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Lo strappo Forza Italia, votando con l’opposizione contro la proroga del taglio al canone Rai, non ha mandato sotto soltanto la Lega che proponeva l’emendamento ma anche il governo che aveva dato parere positivo. Non era mai successo prima, in questa legislatura

Antonio Tajani e Matteo Salvini foto di Fabio Frustaci/Ansa Antonio Tajani e Matteo Salvini – foto di Fabio Frustaci/Ansa

La doppia spaccatura del centrodestra sul decreto fiscale non è «la maggioranza in frantumi», come finge di credere Elly Schlein, ma certo non è neppure solo una «schermaglia non particolarmente seria» come se la rivende la premier Giorgia Meloni e deve avercela messa davvero tutta per mascherare l’ira. È invece il segno che nella coalizione di governo sono saltati gli equilibri che permettevano di negare ogni divisione perché poi, al momento del voto, l’unità si ricomponeva magicamente. Quella è già storia di ieri.

Forza Italia, votando con l’opposizione contro la proroga del taglio al canone Rai, non ha mandato sotto soltanto la Lega che proponeva l’emendamento ma anche il governo che aveva dato parere positivo. Non era mai successo prima, in questa legislatura.

Spacciare l’inedito fattaccio per una semplice divergenza d’opinione come fa Forza Italia, neanche si trattasse di una discussione tra amici a cena, dimostra solo che gli azzurri sono in realtà consapevoli della portata dello strappo. La Lega ha reagito colpendo su un emendamento azzurro che almeno vedeva il governo neutrale, quello sulla sanità in Calabria, ma l’innesco della spirale bastonata-rappresaglia è comunque quanto di meno gradito per l’inquilina di palazzo Chigi.

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È probabile che Antonio Tajani abbia davvero scelto di portare la sfida sino alle estreme conseguenze su pressione dell’azienda madre, Mediaset, spaventatissima dalla prospettiva di un innalzamento della pubblicità Rai per colmare il buco del canone decurtato. La premier ne è convinta ed è facile che colga nel segno. Ma la consolazione è di respiro corto. Quella motivazione, se reale, spiega comunque solo in parte l’affondo degli azzurri. Forza Italia è infatti impegnata su una quantità di fronti, non solo su quelli che tirano in ballo i sacri interessi Mediaset. Si oppone a qualsiasi manovra contro l’affare Unicredit-Bpm, ove mai prendesse quota. Il mercato è sacro. Mira a trasformare la disfatta della Lega sull’autonomia differenziata in una rotta scomposta e definitiva. Pretende che il commissario europeo Fitto sia sostituito dal suo ex capogruppo Cattaneo e già che ci si trova insiste per un rimpasto, parola tabù per Giorgia Meloni, che registri la sua accresciuta importanza nella coalizione.

Più delle richieste imperative degli eredi di re Silvio o delle proteste della Fi del sud, cioè quasi tutta, contro l’autonomia di Calderoli, l’elemento destabilizzante è questo. La maggioranza è la stessa che aveva vinto le elezioni due anni fa ma gli equilibri al suo interno non lo sono affatto. La maggioranza vincente nel 2022 vedeva due partiti di destra competere sullo stesso elettorato per aggiudicarselo, con l’aggiunta di Fi come foglia di fico moderata, utile ma in via di estinzione. Due anni dopo la competizione è tra il partito di destra e la delegazione italiana del Ppe, decisa a riproporre in Italia lo schema europeo che prevede sì un’alleanza con la destra meno incarognita, quella guidata da Giorgia Meloni, ma in funzione subordinata non certo al timone.

Per battere quella pista, che è in realtà quasi obbligato a seguire, Tajani deve per forza evidenziare il ruolo del suo partito, dare la caccia a un elettorato diverso da quello di FdI e della Lega, brandire bandiere e parole d’ordine diverse a volte ai confini dell’inconciliabilità. Non per rompere la coalizione, tentazione “terzopolista” che non lo sfiora, ma per assumerne la guida o almeno poter trattare con la componente di destra da pari a pari. In questo nuovo quadro il mare molto mosso è per forza la regola, la stabilità degli anni scorsi difficilmente riproponibile.

Una Lega che già versa in condizioni disperate, soffre l’emorragia di voti, prende schiaffi su tutti i fronti, è condannata ora al ruolo ingrato del vaso di coccio. Quanto Matteo Salvini possa resistere nella parte del leader che sbraita e ruggisce ma in realtà fa la parte del punching ball è incerto e se accettasse di prestarsi all’umiliante ruolo potrebbe non restare a lungo al timone del Carroccio.

Messa da parte la maschera dell’indifferente, in privato la premier Meloni ha ordinato ieri ai suoi alleati di smettere di prendersi a mazzate una volta per tutte. Ma stavolta la voce grossa, di fronte a una mutazione strutturale della maggioranza, non può bastare.