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Analisi e contributi per ripensare la sinistra
 
La sfida nazionale di Salvini battuta grazie al movimento delle “Sardine”. Una reazione democratica mobilitata dalla consapevolezza della posta in gioco.
Bonaccini ha preso posizioni più nette ma restano da superare i limiti del “buongoverno”: precariato, ambiente, urbanistica, welfare ai privati. Decisivo l’apporto di una sinistra autonoma e unitaria.
Il ruolo di Elly Schlein.

 

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  La sentenza della Corte costituzionale t edesca ha messo in evidenza – paradossalmente – problemi politici. Il primo è che la Corte costituzionale di uno stato dell’Unione non riconosce come unica sede di giudizio per decisioni e materie europee la Corte Europea, o almeno non completamente e arriva a chiedere perentoriamente alla BCE, istituzione europea, di giustificare entro tre mesi le sue azioni di interventi di politica monetaria minacciando il divieto alle sedi tedesche, in particolare alla Bundesbank, di contribuire a queste azioni a livello europeo e intima al parlamento e al governo tedesco di pronunciarsi su tutta la materia. Forse per questo il Ministro delle Finanze ha preannunciato che il Bundestag sarà chiamato a pronunciarsi sulle misure anticrisi. Questo intervento a gamba tesa della Corte tedesca, se diventasse realtà, metterebbe in discussione un principio fondamentale degli accordi sovranazionali in Europa e cioè la non possibilità per le Corti costituzionali dei singoli paesi di invadere lo spazio europeo, essendo chiaro che se il cattivo esempio venisse dalla Germania non si capisce perchè dovrebbero rinunciare a dire la loro le altre Corti costituzionali nazionali, con la conseguenza che il processo di integrazione si avvierebbe sul viale del tramonto, apparentemente non per una scelta politica.

Il secondo è che la Corte tedesca, a differenza di quella italiana, si pronuncia su istanza di singoli e di associazioni. Da noi questo non è possibile, l’accesso alla Corte non può avvenire da parte di singole persone, per quanto autorevoli, o di settori della società. I ricorrenti sono evidentemente difensori strenui della politica di austerità, su posizioni apertamente conservatrici, se non di destra, ed è la Corte tedesca che amplifica la loro voce con una evidente scelta politica perché arriva ad intimare chiarimenti alla Bce, pena il blocco del meccanismo per affrontare la crisi economica, che deve cercare di recuperare i danni economici e sociali della pandemia, in particolare nei paesi più colpiti, di cui la politica monetaria e di acquisto di titoli pubblici sul mercato secondario è un punto decisivo, anche se insufficiente. Inoltre questi sono i giorni in cui dovrebbero essere chiariti gli altri punti di intervento: dal meccanismo di sostegno al reddito di chi rimane senza lavoro (Sure) agli interventi a favore degli investimenti delle aziende attraverso la Bei, all’eventuale utilizzo del Mes, senza trascurare il punto di caduta degli interventi ulteriori sotto l’ombrello del recovery fund europeo che dovrebbe valere secondo alcune versioni almeno 1500 miliardi aggiuntivi. Del resto tutti gli stati importanti del mondo hanno previsto interventi massicci per uscire dalla crisi e l’insieme di questi filoni costituirebbe l’intervento europeo.

Se tutto questo dovesse fermarsi, ad esempio per l’improvvida sentenza tedesca, l’Europa entrerebbe in una fase di sofferenza dagli esiti imprevedibili.

Sia la Commissione europea che la Bce hanno avvertito il pericolo e hanno subito rivendicato l’autonomia delle decisioni europea. Oggi è arrivata anche la sentenza della Corte europea che ha rivendicato in modo chiaro la propria esclusiva competenza, escludendo che interventi nazionali, come quello della Corte tedesca, possano bloccare questo percorso provocando la crisi del disegno europeo. Su questo piano i chiarimenti ci sono stati, anche se le risposte istituzionali tedesche avrebbero potuto essere più forti e rapide. La riunione dell’Eurogruppo ha sciolto alcuni nodi ancora aggrovigliati.  Era ormai chiaro che il Mes era la via più rapida per gli interventi. Rimanevano ambiguità da sciogliere come la possibilità di avere parti non scritte all’inizio ma in grado di essere poste anche dopo l’utilizzo del Mes. È vero che la Commissione europea potrebbe anche senza il Mes chiedere misure aggiuntive per fare rientrare i bilanci pubblici nel sentiero previsto prima della pandemia, tuttavia è evidente che questo non è possibile vista la situazione. Per evitare che questo possa avvenire successivamente occorrono patti chiari e qualche affermazione recente ha mantenuto un’alea di incertezza.  È necessario che la decisione sull’intervento del Mes sia netta. Anche cambiargli nome non sarebbe male. Se i tempi per i prestiti saranno mediamente di 10 anni si sarà fatto un bel passo avanti. Anche i tassi siano debbono essere molto bassi e non un cappio che si stringerà più avanti.

Resta ancora invece vago il Recovery fund. Cambiare nome non è una tragedia, ciò che conta è che arrivi rapidamente a costituire un fondo di intervento per la ripresa di grande forza, che abbia la dimensione adeguata e che operi con strumenti a medio lungo sia con tassi bassissimi che con interventi a fondo perduto. La Presidente Von der Leyen aveva ipotizzato interventi 50 % con prestiti e 50 % con interventi a fondo perduto, sarebbe un punto di partenza rilevante. Per ora c’è un rinvio, sia pure con impegni confermati e la crisi morde ora.  Tutto questo per partire ha bisogno dell’intervento della Bce a sostegno della raccolta di fondi a costi pressoché inesistenti per finanziare i diversi capitoli di intervento, quindi è necessario che non solo la Corte tedesca rinunci alle sue intemerate ma anche che la Bundesbank partecipi a pieno titolo alle iniziative della BCE. È giunto anche il momento di andare oltre l’emergenza e ridiscutere i trattati in vigore, da Maastricht fino ad oggi. Ci sono aspetti degli interventi di emergenza che possono essere l’inizio di innovazioni di fondo, modificando il rapporto tra intervento pubblico e mercato, tra mercato e solidarietà.  Resta da esaminare un aspetto rilevante, cosa accadrà in Italia? Non si può dare l’impressione che tutto dipende dall’Europa. Certo molto dipenderà dagli interventi europei che possono essere anche l’occasione per un passo avanti verso una vera Unione Europea.

C‘è anche da decidere ciò che deve fare l’Italia. Su questo c’è una disattenzione preoccupante. Conte disse che piuttosto che ricorrere a strumenti discutibili avremmo fatto da soli, un conto è tornare alla realtà sapendo che in realtà fare da soli comporterebbe una crisi gravissima del nostro paese, ma sapendo che ci sono scelte che dipendono da noi. In sostanza gli interventi europei debbono arrivare su canali già preparati per rafforzarli, non per sostituire interventi nazionali. Gli interventi costano. Se c’è una parte del paese che rischia di essere sospinto verso la povertà e di imprese che potrebbero non riaprire occorre recuperare le risorse necessarie là dove sono, cioè dalla parte che detiene risorse e redditi sufficienti per partecipare ad una iniziativa di solidarietà. Il silenzio ogni volta che l’argomento viene sollevato è un errore e indebolisce la nostra trattativa in Europa. Questo è un problema politico di fondo, non stupisce tanto che il governo Conte 2 faccia fatica a parlarne ma che i partiti che lo sostengono non aprano su questo una discussione con lo stesso impegno che vien messo per recuperare risorse europee. Inoltre c’è un punto su cui c’è un silenzio poco comprensibile. In altri paesi europei ci sono esperienze che in diversi campi possono costituire un valido esempio, come del resto anche iniziative italiane lo sono per altri paesi. Perché non si possono studiare e copiare altre esperienze se funzionano?

Ad esempio la Cassa Depositi e Prestiti è stata riformata positivamente anni fa, oggi potremmo imitare l’esperienza tedesca sulla gestione del debito pubblico. La gestione del debito pubblico in Italia è un problema di prima grandezza e un’agenzia pubblica specializzata potrebbe aiutare non poco a risparmiare e quindi perché non adottare altre esperienze nella gestione del debito pubblico, ad esempio sul modello tedesco. Se la proposta è valida come dimostra il fatto che la Germania pur essendo in condizioni di finanza pubblica più solide assicura una gestione del debito attenta ci dice che probabilmente anche l’Italia avrebbe da guadagnare da quel modello con risultati molto maggiori, visto che il nostro debito pubblico ha un peso rilevante e richiede più attenzione di altri.

Non sarebbe uno strumento risolutivo ma potrebbe aiutare a gestire meglio un punto dolente della nostra economia.

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E il Parlamento riprenda la sua centralità nella pandemia

Alfiero Grandi. Ora basta chiamare governatori i
                presidenti di Regione. E il Parlamento riprenda la sua
                centralità nella pandemia

Antonio Esposito, presidente emerito di Sezione della Cassazione, ha messo in evidenza, con rigore, un punto solo apparentemente di forma linguistica e cioè che è sbagliato definire Governatori i Presidenti delle Giunte regionali. In questo si distinguono anche troppi giornalisti che usano – per ignoranza? per piaggeria? – la definizione Governatori che nella nostra Costituzione non esiste. I Governatori sono una figura istituzionale degli Usa, stato federale, a differenza dell’Italia. Esposito ha ricordato che la Costituzione parla di Presidenti delle Giunte delle Regioni e aggiungo che la loro elezione diretta non cambia la sostanza della funzione che svolgono. Non a caso l’articolo 121 della Costituzione afferma, ad esempio, che il Presidente dirige le funzioni amministrative delegate dallo Stato alla Regione conformandosi alle istruzioni del Governo della Repubblica. Inoltre i poteri sostitutivi sono attribuiti dall’articolo 120 al Governo, quando lo richiedono l’incolumità e la sicurezza pubblica e sono vietati provvedimenti che ostacolano la libera circolazione delle persone e delle cose. Questi concetti sono il contrario di quanto abbiamo potuto ascoltare, in diverse occasioni, da alcuni Presidenti.

In troppe occasioni è risultato evidente che la pandemia è stata vista da alcune Regioni come occasione per rivendicare/strappare più poteri in contrasto con il ruolo dello Stato. Ci sarà tempo per vedere meglio se l’Italia può continuare ad accettare 20 sistemi regionali diversi e comportamenti istituzionali che hanno finito per indebolire il contrasto alla diffusione del virus, o almeno lo hanno reso più confuso, a volte aumentando inevitabilmente il numero delle vittime, come è accaduto nelle Rsa e nelle case di riposo. In questo momento è prioritario fronteggiare la pandemia. È il minimo che dobbiamo al sacrificio dei sanitari che hanno lavorato in prima linea, con un numero di morti che ha raggiunto livelli inaccettabili. La leale collaborazione tra i livelli istituzionali dovrebbe essere la naturale conseguenza dopo questi sacrifici. Un segnale certamente utile sarebbe archiviare definitivamente, da subito, l’autonomia regionale differenziata, che è un segnale nella direzione opposta a quanto è necessario.

Nella cosiddetta fase 2 vengono al pettine diversi nodi. Un conto è adottare misure straordinarie di limitazione della libertà delle persone per una fase di emergenza e seguire regole semplificate di adozione, tuttavia dopo due mesi occorre delineare un percorso verso la normalità del funzionamento delle istituzioni. Anche perché l’uso ripetuto dei Dpcm, pur legittimati da una fonte legislativa come un decreto legge, finisce con il creare una modalità che è rapida quanto un decreto legge, con la differenza che quest’ultimo è modificabile in sede di conversione e fa entrare in scena il parlamento. Il vero problema è che il decreto legge presuppone un percorso parlamentare di approvazione e quindi è soggetto alle turbolenze parlamentari di una maggioranza non molto stabile, difficoltà che un Dpcm non ha perchè si tratta di un’azione delegata. Il parlamento deve riprendere il suo ruolo di rappresentanza del paese. È vero che questo parlamento è il frutto di una legge elettorale che lo ha separato largamente dalla rappresentanza dei cittadini, tuttavia è lecito attendersi malgrado questo difetto originale una maggiore consapevolezza sul ruolo dei singoli parlamentari e della Camera e del Senato. La pandemia non giustifica tutto e comunque non può giustificare modalità eccezionali per periodi lunghi, per questo occorre puntare ad un percorso di rientro nella normale dialettica tra le istituzioni, i loro ruoli, che è fondamento della democrazia.

Altrimenti si può diffondere un veleno che potrebbe mettere in discussione il ruolo stesso del parlamento che nella nostra Costituzione è architrave del sistema istituzionale, con conseguenza che non è difficile immaginare. Non possiamo dimenticare che pende tuttora il referendum costituzionale sul taglio del parlamento, per ora rinviato all’autunno, che deve decidere proprio sul ruolo del parlamento in Italia. È vero che le urla di Salvini e Meloni sulla democrazia in pericolo sono strumentali e non credibili, tuttavia in un paese colpito dalla pandemia e dal contraccolpo di una crisi economica e sociale senza precedenti dal dopoguerra lo smarrimento è forte e anche chi non condivide la strumentalità ha bisogno di risposte politiche e di interventi rapidi. Ad esempio la strumentalità non compensa i ritardi, che esistono, nell’applicazione delle misure di sostegno al reddito, alle imprese. La fase di avvio della chiusura delle attività ha dovuto fare i conti con novità e quantità che non hanno precedenti, questo va ricordato, ora tuttavia occorre fare funzionare le misure di sostegno con la massima rapidità possibile. Conte avrebbe dovuto dedicare più attenzione a questo aspetto davanti alle Camere.

Occorre fare corrispondere gli impegni ai fatti, al massimo possibile. Forse è troppo dire con il Manzoni che “il fulmine tenea dietro al baleno”, tuttavia un disagio diffuso per i ritardi, la sensazione di essere abbandonati può accumulare un risentimento sociale sordo e pericoloso. Inoltre la polemica sguaiata della destra sovranista contro il governo punta a coprire il clamore dei comportamenti di regioni come la Lombardia e rappresenta una sorta di preparazione di un assalto che sarà molto più pesante tra qualche settimana in occasione delle decisioni che il parlamento dovrà adottare sull’adozione degli strumenti europei di sostegno ai paesi più colpiti dalla pandemia e in crisi economica. Far montare la protesta e il malcontento rappresenta una sorta di esercitazione sovranista in vista dello scontro finale, o almeno di quello che essi sperano diventerà tale. Togliere argomenti è giusto anzitutto perché vuol dire risolvere i problemi ma nello stesso tempo è importante perché eviterebbe all’Italia una fibrillazione politica pericolosa.

Sure, Bei, Mes, interventi della BCE, Recovery fund sono fondamentali per affrontare una crisi senza precedenti. Se saranno strumenti di un sostegno reale ai paesi più esposti il risultato potrà essere positivo e quindi è importante arrivare presto ad una soluzione. Va aggiunto che l’Italia non può e non deve solo restare in attesa delle misure europee, per quanto importanti, ma deve avviare un proprio progetto di ripresa economica che non è fatto solo di riaprire quello che è rimasto di ciò che avevamo prima, già abbastanza ammaccato. Solo un intervento pubblico programmatico può decidere investimenti in settori di punta come l’innovazione tecnologica, la sistemazione del territorio, la salvaguardia dell’ambiente, la riparazione di infrastrutture che crollano, il rientro del decentramento produttivo dall’estero, una revisione della tassazione che trasferisca dai ricchi a chi ha bisogno, dalla rendita al produttivo, una gestione del debito pubblico che copiando l’esperienza tedesca costruisca una società pubblica con il compito di tenere più bassi possibili i tassi sul debito, cercando di tenere sotto controllo lo spread. Occorre coraggio e respiro politico, altrimenti il logoramento potrebbe diventare per il Governo insostenibile.

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(da Ravenna in Comune)
Come anticipato pubblichiamo la seconda parte dello scritto di Roberto Riverso per Questione Giustizia (trimestrale promosso da Magistratura Democratica) in occasione della festa del 1° maggio. Ci è parso importante dare rilievo a questo contributo alla riflessione post Covid-19. 
Nella foto: l’intervento del Giudice Roberto Riverso al convegno “Dignità e legalità del lavoro” organizzato da Ravenna in Comune nel marzo 2016.
 
8. L’esigenza delle ripartenza non può portare ad alcuna sottovalutazione. Il legislatore deve necessariamente prevedere che le attività economiche possano sì riprendere e proseguire, ma solo se, quando ed in quanto saranno garantite le misure di tutela per la salute. E soltanto sotto stretto monitoraggio e controllo al fine di assicurare il rispetto di tutti i limiti e le prescrizioni necessari per l’immunizzazione (distanze, mascherine, occhiali, tute, calzari, guanti, screening, sanificazione degli ambienti, informazioni precise, tempi di vestizione adeguati) e contenute nelle

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Governo e dintorni. Intellettuali e personaggi di spicco della cultura firmano un appello per fermare la levata di scudi contro il governo Conte. Secondo i promotori la maggioranza viene attaccata strumentalmente in una fase delicata per il paese.

Non passa giorno senza che opinionisti (e politici in cerca di visibilità) mettano in croce il governo, con ogni più vario argomento. Dopo la conferenza stampa del 26 Aprile, l’accanimento ha raggiunto livelli insopportabili. I “retroscena” impazzano e molti fanno di tutto per accreditare un Conte poco autorevole e drammaticamente non all’altezza della situazione, oppure un Presidente del Consiglio che si atteggia quasi a dittatore calpestando i diritti e la Costituzione.

Ma siamo di fronte ad una “notizia” o piuttosto ad una “narrazione” artificiosa e irresponsabile? O anche all’espressione degli interessi e delle aspirazioni di coloro che vogliono sostituire questo governo e la maggioranza che faticosamente lo sostiene, per monopolizzare le cospicue risorse che saranno destinate alla ripresa?

Il governo Conte non è il migliore dei possibili governi, sempre che da qualche parte possa esistere un governo perfetto. In aggiunta, viviamo in una condizione di inedita emergenza e anche di straordinaria incertezza, di cui nemmeno le discipline scientifiche vengono a capo pienamente. È certo che i messaggi di Palazzo Chigi non hanno sempre la chiarezza necessaria e che, con l’intento di orientarci nei meandri della nostra vita quotidiana, possono generare ambiguità interpretative e incertezza.

Si possono (e si dovrebbero) discutere le priorità, comunque provvisorie, che il governo ha indicato e gli strumenti normativi che ha di volta in volta adottato (alcuni costituzionalisti e opinionisti lo hanno fatto). Non c’è dubbio, neppure, che siano stati limitati alcuni diritti fondamentali come quello alla libertà di movimento (limitazioni peraltro previste dall’art. 16 della Costituzione), e sia stato limitato il pieno esercizio del diritto al lavoro, all’istruzione, alla giustizia nei tribunali. Ma niente ha intaccato la libertà di parola e di pensiero degli italiani e questi interventi sono avvenuti nel rispetto delle prerogative emergenziali che la Costituzione assegna all’esecutivo.

In ogni caso, il nostro convincimento è che questo governo abbia operato con apprezzabile prudenza e buonsenso, in condizioni di enormi e inedite difficoltà, anche a causa di una precedente “normalità” che si è rivelata essere parte del problema. Molte di tali difficoltà dipendono infatti dallo stato di decadimento di gran parte del sistema sanitario, frutto di anni di scelte dissennate di privatizzazione e di una regionalizzazione sconsiderata e scoordinata. Ed invece sembra che tutto il male origini in questo governo, spesso bersaglio di critiche anche volgari e pretestuose, veicolate dai media.

Nessuno tra i critici si prende davvero la responsabilità di dire cosa farebbe al suo posto, come andrebbe ponderata una libertà con l’altra, una sicurezza con l’altra, e quale strategia debba essere messa in campo per correggere le lamentate debolezze dell’esecutivo. Negli ultimi giorni, questa campagna che alimenta sfiducia e discredito ha raggiunto il suo acme. Dietro alcuni strumentali e ipocriti appelli alla difesa dei diritti, o del sistema delle imprese e dell’occupazione, si coglie il disegno di gettare le basi per un altro governo: un governo dai colori improbabili o di pretesa unità nazionale, di cui non s’intravede nemmeno vagamente il possibile programma, tolto un disinvolto avvicendamento di poltrone ministeriali e la spartizione di cariche di alto rango.

Il problema di questo paese non sono gli italiani, che si stanno dimostrando in media più che all’altezza della situazione, peraltro aggravata in qualche caso da gestioni regionali arroganti e approssimative. Il problema sta nella sua classe dirigente, tra i registi dell’opinione pubblica o dentro quello che si diceva un tempo “il ceto intellettuale”. Dove il segmento per quanto ci riguarda più problematico è proprio quello “democratico”. Dalla destra populista non ci attendiamo nulla e ce ne guardiamo. Non ci incantano le sue repentine conversioni al liberalismo nel nome del “tutto subito aperto, tutti liberi”. Ci preoccupano gli altri, invece, i democratici “liberali”, i grandi paladini della democrazia e della Costituzione, i cui show disinvolti e permanenti non fanno proprio bene al paese, anzi lo danneggiano.

Prime adesioni

Luigi Alfieri, Manuel Anselmi, Daniele Archibugi, Luca Baccelli, Laura Bazzicalupo, Francesco Belvisi, Gabriella Bonacchi, Sefano Bonaga, Michelangelo Bovero, Lorenza Carlassare, Barbara Carnevali, Thomas Casadei, Adriana Cavarero, Rita Cenni, Pierluigi Chiassoni, Dimitri D’Andrea, Anna Falcone, Alessandro Ferrara, Luigi Ferrajoli, Davide Ferrari, Antonio Fico, Anna Fiore, Antonio Floridia, Simona Forti, Vittoria Franco, Rita Fulco, Giunia Gatta, Marco Geuna, Valeria Giordano, Gustavo Gozzi, Riccardo Guastini, Barbara Henry, Alfonso Maurizio Iacono, Piero Ignazi, Enrica Lisciani-Petrini, Anna Loretoni, Sonia Lucarelli, Andrea Mammone, Giovanni Mari, Giacomo Marramao, Oreste Massari, Alfio Mastropaolo, Tecla Mazzarese, Maurizio Melucci, Gian Giacomo Migone, Andrea Pisauro, Pier Paolo Portinaro, Mariano Puxeddu, Lucia Re, Marco Revelli, Gianpasquale Santomassimo, Anna Soci, Siriana Suprani, Annamaria Tagliavini, Francescomaria Tedesco, Fabrizio Tonello, Nadia Urbinati.

Per aderire, inviare una mail al seguente indirizzo:
Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

 

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La crisi da pandemia ci restituirà un mondo diverso. Lo si dice da più parti, anche perché si sta spegnendo, anche per una ragione di convenienza, la fonte energetica più tradizionale, che aveva reso possibile una crescita che, al più, si sarebbe dovuta governare, non rapidamente accantonare. 

Da settimane i principali indici dei prezzi del petrolio oscillano, con brusche cadute e leggere risalite, fino ad assumere valori negativi, ben oltre quindi la grande crisi finanziaria del 2008 e 2009.  Bloomberg (v. https://www.iltascabile.com/scienze/coronavirus-collasso-petrolio/ ) ha titolato “Il mercato del petrolio è in pezzi” al punto che esiste il rischio di far saltare gli assetti geopolitici del mondo e, con un eccesso di offerta a prezzi stracciati, di dare la stura al mantenimento per un lungo periodo delle centrali termiche e dei veicoli a combustibile, ulteriormente vanificando  gli sforzi per tenere sotto controllo il riscaldamento climatico.

In effetti, siamo di fronte ad una situazione assai complicata: è in corso, anche a causa dell’epidemia, una recessione globale e pesante; si è affacciato sul mercato un prodotto competitivo estratto in modo non tradizionale (lo “shale oil” prodotto negli Stati Uniti con la tecnica del fracking), e c’è il rifiuto dell’Arabia Saudita, impegnata in una faticosa alleanza con la Russia, di sobbarcarsi da sola il compito di tenere alti i prezzi del greggio per indebolire la concorrenza del prodotto estratto al di là dell’Atlantico.

Fino a questo ultimo mese il saliscendi del prezzo dei fossili sembrava tutto giocato all’interno della filiera degli idrocarburi, nella contesa sostanzialmente tra i due maggiori esportatori concorrenti dotati di tecniche tradizionali (Arabia e Russia) e il nuovo arrivato (Stati Uniti) che si rifornisce in casa propria di olio di scisto.

Ma il dilagare del coronavirus, che dall’inizio del 2020 sta mettendo in quarantena intere popolazioni e riducendo al lumicino le attività produttive e gli stessi consumi, non si direbbe solo una questione economica o sanitaria: con una aggressività inedita ed una rischiosità imprevedibile evoca l’incertezza della permanenza della nostra vita sulla Terra. E’ così profondo il turbamento provocato da far pensare ad un “dopo” in discontinuità con il “prima”. Rivedere a fondo il modo di produrre richiederà senz’altro anche un’accelerazione nei processi di decarbonizzazione. Il che porta a propendere più per lo smantellamento della poderosa rete dei fossili, anziché correre ai ripari con ingenti investimenti sulla salute che sarebbe comunque destinata a peggiorare a velocità maggiori delle capacità di contenimento dell’inquinamento e delle catastrofi climatiche dovute al ricorso ai combustibili climalteranti. Tanto vale allora vendere tutto il vendibile prima possibile, e investire i proventi in qualcos’altro (magari fonti rinnovabili, batterie, reti intelligenti etc.).

Il lockdown di un paese dopo l’altro, con auto ferme, fabbriche chiuse e stop dei voli, ha provocato lo stop a nuovi investimenti nel settore estrattivo, il riempimento delle riserve strategiche disponibili e perfino la navigazione in acque extraterritoriali di grandi petroliere noleggiate e riempite di greggio.

Due sono le possibilità di uscita: usare prezzi stracciati dei fossili con l’inevitabile aumento delle emissioni di CO2. o, al contrario, accelerare verso la transizione alle fonti rinnovabili e al risparmio, disponendo di un sistema decentrato sul territorio, che si approvvigiona e consuma in forme cooperative e che riduce gli sprechi e gli effetti sull’ambiente e la salute.

La recessione in corso, a prima vista, fa pensare che energia a bassi costi sia un obbligo da sfruttare, almeno in un’ottica capitalista e aziendale. Ma l’opinione pubblica – ferita dall’esperienza e dalla genesi del coronavirus – non certo separabile dagli stili di vita e dal degrado presente nell’atmosfera - non sarà più facilmente disponibile a giocarsi il futuro di figli e nipoti per riprendersi tal quale un presente, oltretutto precario, insalubre e giocato sul filo delle guerre commerciali.

La pandemia ha spostato lo scenario in cui si discuteva della possibile carenza di fonti esauribili come petrolio, gas e carbone: il picco di Hubbert (v. https://www.appuntidigitali.it/17352/petrolio-il-picco-di-hubbert/ )sarà quasi sicuramente raggiunto prima dalla domanda che non dall’offerta e lo stop e il prezzo degli idrocarburi non saranno determinati dallo svuotamento dei pozzi, ma dal rifiuto di impiegarli per i danni che hanno a che fare con la biosfera prima che con la geopolitica. Nei fatti, ci si è preoccupati a lungo e sbagliando di prevedere prima di tutto il “peak oil”, il momento in cui la produzione avrebbe toccato il massimo per poi iniziare a diminuire: invece, al ,punto in cui siamo, si è capito che sarebbe arrivato prima il “peak demand”, il momento in cui la domanda mondiale sarebbe cominciata a calare.

Non è una rivoluzione da poco, anche nel nostro modo di pensare: siamo in un’era nuova. E chi non ne vuole tener conto, vuole che l’Antropocene, in cui presuntuosamente diciamo di essere entrati, duri davvero poche generazioni.

Avanzano pensieri e visioni nuove che non avremmo pensato di veder piovere sulla terra così presto e con così tanta angoscia. Peggio sarebbe però insistere e riproporsi di continuare a progettare il Pianeta come un proprio manufatto. Un mondo tutto sotto controllo, disconnesso dalla natura e dal resto del vivente, da consumare solo da parte di pochi, con un meccanismo vorace e predatorio, da cui ci si separa sempre più di rado.

Colpisce che tra le attività che non sono state poste in lockdown dal Governo durante la pandemia ci siano quelle estrattive e che, a quanto mi giunge notizia

(v. https://trcgiornale.it/carbone-nato-per-dividere-tra-corsi-e-ricorsi-storici/ ), stiano per attraccare a Civitavecchia carboniere di grandi dimensioni, per il cui scarico potrebbero circolare centinaia di autotreni dal porto verso la centrale, con spargimento di pulviscolo inquinante, consegnando all'Enel una città in ginocchio proprio quando la riconversione dell’area a fonti non fossili e a immagazzinamento di idrogeno potrebbe essere dietro l’angolo!

* Presidente "Energia Felice", Vice presidente "Laudato si"

 

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