Dopo Trump Le sinistre occidentali, che stanno perdendo il proprio radicamento operaio già dagli anni Settanta (come aveva lucidamente riconosciuto Eric Hobsbawm) si tuffano sulle nuove opportunità economiche che si stanno aprendo, assecondando il processo in corso, e facendosene in certi casi garante
Il neo eletto presidentedegli Stati uniti Donald Trump – foto di Alex Brandon/Ap
Quali lezioni dovremmo trarre dalla vittoria di Donald Trump? Secondo alcuni, i Democratici sono stati sconfitti perché hanno progressivamente perso il carattere di partito della working class.
Per diventare la forza di riferimento dei ceti professionali, delle persone più istruite, e tendenzialmente benestanti. Altri hanno posto l’accento, invece, sulla frattura tra certe aree del paese – prevalentemente urbane e tendenzialmente più sviluppate – e quelle che invece non riescono e riprendersi dallo shock delle delocalizzazioni. Le prime vedono i Democratici meno in difficoltà, le seconde spesso favoriscono Trump. Tutte le spiegazioni devono tener conto dell’appartenenza, ma con sfumature diverse, che possono essere legate al «ruolo nel processo di produzione» (per riprendere un’espressione marxista ancora utile) oppure a elementi di carattere identitario (nazione, gruppo etnico, religione). Qui la faccenda si complica ulteriormente, perché il carattere di terra di emigrazione degli Stati uniti rende il tema dell’identità ineludibile ma sfuggente.
Non c’è dubbio che la prima ipotesi cui abbiamo accennato appare confermata dai dati elettorali, e in qualche misura si armonizza con una tendenza che si sta manifestando in tutti i paesi nei quali il partito principale della sinistra (sia esso di tradizione socialista o meno) si è collocato, dopo la «rivoluzione recuperante» del 1989, al centro. A partire dagli anni Novanta, la restaurazione della democrazia nei paesi dell’ex blocco sovietico si rivela come il momento decisivo per l’instaurazione di un diverso modo di concepire i rapporti tra economia e politica, che esalta gli effetti benefici del mercato e svilisce quelli dell’intervento pubblico.
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Elon Musk e l’attacco al cuore della democraziaLe sinistre occidentali, che stanno perdendo il proprio radicamento operaio già dagli anni Settanta (come aveva lucidamente riconosciuto Eric Hobsbawm) si tuffano sulle nuove opportunità economiche che si stanno aprendo, assecondando il processo in corso, e facendosene in certi casi garante. Sono gli anni di Clinton, di Blair, e dei loro epigoni continentali. Sono loro a portare alle estreme conseguenze l’idea che i vecchi partiti socialisti o liberal progressisti dovessero diventare i partiti dello sviluppo economico, puntando sulla scommessa che una volta ampliata la torta sarebbero aumentate le porzioni per ciascuno. In realtà le cose vanno in modo diverso dal previsto. Mano a mano che accettano le premesse e gli obiettivi della nuova visione «neoliberale» della politica, questi partiti vengono di fatto «catturati» da una nuova classe dirigente, fatta non più di militanti con un solido radicamento nel movimento operaio e nelle battaglie antifasciste della prima metà del Novecento, ma di consulenti e «tecnici» di varia estrazione, che non hanno alcun interesse a distribuire in modo più equo la torta. Chi è più «meritevole», ha diritto a tagliare la fetta che gli spetta prima degli altri, e pazienza se poi non rimane molto da spartire.
Nel nuovo secolo i nodi vengono al pettine. La promozione di politiche di austerità dopo la crisi del 2008 colloca i partiti della nuova sinistra neoliberale in una pozione insostenibile, non solo rispetto a quel che rimaneva – dopo le delocalizzazioni – della classe operaia intesa in senso stretto, ma anche rispetto all’area, dai confini meno netti, dei diversi tipi di lavoratori subordinati. Le politiche di flessibilità del lavoro, difese da queste forza politiche, a partire dagli anni Novanta, come un’opportunità per i lavoratori, si sono rivelate in molti casi una trappola fatta di precarietà, redditi bassi, e subordinazione al debito.
Quindi, in un certo senso, è vero che la sinistra dovrebbe darsi da fare per recuperare il voto della working class intesa in senso ampio, non solo gli operai, ma anche la vasta platea di chi lavora in posizione subordinata (di diritto o di fatto). Si tratta, tuttavia, di una verità parziale. Uno degli effetti più profondi, e più difficili da invertire, della rivoluzione neoliberale, è infatti un mutamento sul piano della visione dell’essere umano, e del suo ruolo nella società.
Ciò che gli attivisti della sinistra più critica nei confronti del neoliberalismo chiamano working class è un’astrazione priva di concretezza, perché le classificazioni sociali che guardano al ruolo nel processo di produzione, o al livello di reddito, non sono allineate con quelle identitarie. In una società dove la solidarietà di classe si è affievolita fino a scomparire, ciascuno solidarizza, nella misura in cui ne sente il bisogno, soltanto con i suoi, con quelli del proprio gruppo. Tutti gli altri sono concorrenti, potenzialmente nemici in una società che sta diventando a «somma zero».
Recuperare il voto della working class in queste condizioni potrebbe rivelarsi impossibile, se non si mette in campo uno straordinario impegno sul piano della «visione del mondo», per erodere le basi su cui ancora si sostiene l’egemonia neoliberale. La sinistra dovrebbe, in questo, seguire la lezione di Stuart Hall. L’intellettuale caraibico che negli anni Settanta indicò alla sinistra britannica sconfitta da Margaret Thatcher la strada di una rilettura del Gramsci studioso dell’egemonia come premessa per comprendere i fattori ideologici del nuovo liberalismo emergente.
* Mario Ricciardi insegna Filosofia del diritto presso l’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano e Teoria generale del diritto presso l’Università Statale di Milano. Collabora regolarmente all’inserto culturale della domenica del Sole 24 Ore, a la Rivista dei Libri e al quotidiano Il Riformista. Google Books