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Discussione sulla proposta del centro-sinistra. Landini: serve anche una norma che dia valore generale ai contratti in modo che diventino vincoli paga e diritti

 Foto: Simona Caleo

Chi ha paura del salario minimo? Sicuramente il governo italiano, nonostante che questa volta davvero ce lo chiede l’Europa, visto che lo scorso autunno un’importante direttiva in materia è stata approvata e attende di essere recepita entro un anno. Tema complesso quello del salario minimo che attiene alle diverse nature dei mercati del lavoro e soprattutto delle relazioni industriali nei vari paesi europei. Tema complesso e carsico che appare e scompare dal dibattito politico. 

Ultima arrivata la proposta di legge sul salario minimo presentata la scorsa settimana dal (quasi) campo largo del centro-sinistra: Partito democratico, Movimento 5 stelle, Sinistra italiana, Europa verde, Azione e +Europa. Italia Viva di Renzi si è invece sfilata.

Landini: salario e rappresentanza

La questione è molto articolata perché, appunto, il salario è “solo” una parte, seppur fondamentale, di un contratto di lavoro. Che regola anche diritti, ferie, malattia eccetera. Lo ha ribadito il segretario generale della Cgil Maurizio Landini a margine di una conferenza su “Inflazione e salari: quali politiche” promossa ieri (3 luglio) dall’Università Roma Tre. 

 

Il tema salariale va dunque affrontato da più lati. Oltre al capitolo fiscale, per il sindacalista bisogna “aumentare le retribuzioni rinnovando i contratti, ma bisogna anche alzare la paga oraria nei contratti in cui è troppo bassa”. Per questo, ha aggiunto, “per noi è il momento di ragionare su una legge che anche nel nostro paese introduca il salario minimo, ma bisogna farlo tenendo conto che in Italia c’è una contrattazione collettiva molto importante”. Serve quindi anche “una legge che dia validità generale ai Ccnl in modo che diventino vincoli di legge sia la paga oraria sia tutti i diritti contenuti nei contratti stessi. E questo per noi deve valere per tutte le lavoratrici e i lavoratori: siano essi subordinati, autonomi o a partita Iva”. Allo stesso tempo, c’è “bisogno di aumentare i salari perché ci sono milioni di persone che hanno paghe orarie sotto i 9 euro e questo non è più accettabile”.

Il dibattito

La discussione è molto articolata. Giorgia Meloni intervistata dal Corriere della sera è stata netta: “Non sono convinta che al salario minimo si possa arrivare per legge”. Il giorno prima la ministra Calderone aveva usato praticamente le stesse parole, da cui il commento della segretaria del Pd Elly Schlein, secondo la quali il governo non vede “quei tre milioni di lavoratrici e lavoratori poveri. L'obiettivo di questa maggioranza è evidente, vogliono smantellare ogni rete di protezione sociale, come hanno già fatto con il reddito di cittadinanza”. Del resto, nessun partito del Centro-destra aveva inserito questa misura nel programma elettorale.

Per il resto, molto scettica resta anche la Cisl. Per il segretario generale Luigi Sbarra, intervistato da La Stampa, "il salario minimo serve per sostenere la crescita dei redditi, ma deve essere rigorosamente di natura contrattuale. La legge deve rimandare ai contratti prevalenti, che sono quelli confederali, e non determinare arbitrariamente una soglia minima”, mentre per il leader della Uil, Paolo Bombardieri, “il salario minimo serve perché in questo Paese ci sono tre milioni di lavoratori che stanno sotto quella soglia”.  Anche il governatore di Bankitalia, Ignazio Visco, nelle sue Considerazioni finali aveva definito il 31 maggio questa misura come una "questione di giustizia sociale".

Nessun "veto" da parte di Confindustria sul salario minimo. A dirlo il presidente dell'associazione degli industriali Carlo Bonomi, intervenendo all'assemblea di Assolombarda. Bonomi ribadisce però che quello del salario minimo "non è un problema di Confindustria" perché "tutti i nostri contratti sono sopra" alle proposte fatte fino a questo momento.

Poveri salari

Il tema della povertà lavorativa in Italia ha come è evidente assunto dimensioni drammatiche, come ci confermano a intervalli regolari i dati Eurostat. Ormai può essere povero anche chi un’occupazione ce l’ha, ma è spesso precariasottopagata, al nero, con poche ora lavorate (si pensi ad esempio al part-time obbligatorio soprattutto femminile) o magari regolata da contratti pirata siglati da sindacati fantasma.

 

 

Nel terribile 2022, con un’inflazione annuale in Ue del 9,2%, se i salari sono cresciuti (poco) con una media del 4,4%, l’Italia si è fermata al 2,2%, primato negativo insieme a Malta, Finlandia e Danimarca. Ancora più negativi i dati in proiezione temporale: l’Italia è l’unico paese in Europa dove negli ultimi 30 anni gli stipendi – secondo i dati Ocse – sono addirittura diminuiti (-2,9%). Basta aggiungere, per rendersi conto della portata del fenomeno, che in Germania e in Francia (che partivano da un livello retributivo già alto) i salari medi hanno avuto un aumento rispettivamente del 33,7 e del 31,1%.

 

 

La direttiva europea 

Dopo lunghi negoziati finalmente è intervenuta anche l’Europa. La direttiva approvata dal Parlamento europeo non fissa un salario minimo europeo e non detta regole uguali per tutti, ma stabilisce che il salario minimo deve sempre garantire un tenore di vita dignitoso. Le norme europee rispetteranno le pratiche nazionali di fissazione dei salari e una grande importanza viene assegnata alla contrattazione, sia in quei paesi in cui è molto forte, come l’Italia, sia in quelli in cui lo è meno. La competenza, dunque, rimane in capo agli Stati nazionali, poiché, appunto l'Ue non ha fissato un salario minimo uguale per tutti. 

La proposta del centro-sinistra

La proposta del centro-sinistra (sintesi di quattro diversi testi) parte dall’articolo 35 della Costituzione, che stabilisce che a tutti i lavoratori e le lavoratrici va corrisposta una retribuzione proporzionata alla qualità e alla quantità del lavoro svolto, sufficiente a garantire un’esistenza libera e dignitosa. Questi i punti principali: a tutte le lavoratrici e i lavoratori deve essere riservato “un trattamento economico complessivo non inferiore a quello previsto dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative”.

La soglia minima inderogabile deve comunque essere di 9 euro l’ora “per tutelare in modo particolare i settori più fragili e poveri del mondo del lavoro, nei quali è più debole il potere contrattuale delle organizzazioni sindacali”. Secondo i dati dell’Inps, infatti, a gennaio 2021 sono circa 4,6 milioni i lavoratori che in Italia non raggiungono i 9 euro l’ora, pari al 29,7%. 

La soglia dovrà riguardare non solo i lavoratori subordinati, ma anche parasubordinati e autonomi. Prevista anche una Commissione di rappresentanti istituzionali e delle parti sociali, con il compito di aggiornare periodicamente il trattamento economico minimo orario

Target insufficienti per le rinnovabili elettriche e un occhio di riguardo per l'ulteriore sviluppo del gas. Sul dogma della neutralità energetica un peso eccessivo a CCS e ad altri vettori.

  

“È un bel regalo ai combustibili fossili” e “sembra scritto sette mesi fa, all’apice dello shock del gas legato alla guerra in Ucraina”.

Questi, in breve, i giudizi di alcuni osservatori circa il proposto nuovo Piano nazionale integrato energia e clima (Pniec) inviato la settimana scorsa dal governo italiano a Bruxelles.

È il ruolo preponderante assegnato alla generazione elettrica a gas e quello troppo scarso riservato alle rinnovabili che ha indotto G.B. Zorzoli, Presidente onorario del Coordinamento Fonti Rinnovabili ed Efficienza Energetica (FREE), a sostenere che il nuovo Pniec sia un regalo ai produttori di fonti fossili.

Ed è lo stesso ruolo eccessivo del gas e insufficiente delle rinnovabili che ha spinto Michele Governatori, responsabile elettricità e gas del think tank indipendente ECCO, a dire a QualEnergia.it che il documento inviato a Bruxelles, più che nuovo, sembra scritto l’inverno scorso, quando i prezzi del gas avevano raggiunto i massimi storici.

Target troppo bassi per le rinnovabili

La bozza del nuovo Pniec fissa un target complessivo per le rinnovabili del 40,5% del consumo finale lordo di energia al 2030. Si tratta di un dato inferiore al 42,5% indicato dal piano europeo RepowerEU (Il “realistico e non velleitario” Piano Energia e Clima del governo Meloni).

Esiste anche una consolidata regola empirica secondo cui le rinnovabili possono coprire i consumi elettrici finali per una quota quasi doppia rispetto al loro contributo alla copertura del consumo finale lordo di energia in tutte le sue forme.

“Con il 40% di copertura del consumo finale lordo di energia, le Fer dovrebbero soddisfare intorno al 76-77% dei consumi elettrici”, quindi almeno una decina di punti percentuali in più rispetto a quanto prefigurato, ci ha detto Zorzoli.

La quota obiettivo del nuovo Pniec per le rinnovabili elettriche è infatti ferma solo al 65% dei consumi di corrente al 2030; una quota più bassa rispetto a quel 72% che per molte organizzazioni del settore è necessaria per arrivare a metà secolo al 100% di rinnovabili sulla richiesta elettrica.

Tradotta in potenza elettrica, con solo il 65% del consumo finale di corrente, la capacità aggiuntiva di Fer elettriche al 2030 rispetto a quella di riferimento del 2021 risulta di soli 73,3 GW, cioè meno degli 85 GW previsti da Elettricità Futura, l’associazione confindustriale che rappresenta il 70% della generazione elettrica in Italia.

Si tratta di un target “insufficiente”, ci ha detto Governatori, limitandosi a commentare i soli dati dell’executive summary ufficiale inviato a Bruxelles.

Cicli combinati a gas e cattura della CO2

È interessante notare con quali tecnologie gli autori del nuovo Pniec abbiano colmato il divario fra contributo previsto e contributo potenziale delle Fer, ci ha detto il presidente onorario di FIRE.

“Questo scarto al ribasso delle Fer è dovuto al fatto che per la prima volta è inserita esplicitamente nel Pniec la cattura e lo stoccaggio della CO2 (CCS), e con pari dignità rispetto alle misure contenute in tutti gli altri piani”, ha detto Zorzoli.

Assegnare un ruolo così rilevante alla CCS permette al governo italiano di mantenere molto elevato lo sviluppo dei cicli combinati a gas, ha sottolineato l’esponente di FREE.

“La parola ‘gas’ non è mai accompagnata dalla parola ‘riduzione’. Non a caso si dice esplicitamente che il phase out del carbone sarà implementato attraverso la realizzazione di unità termoelettriche addizionali alimentate a gas”, ha aggiunto Zorzoli.

Zorzoli ha poi criticato la presunta neutralità tecnologica del piano, che rappresenta uno dei principi fondanti della politica energetica del governo.

“Alla faccia della neutralità tecnologica e del minimo costo! Quando attribuisci un ruolo così importante alla cattura e stoccaggio della CO2, che ha costi molto più alti di altre soluzioni, con grossi problemi di affidabilità e sicurezza, lo fai per tenere in piedi i cicli combinati, anzi per aumentarli”, ha evidenziato Zorzoli (CCS: da 50 anni al servizio delle fossili, ma per il clima tutto fumo e niente arrosto e La tecnologia CCS che non funziona: il caso Shell in Canada).

Il governo è fermo all’apice della crisi energetica

Nel capitolo sulla sicurezza energetica dell’executive summary del nuovo piano ci sono svariati riferimenti a un “aumento vertiginoso dei prezzi dell’energia” e a “prezzi record dell’energia dalla seconda metà del 2021”.

Non si menziona però mai che nel frattempo i prezzi del gas e dell’energia sono diminuiti a livelli molto più bassi, grazie anche all’effetto equilibratore del mercato.

In altre parole, misure per mettere al sicuro gli approvvigionamenti di gas, costi quel che costi, come se fossimo ancora nel pieno dell’emergenza, senza tenere conto di una dinamica della domanda senza precedenti.

“Nel primo trimestre del 2023, i consumi di gas in Italia sono scesi del 20% rispetto allo stesso trimestre del 2022, che aveva prezzi simili. Ciò è interessante perché ci dice che la reazione alla crisi comporta degli effetti in buona parte permanenti e non legati alla persistenza dei prezzi alti. Un po’ come all’epoca degli shock petroliferi, quando l’industria e i consumatori cambiarono per sempre i loro comportamenti”, ha detto Governatori.

Sicurezza energetica o hub europeo del gas?

Un altro aspetto preoccupante è che il nuovo Pniec sembra confondere la sicurezza degli approvvigionamenti di gas con l’obiettivo di fare dell’Italia lo hub del gas per le esportazioni verso l’Europa centrale, secondo l’analista di ECCO.

“Non è che sia sbagliato che l’Italia concorra alla sicurezza gas europea. Non capisco però perché questo debba essere finanziato con tariffe italiane per rifare la dorsale adriatica o per i due rigassificatori, quando nella migliore delle ipotesi queste cose peseranno sulle bollette gas italiane e nella peggiore sulle tasse degli italiani”, ci ha detto Governatori.

E non si capisce perché questa strategia venga venduta come misura a favore dell’Italia. Se lo si fa per l’Europa, i costi dovrebbero essere condivisi con gli altri Paesi, ha aggiunto.

Capacity market a favore di chi?

Un ulteriore punto critico è il riferimento al capacity market nell’ambito della sicurezza energetica.

È come se si volesse ricorrere ancora agli impianti a gas usati finora in questo ambito, presumibilmente con nuove aste. Questo sarebbe però inaccettabile, secondo Governatori, perché deve arrivare un programma analogo ma molto più aggiornato per sviluppare gli accumuli, con cui si potrà fare tutto quello che il capacity market richiede.

“Se si ricorre ancora al capacity market così come è disegnato oggi, significa che si vuole dare ancora troppi soldi alle nuove centrali a gas, che fino a ora sono state il vero beneficiario del capacity market”, ci ha detto il responsabile elettricità e gas di ECCO.

Questo non avrebbe senso per il clima, ma neanche per la sicurezza della rete, secondo Governatori.

Nel suo nuovo documento sulla sicurezza della rete, Terna dice infatti che bisogna solo evitare che le centrali a gas chiudano troppo rapidamente, ma non che bisogna costruire a spese degli italiani nuove centrali, destinate a durare 30 anni quando dovremo essere già decarbonizzati al 2035, ha aggiunto.

Mobilità elettrica al palo

Il riflesso condizionato pro-gas fossile del governo, nonché la sua “timidezza” nel puntare al ribasso sulle rinnovabili invece che al rialzo rispetto alle potenzialità, si ritrovano anche nel comparto della mobilità sostenibile.

Il numero di veicoli elettrificati previsto nella nuova versione del Pniec è aumentato a 6,6 milioni al 2030, cioè di sole 600mila unità rispetto ai circa 6 milioni della prima versione, risalente ormai al 2019, anche se nel frattempo la tecnologia e il mercato delle auto a batteria hanno fatti passi da gigante.

Il target dei veicoli a batteria o ibridi è stato cioè ritoccato solo del 10%, quando, per fare un esempio, nel solo mese di marzo 2023 le immatricolazioni di auto full-electric, senza cioè contare le ibride, è balzato di quasi l’82% a 8.170 unità rispetto all’anno prima.

La posizione di Elettricità Futura

Un po’ più diplomatico il giudizio di Elettricità Futura.

“L’attuale prima bozza del Pniec è un passo nella giusta direzione che però non rispecchia l’urgente necessità del nostro Paese di aumentare davvero l’indipendenza e la sicurezza energetica”, ha commentato Agostino Re Rebaudengo, Presidente dell’associazione.

La bozza di aggiornamento del Pniec dimostra che c’è la volontà del Governo ad alzare le ambizioni rispetto al vecchio Pniec, ma l’emergenza energetica che abbiamo vissuto, l’attuale emergenza climatica, gli scenari di guerra e l’instabilità politica dei Paesi esportatori di fonti fossili dovrebbero spingere il nostro Paese a puntare, con più coraggio, verso una maggiore autonomia e sostenibilità energetica, secondo Elettricità Futura.

La posizione di Anev

Nonostante l’incremento previsto nella quota di rinnovabili, il loro contributo ancora non basta a realizzare gli obiettivi di decarbonizzazione e transizione energetica, secondo l’Associazione nazionale energia del vento (Anev).

Relativamente all’energia eolica, l’obiettivo al 2030 è di 28.140 MW di cui 2.100 offshore, considerando sia la tecnologia a fondazioni tradizionali che galleggianti. Tali numeri sembrano troppo timidi per il settore off-shore, il cui potenziale è di 11.000 MW, ha scritto l’Anev in una nota.

“Tra le misure per la realizzazione degli obiettivi apprezziamo la menzione ai criteri di semplificazione delle procedure, ma auspichiamo soluzioni ulteriori, più concrete e risolutive”, ha commentato il Presidente dell’associazione, Simone Togni.

Conclusioni

La nuova versione del Pniec doveva allineare il sistema Italia all’evoluzione dei target, delle conoscenze e dei mercati legati a clima ed energia nel corso degli ultimi quattro anni. Invece, c’è ancora molto lavoro da fare per adeguare questa nuova, retrograda, versione del Pniec alla sfida per raggiungere gli obiettivi di decarbonizzazione nei soli sei anni e mezzo che rimangono prima della tappa intermedia del 2030.

Dopo la tragedia causata dall’evento climatico estremo in Emilia-Romagna è riemerso, come un fiume carsico, il dibattito sull’ambientalismo ideologico che bloccherebbe le opere utili al Paese. Il ministro Salvini ha rispolverato la narrazione sulle mancate pulizie degli alvei e sulle azioni che verrebbero impedite contro la proliferazione delle nutrie, responsabili dei danneggiamenti degli argini; Pichetto Fratin ha parlato di ambientalismo da loft; Musumeci di “integralismo ambientalista nocivo per la tutela dell’ambiente”.

Ciafani (Legambiente): “Imperdonabile farsi superare da altri paesi sulle  rinnovabili” - Earth Day

Il segretario generale della Cgil ha visitato Faenza, Cesena e Forlì e ha incontrato ha incontrato i volontari impegnati nell'emergenza: "A nome di tutta la Cgil nazionale ringrazio tutti voi per come avete reagito in questa difficoltà"

Landini Faenza

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Il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, questa mattina ha visitato la Camera del Lavoro di Faenza, provincia di Ravenna, che è tornata operativa da alcuni giorni dopo i pesanti danni sofferti per l’alluvione di maggio. Landini ha visitato i locali della sede della Cgil e si è soffermato a lungo con sindacalisti e attivisti. Ha incontrato Massimo Isola, sindaco di Faenza e presidente dell’Unione Romagna Faentina, con cui si è confrontato sulla situazione attuale e sulle esigenze del territorio.

Il segretario generale ha rimarcato la necessità che arrivino, con urgenza, dal Governo i fondi necessari alla ricostruzione e alla ripartenza dei territori colpiti dall’alluvione. Ha anche assicurato che la Cgil sarà al fianco dei lavoratori, dei giovani e dei pensionati, verificando costantemente l’evoluzione degli interventi a favore dei territori colpiti. Assieme a Landini era presente il segretario generale della Cgil Emilia-Romagna, Massimo Bussandri.

“La presenza di Landini a Faenza è per noi di grande importanza e dimostra ancora una volta la vicinanza della Cgil nazionale ai territori alluvionati – commenta Marinella Melandri, segretaria generale della Cgil della provincia di Ravenna -. A oltre un mese e mezzo di distanza dall’alluvione è indispensabile tenere alta l’attenzione sul dramma vissuto dalla Romagna. Passata l’emozione delle prime settimane, non si devono spegnere i riflettori sul nostro territorio. Servono indennizzi e devono arrivare le risorse necessarie per gli interventi di ripristino e di ripensamento del territorio per fare fronte ai cambiamenti climatici che si stanno manifestando con sempre maggiore evidenza”.

Landini a Cesena e Forlì

Altra tappa della visita del segretario generale della Cgil, quella della provincia di Forlì-Cesena, dove ha incontrato i volontari e le volontarie Cgil impegnati nell'emergenza alluvione. Come hanno ricordato le segretarie generali delle Camere del Lavoro di Forlì e di Cesena, Maria Giorgini e Silla Bucci, "l'emergenza non è finita. Non si devono spegnere i riflettori sulle necessità di chi ha perso tutto, e ringraziamo Maurizio Landini per essere qui, per continuare a parlare delle conseguenze dell'alluvione e delle frane. Adesso aspettiamo i ristori al 100% promessi dal Governo per le persone e le famiglie alluvionate".

Le Camere del Lavoro di Forlì e di Cesena hanno ringraziato tutte le persone che in quei giorni hanno messo a disposizione tempo ed energie per aiutare chi era in difficoltà: 1000 volontari e volontarie che hanno spalato fango e liberato case e cantine da oggetti ormai inutilizzabili; nei centri di distribuzione 400 volontari e volontarie che hanno preparato pacchi con cibo e materiale per le famiglie più colpite dalle esondazioni. 

Il segretario generale Cgil Maurizio Landini, in visita a Forlì in questa fase post alluvione ha parlato di urgenze e delle difficoltà che segnano questo momento, ricordando che al disastro dell'alluvione si sommano tutti gli altri problemi e i livelli di diseguaglianza con una sanità sempre più privatizzata, precarietà e inflazione e ha aggiunto: "A nome di tutta la Cgil Nazionale ringrazio tutti voi per come avete reagito in questa difficoltà. Quello che voi avete fatto con le Camere del Lavoro sempre aperte per i volontari e per chi ha bisogno indica che cos'è la Cgil e cosa sono le Camere del Lavoro".

Al termine dell’incontro Franco Ronconi referente Libera per la Provincia Forlì Cesena ha consegnato al segretario la maglia nata per raccogliere fondi da destinare alle Cucine Popolari di Cesena, fortemente colpite dall’esondazione del fiume Savio, e alla Casa delle Legalità

IL RAPPORTO. Per la Caritas il 10% della popolazione italiana vive in povertà. Oggi sono oltre 5 milioni e 700 mila le persone in "povertà assoluta", pari al 2019 quando è stato introdotto il "reddito di cittadinanza". Dalla prima crisi globale del 2008 sono triplicati: allora erano 1,8 milioni

 Milano la fina alla distribuzione di viveri - Ansa

La pubblicazione del primo rapporto statistico sulle povertà della Caritas, insieme al proprio bilancio sociale, ieri ha confermato che in Italia il 10% della popolazione residente in Italia vive in condizioni di povertà assoluta. E che solo nell’ultimo anno, vigente il cosiddetto «reddito di cittadinanza», questo tipo di povertà ha coinvolto 5 milioni 571 mila persone.

Dunque è tornata pari, o di poco superiore, al 2019 quando è entrata in vigore questa misura che sarà ristretta e rinominata «assegno di inclusione» dal governo Meloni una volta convertito in legge il «decreto lavoro» entro il prossimo 3 luglio. Più di tante considerazioni parziali, basterebbe solo questo dato per suggerire valutazioni più avvertite sulla problematicità di un’idea di governo dei poveri che non è riducibile ad una singola misura politicamente polarizzante.

La Caritas segnala inoltre che nel 2022 gli assistiti nei suoi centri di ascolto e servizi informatizzati sono aumentati del 12.5%. Questo dato è dovuto in gran parte alla crescita delle persone ucraine giunte in Italia con la guerra (da 3.391 a 21.930). Senza questa occasione, ci sarebbe stata una crescita degli utenti pari al 4,4%, comunque in crescita rispetto all’anno precedente. Sono piccoli segnali che andrebbero considerati come una spia dell’andamento carsico e multidimensionale di un fenomeno socio-politico, e non solo economico, come la povertà. Non riguarda solo condizioni particolarmente compromesse, ma anche quella dei lavoratori poveri che rientrano nella categoria statistica più estesa della «povertà relativa».

L’indagine rivela che è alta la quota dei lavoratori poveri occupati che fanno ricorso ai suoi servizi o alle parrocchie. Due su cinque sono in carico da almeno cinque anni. Molti di loro addirittura da oltre dieci. Chiedono pasti, vestiario, prodotti per neonati, oltre che sussidi economici per pagare bollette o affitto. C’è poi un altro gruppo, definito «giovani stranieri in transito», età media 25 anni, in maggioranza celibi, spesso senza dimora. Uno su due è di nazionalità africana. Per la maggior parte sono persone che vivono sul confine italo-francese e cercano di raggiungere altri paesi europei.

L’analisi ha individuato un altro gruppo, quello dei genitori fragili» tra i 35 e i 60 anni, soprattutto donne disoccupate o precarie, con figli minori conviventi.E poi ci sono i «poveri soli» tra i 35 e i 65 anni, soprattutto celibi o divorziati. Nel Centro, lato Tirreno, e nel Nord Ovest. Quasi la metà vive nelle città e hanno bisogno della mensa e di vestiti.

Questa condizione risente dell’impatto dell’inflazione sulle famiglie in povertà assoluta. «Se le fasce più deboli hanno subito un rincaro dei prezzi del 17,9%, la parte più ricca si è fermata a +9,9%. In questa fase di insicurezza globale si rafforzano le disuguaglianze tra le famiglie più benestanti e quelle meno abbienti, in continuità con quanto accaduto con la pandemia da Covid 19». Triplicata dal 2008, quando interessava 1,8 milioni di persone, la povertà è diventata «strutturale»