido: “A sinistra Bonaccini ha recuperato grazie alla paura del “lupo”, a destra ha drenato presentandosi come la forza della stabilitá, che non tocca i rapporti di forza ma li consolida”. Il mio giudizio sulla politica della Regione di questi anni è che essa sia stata espressione, nelle sue linee fondamentali, di quel “neoliberismo progressista” di cui il PD è il principale perno nel nostro paese.
In Emilia-Romagna quell’aggettivo ” progressista” risente più che altrove della lunga storia della “regione rossa” che ha alle spalle. E dunque è migliore di quello che mediamente il PD riesce a esprimere nazionalmente. Ma la collocazione del PD nel contesto sociale è saldamente ancorata agli interessi forti, non più vissuti come distinti, per non dire alternativi, ai ceti popolari. Il PD vive la società come una melassa di soggetti indistinti annegati nel binomio onnicomprensivo e salvifico di “lavoro e impresa”. Sotto questa visione pacificata situazioni anche estreme di sfruttamento del lavoro, di abbandono e degrado sociale, di decadimento qualitativo e privatizzazione dei servizi sociali, di cementificazioni selvagge ( tarate spesso sulle esigenze dei costruttori) si producono senza sollevare eccessivo scandalo. D’altra parte i gruppi dirigenti del centrodestra condividono quelle politiche ed anzi le vorrebbero attuare in misura ancora più drastica.
La esplosione del voto grillino degli anni passati si era alimentata di quote crescenti di malcontento e di stanchezza nei confronti di queste politiche. Quando il voto grillino si è dissolto per effetto delle sue contraddizioni, della sua incapacità di dare uno sbocco al malcontento, come si è visto coi Governi Conte, una parte di quel voto è trasmigrato verso la Lega facendone il primo partito regionale alle Europee del 2019. Ma la Lega, come si è detto, è un partito non solo di protesta populista, bensì anche una forza che ha cercato, finora con un buon successo a livello nazionale, di unire la protesta populista a interessi conservatori molto simili a quelli che al momento in maggioranza, almeno in Emilia Romagna, sono vicini al PD. L’operazione della Lista Bonaccini

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È una buona notizia che l’Emilia Romagna non sia passata sotto il governo di estrema destra della Lega, e che il plebiscito mediatico costruito da Matteo Salvini non sia andato a buon fine. Ma francamente sono molto scettico, e a tratti preoccupato, per la lettura entusiastica che di questo passaggio elettorale si sta dando anche nella sinistra che da tempo ha saggiamente deciso di non vedere nei turni elettorali i generatori del futuro (ma semmai di investire in quella rete dal basso di cui fa parte anche una realtà come “Volere la luna”). Provo a spiegare perché.
Innanzitutto, mi pare che la retorica post-elettorale stia inducendo a travisare i reali contorni numerici, e con essi i moventi profondi di quello che è successo. Come ha ben scritto Marco Revelli la maggior parte del territorio dell’Emilia Romagna (e proprio la parte più povera, e in ogni senso marginale) ha votato Lega. E se si guardano i numeri assoluti, c’è ben poco da stare allegri: Bonaccini ha avuto, infatti, 1.195.742 voti e la Borgonzoni 1.014.672. Non certo ordini di grandezza così lontani (lo scarto è di 181.000 voti): anzi, abbastanza vicini da indurre a parlare di una regione spaccata quasi esattamente a metà, in cui né il mito buon governo né la pregiudiziale antifascista sembrano poi così ben in salute. A fare la piccola, ma decisiva, differenza finale è stata evidentemente l’affluenza al voto (indubbiamente favorita dal clamore mediatico suscitato dalle Sardine), che però è ben lungi dall’essere da record: attestandosi al di sotto del 70 per cento e al secondo posto negativo nella storia delle elezioni regionali emiliane. Di meno gli emiliani avevano votato solo quando elessero il Bonaccini 1 (che nel 2014 fu votato dal 49% di un’affluenza bloccata al 37,7%). Anche la retorica del popolo chiamato in massa a scongiurare la caduta della città in mano ai barbari non fa dunque i conti con la realtà di un terzo degli aventi diritto al voto che rimane tranquillamente a casa, trovando indifferenti le due soluzioni sul piatto.
È dunque abbastanza evidente che domenica scorsa non ha vinto né Bonaccini né il “buon governo” né tantomeno il Partito: ha vinto (e davvero di misura) un comprensibile voto contro. Contro Salvini, e il suo fascismo citofonico. Ma si tratta di una vittoria paradossale: la presenza di una estrema destra potenzialmente eversiva del sistema di valori costituzionale, diventa di fatto la garanzia del mantenimento al potere di quella destra (non sempre) moderata che è diventato il Pd emiliano.
A chi trovasse quest’ultima una definizione eccessivamente severa, ricordo: l’allineamento dell’Emilia Romagna di Bonaccini al progetto della “secessione dei ricchi” attuato attraverso l’autonomia differenziata, massimo obiettivo politico della Lega; una legge urbanistica mangia-suolo da palazzinari anni ’50, la peggiore d’Italia; l’opposizione di Bonaccini alla pur timidissima plastic tax del Conte bis: il segno di uno sviluppismo insostenibile, del tutto disinteressato al futuro; l’incapacità (nel migliore dei casi) di arginare una infiltrazione della ‘ndrangheta che sfigura in modo drammatico il tessuto economico e civile della regione; una sanità sempre più tagliata e privatizzata, con il consenso di Lega e Forza Italia in consiglio regionale; una politica securitaria e razzista indistinguibile da quella leghista (si legga per esempio il libro recentemente dedicato da Wolf Bukowski alla Buona educazione degli oppressi). Ora, non c’è dubbio che la Lega avrebbe potuto far peggio: in certi casi un po’ peggio, in altri molto peggio. E soprattutto non c’è dubbio che a fare le spese di questo ulteriore peggioramento sarebbero stati i più fragili.
Ma da qua a dire che “ha vinto la sinistra” ce ne corre davvero molto. Invece, il rischio è proprio questo: un ulteriore spostamento a destra dell’intero quadro politico, con le forze a sinistra del Pd che confluiscono “felicemente” in quest’ultimo. Se l’infelice presenza di LeU nel governo Conte bis (un governo, giova ricordarlo, che non riesce a modificare le leggi più “fasciste” del governo Conte Uno) è stato un anticipo di questa “soluzione finale”, l’intervista post-elettorale di Nicola Fratoianni al Manifesto ne tratteggia la road map, prospettando entusiasticamente per la sinistra politica nazionale un destino “emiliano”: e cioè un permanente e strutturale fiancheggiamento critico del Pd in nome del frontismo antileghista. Di fatto, una confluenza in nome dell’emergenza. Sarebbe l’accomodarsi permanente della sinistra politica al tavolo di potere di un centro-sinistra più che mai determinato a non cambiare alcunché di se stesso: e che nel momento in cui riesce a presentarsi come efficace baluardo contro i nuovi fascisti, non ha più nemmeno il bisogno di far finta di cambiare.
Non per caso, l’eclissi (momentanea o definitiva, ma certamente ampiamente meritata) del Movimento 5 Stelle ha immediatamente indotto il Pd e i commentatori di area a prospettare l’abbandono del progetto di legge elettorale proporzionale e l’adozione di un maggioritario ancora più sbilanciato dell’attuale. Il che equivarrebbe a smontare un altro pezzo di democrazia in nome della perpetuazione della propria rendita di potere. Una chiusura dalle conseguenze gravissime: e non solo perché potrebbe approfittarne proprio la Lega, ma per lo stravolgimento di ogni dinamica democratica. Perché nel maggioritario importa solo vincere, non essere giusti. Comandare, non rappresentare. Decidere, non includere. Ed esultando per la vittoria del “male minore” (ma proprio il male minore che ha generato alla fine il male maggiore che oggi dice di arginare) siamo già sprofondati in questa deviante logica binaria che non conosce alternative possibili.
La prima conseguenza di questa “mentalità maggioritaria” è il congedo del pensiero critico. Perché entrando nel gioco del potere si possono ottenere delle “cose” (come l’ottima gratuità del trasporto regionale per i più giovani, che la lista ER Coraggiosa ha felicemente strappato a Bonaccini), ma al prezzo di rinunciare a un’analisi critica senza sconti, che prospetti la necessità di una alternativa radicale allo stato delle cose. Ovvio: questa proposta radicale non certo è incarnata dal dato grottesco delle tre sigle più o meno comuniste che in Emilia si sono spartite pochi decimali: ma questa tragicomica inadeguatezza rende più pesante, e non già più lieve, la responsabilità di chi potrebbe costruire consenso, e sceglie di farlo per il Pd, e dunque in ultima analisi per lo stato delle cose. In questo senso è istruttivo l’entusiasmo, paternalistico e lievemente maschilista, che sta suscitando nelle roccaforti del pensiero unico di centro-sinistra l’esperienza della bella figura di Elly Schlein: gli stessi che non l’hanno mai appoggiata nelle coraggiose scelte di rottura (l’uscita dal Pd), la lodano ora perché è tornata (e, dal loro punto di vista, in condizione ancillare) all’ovile democratico, esaltandone (contro le sue stesse intenzioni) la personalità individuale (a scapito dell’impresa collettiva della sua lista), secondo i precetti del culto leaderistico che anima il maggioritario. Sono gli stessi commentatori che, se un identico 4% fosse stato conquistato fuori dalla santa alleanza Pd, ne avrebbero irriso il velleitarismo minoritario.
Quanto alle Sardine, non riesco proprio a condividere l’entusiasmo così poco analitico di molti amici. È innegabile l’anelito democratico e partecipativo con cui migliaia di cittadini ne accolgono l’invito a scendere in piazza, ma come non vedere che anche questa bella novità ha di fatto giocato a favore del mantenimento dello stato delle cose, e del sostegno acritico a un governo che tutto è tranne che di sinistra, come quello di Bonaccini? In queste ore, le Sardine della mia Toscana hanno diffuso un appello all’«unità dei progressisti» (che significa l’invito a sottomettersi a posteriori alla pessima candidatura imposta da Renzi al Pd, quella di Eugenio Giani di cui ho scritto ampiamente in questo sito) in cui si legge: «Rivendichiamo l’efficienza di una Regione che è modello di riferimento per il Paese in materia di cultura, turismo e di distretto industriale». Dove colpisce non solo il fatto che si siano ben guardate dal prendere la parola prima, per evitare questa scelta scellerata e lo facciano ora per farla digerire in nome dell’antifascismo, ma ancor più il linguaggio inconfondibilmente di destra (l’«efficienza»!), e la totale sudditanza alla propaganda di un modello radicalmente insostenibile: perché dire che Firenze è un modello in materia di turismo e cultura (!), e sostenere un programma che ha al primo punto le Grandi Opere e lo sventramento della Maremma è come dire che la permanenza delle Grandi Navi in Laguna è un traguardo ecologico. Insomma: le Sardine stanno giocando, nei fatti, come truppe irregolari di questo bruttissimo Pd, e come alfieri dell’egemonia del pensiero unico della destra da cui non si riesce ad evadere.
In conclusione, non riesco a sottrarmi in queste ore a un rovello: che scandalizzerà qualche benpensante, ma che vale forse la pena di far affiorare. Davvero dobbiamo festeggiare di fronte a una Emilia Romagna in cui un milione più spiccioli vota Bonaccini, un milione vota Salvini e un altro milione non va a votare? Se esultiamo di fronte a questo quadro francamente disastroso, è solo perché la nostra idea di democrazia è ormai così povera da ridursi esclusivamente alla dimensione del governo, e non ci accorgiamo del danno culturale e morale inflitto da questo ennesimo restringimento dello spazio critico, indotto dall’illusione ottica per la quale siccome lo “schema Bonaccini” (fermare la destra estrema con la destra moderata) ha avuto successo, allora è anche uno schema giusto. Anzi, lo schema giusto per tutto il Paese. Al contrario, non sarebbe necessario chiedersi se – su quella lunga distanza che non sembra interessare a nessun osservatore della scena politica italiana – avrebbe fatto davvero più danni un passaggio del governo dell’Emilia Romagna alla Lega (che del resto governa già – e sembriamo a questo rassegnatissimi – Lombardia, Veneto, Piemonte…), o invece se ne farà di più questa tombale legittimazione di un Pd di destra? Visto tra dieci anni, penseremo ancora che questo sia stato il male minore? E penseremo ancora che il “voto utile” lo sia veramente stato?
La domanda, insomma, è questa: se lo spostamento a destra del Pd ha creato le condizioni per un’egemonia culturale di destra che ha portato metà dei votanti emiliani a votare Lega, cosa succederà con un altro mandato di governo di quello stesso Pd? Pur di fermare Salvini, dicono ormai quasi tutti, va bene qualunque cosa: va bene anche slittare tutti insieme così tanto più a destra. Va bene anche restringere ancora lo spazio di immaginazione di un’Italia diversa. Va bene fare (quasi) le politiche di Salvini. Per parafrasare una celebre battuta su Berlusconi attribuita a Giorgio Gaber, il timore è che per fermare il “Salvini in sé”, sembriamo ormai tutti disposti a fare spazio al “Salvini in me”. Non mi pare ci sia poi molto da festeggiare.

Post scriptum
Ho evitato di dire queste cose in campagna elettorale: per rispetto verso coloro che lottavano comunque contro Salvini, e per non danneggiare in alcun modo lo stesso Stefano Bonaccini.
Ieri pomeriggio, due ore dopo che era stato messo online, il presidente dell’Emilia-Romagna ha deciso di reagire a questo articolo, su Twitter.
Dico reagire e non rispondere perché (adottando lo stesso uso dei social di Matteo Salvini) non ha risposto ai miei tweet in cui lanciavo il pezzo: avesse fatto così, avrebbe permesso a tutti di leggere e valutare i miei argomenti. Invece ha fatto ricorso alla retorica del capo vittorioso, solo al comando. Allegando la foto di uno schermo televisivo che lo ritrae con la mascella contratta e lo sguardo verso l’orizzonte, con una didascalia da rambo: «l’uomo che sconfisse Salvini».


Un uomo: solo. Che dimentica le centinaia di migliaia di cittadini che l’hanno votato col naso turato, temendo il peggio. E dimentica tutti coloro che hanno messo il loro volto pulito al servizio del suo, per puro spirito civico. E, infine, che ironizza sul nome di questo sito e di questa associazione: VOLERE LA LUNA. La politica vera è quella che vince e governa, il pensiero critico è per il muscolare Bonaccini un abbaiare alla luna.
Ci possono essere dubbi sull’antropologia profondamente di destra di questa visione del mondo e della politica?
TM

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La paura ha aiutato Bonaccini insieme alla fortuna di fronteggiare un’avversaria debolissima e una strategia populista sbracata. Ma il vuoto civico in quei territori resta

L’Emilia non si lega (non tutta) ma molta Romagna sì. Quando i festeggiamenti (sacrosanti e belli) si saranno conclusi bisognerà studiare i dati elettorali dei “territori” – un termine generico per denotare quelle aree di paese che si estendono a ridosso delle prime e delle seconde periferie delle città medio-grandi, quel largo corpo plurale e articolato che il progetto delle città metropolitane avrebbe dovuto integrare, senza riuscirvi.
L’Emilia-Romagna ha subito la paura della Bestia e ha reagito con un sussulto al populismo martellante e ossessivo di Salvini. Ma i problemi che l’hanno esposta a questa vulnerabilità sono tutti lì.
La paura ha aiutato Bonaccini insieme alla fortuna, che, diceva Machiavelli, deve essere domata dalla virtù. E così è stato. La fortuna di una candidata debolissima e di una strategia populista sbracata, che ha offeso e umiliato queste terre, che ha trattato questi cittadini come asserviti inermi a un sistema di dominio dal quale non avrebbero mai saputo

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