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Medio Oriente L'accordo garantisce a Israele ampia libertà di manovra e si costruisce sull'offensiva pesantissima contro la popolazione libanese, mentre Netanyahu seppellisce la questione palestinese

Macerie nel quartiere di Dahiyeh a Beirut in Libano dopo un attacco israeliano foto Ap Macerie nel quartiere di Dahiyeh a Beirut in Libano dopo un attacco israeliano

Quella del Libano è una tregua «sporca»: perché, arriva – sperando che arrivi davvero – sotto una pioggia di bombe su Beirut e, come sempre, accompagnata dal diritto di Israele a romperla in qualunque momento.

Ci sarà una doppia tutela in Libano, scrivevano ieri i media locali: nel sud quella israelo-americana, a nord del fiume Litani quella Hezbollah-Iran, in mezzo l’Onu e le forze libanesi. Israele ovviamente si riserva il diritto di colpire quando vuole, Hezbollah, a sua volta, di decidere per tutto il Libano e non soltanto per la «resistenza».

MENTRE ISRAELE rendeva noto che soltanto ieri aveva colpito 180 bersagli in Libano, la 91a divisione delle Forze di difesa israeliane (Idf) raggiungeva il fiume Litani, nel sud del Libano e l’area di Wadi Saluki. È la prima volta dal 2000, anno in cui Israele si ritirò dal Libano meridionale, che le truppe dell’esercito israeliano raggiungono il fiume Litani.

Quindi Hezbollah ha perso? Per Hezbollah, l’accordo con Israele è un compromesso strategico che mantiene i fondamenti della sua «missione di resistenza» senza sacrificare la capacità di operare come attore politico-militare in Libano. Il partito descrive l’accordo come «una pausa tattica», necessaria per riorganizzare le forze e affrontare le prossime sfide, senza mai abbandonare la lotta contro quello che considera «il nemico sionista».

Insomma, si cerca di indorare la pillola. Fonti vicine a Hezbollah a Beirut affermano che, sebbene il ritiro dei combattenti a nord del fiume Litani possa essere interpretato come una concessione tattica, questo è in realtà un «adattamento temporaneo» al contesto attuale, «necessario per proteggere i civili» e preservare l’integrità del suo arsenale.

In realtà tutte le aree sciite legate a Hezbollah sono state sgomberate e in parte distrutte. Il Partito di Dio ha perso il suo segretario generale Hassan Nasrallah, è stato decimato l’alto comando militare e gran parte del suo arsenale. Questo non è certo un risultato paragonabile a quello del 2006 quando Hezbollah difese se stesso e il Libano bloccando l’avanzata di Israele nel sud.

IN QUEL MOMENTO Hezbollah aveva raggiunto il massimo della sua popolarità non solo nel Paese dei Cedri ma anche in buona parte del Medio Oriente, nonostante il Partito di Dio appartenga alla minoranza sciita e sia fortemente sostenuto dall’Iran.
Certo, Hezbollah è ancora qui e non si sconfigge un’idea, o un’ideologia ben radicata nella società, con una guerra.

Come pure Hamas è ancora qui nonostante i 45mila palestinesi uccisi a Gaza – di cui il 70% donne e bambini – e la decimazione della sua leadership. Lo ha dimostrato il passato che non si sradica la resistenza di un popolo. Però sono mesi che il Partito di Dio sbaglia i calcoli e sopravvaluta la sua forza nei confronti dell’avversario.

Questa è la logica che ha portato al disastro attuale. Con un’attenuante non da poco. Anche gli analisti militari meno favorevoli a Hezbollah pensavano che la resistenza libanese fosse comunque capace di infliggere danni importanti a Israele. E invece è stato Israele a sorprendere con una guerra tecnologica e molto cyber che ha decapitato la leadership e i quadri Hezbollah.

Una guerra che non ha rinunciato a fare tabula rasa senza alcuna pietà di tutto il Libano provocando migliaia di morti e danni per miliardi dollari, in un Paese già stremato dalla crisi economica e dall’afflusso di centinaia di migliaia di profughi.

MA SOPRATTUTTO perché questa è una tregua sporca? Il premier israeliano Benyamin Netanyahu non vuole solo sconfiggere l’asse iraniano. Vuole metterlo in ginocchio. Fare in modo che non sia più una minaccia nei prossimi decenni. E al tempo stesso vuole seppellire la questione palestinese. In altre parole: imporre una nuova realtà regionale. È il suo sogno da più di trent’anni.

L’elezione di Donald Trump potrebbe permettergli di realizzarlo.