Accedi Registrati

Login to your account

Username *
Password *
Remember Me

Create an account

Fields marked with an asterisk (*) are required.
Name *
Username *
Password *
Verify password *
Email *
Verify email *

La Cgil fa il punto dopo l'ultimo incontro a Palazzo Chigi. Salari, inflazione, sanità pubblica: “Risultati ancora lontani e tutti da conquistare”

Matteo Oi Foto: MATTEO OI

Il governo Meloni sfoggia un incauto ottimismo e, forte di qualche segnale economico incoraggiante, conferma l’intera agenda di provvedimenti presi fino a oggi: dagli incentivi alle imprese alla flat tax, dalla rivalutazione delle pensioni al taglio del cuneo contributivo sui salari. L’esecutivo italiano è stato “aiutato”, oggettivamente, dalle ultime previsioni della Commissione europea (che danno il nostro Pil in crescita dell’1,2%, sopra la media europea), e dal record storico di occupati registrato lo scorso marzo.

Confronti inutili?

L’incontro del 26 maggio a Palazzo Chigi con le parti sociali potrebbe sintetizzarsi così: ognuno avanti per la sua strada, ma non perdiamoci di vista. La presidente del Consiglio ha infatti annunciato che, sui temi all’ordine del giorno, i ministeri competenti attiveranno tavoli specifici per un “confronto cadenzato”, mentre sarà istituito un “Osservatorio sul potere di acquisto” per monitorare inflazione, prezzi, salari ed efficacia dei provvedimenti del governo. E ha parlato di “dialogo approfondito con le parti sociali”.

Al di là di una questione di fondo, che riguarda le risorse e i contenuti del Def, lo scetticismo della Cgil su questi incontri resta. Sono “tavoli occasionali, di mero ascolto, privi di carattere negoziale e totalmente improduttivi”, sostengono in corso d’Italia, rivendicando la necessità di “una vera trattativa sui contenuti delle proposte e delle piattaforme sindacali”.

Mobilitazione utile

In casa Cgil è invece netta la convinzione che le manifestazioni di Bologna, Milano e Napoli abbiano indotto il governo a convocare le parti sociali. Quindi la strada della mobilitazione “non può che continuare e allargarsi, a partire dalla manifestazione nazionale indetta il prossimo 24 giugno a Roma su temi fondamentali come il diritto

La nota Ong internazionale lamenta un dibattito pubblico che si svolge senza conoscenze

Faenza (foto Marco Parollo)

«Sul dissesto idrogeologico, e soprattutto sulla crisi climatica, il dibattito pubblico si svolge senza le necessarie conoscenze ed è purtroppo influenzato da vere e proprie fake news». Lo afferma il Wwf, la nota organizzazione internazionale non governativa (Ong) di protezione ambientale con sede in Svizzera. Il World Wide Fund for Nature ha individuato le principali bufale che stanno girando in questi giorni sulle alluvioni e le frane in Romagna e prova a smontarle per contribuire a identificare soluzioni efficaci «per salvare vite umane ed evitare miliardi di euro di danni».

 
  1. Per prevenire disastri serve dragare i fiumi e scavare in alveo: FALSO.
    In gran parte dei fiumi italiani l’alveo si sta progressivamente abbassando a causa del minor apporto di sedimenti dato dalle innumerevoli briglie e dighe che ne interrompono la continuità, oltre che per il massiccio prelievo di inerti avvenuto negli scorsi decenni. Dragare i fiumi, abbassandone la quota altimetrica, contribuisce a creare fenomeni franosi più a monte, peggiorando il dissesto complessivo e mettendo a rischio la stabilità dei ponti a valle.
  2. Per evitare inondazioni bisogna pulire gli alvei tagliando la vegetazione: FALSO.
    Mentre è corretto rimuovere tronchi e rami morti dall’alveo dei fiumi, in particolare in corrispondenza di ponti e restringimenti, o intervenire in modo mirato e con la consulenza di geologi e forestali in particolari situazioni dove la vegetazione può ridurre l’officiosità idraulica di alcuni manufatti , la vegetazione che cresce sulle rive è fondamentale per la loro stabilità, per rallentare la velocità dell’acqua durante le piene, garantire la capacità autodepurativa degli ecosistemi fluviali, mantenere l’ombreggiatura e contribuire all’attenuazione dei periodi di siccità rilasciando gradualmente parte dell’acqua immagazzinata negli habitat ripariali.
  3. Non si fa manutenzione dei fiumi: FALSO.
    Se ne fa anche troppa, ma male e soggetta a meccanismi perversi che non garantiscono un’azione mitrata. Infatti, gran parte delle Regioni, Emilia-Romagna compresa, appaltano a privati la rimozione dei sedimenti o il taglio della vegetazione e i lavori si sostengono con il valore del materiale estratto o tagliato: risultato si interviene prevalentemente dove e quando conviene ai privati e in genere con interventi grandemente sovradimensionati che distruggono la vegetazione riparia con, spesso, aumento del rischio (il Wwf ha documentato tutto questo in due dossier, nel 2016 e nel 2020)
  4. Per evitare inondazioni è necessario rettificare i fiumi: FALSO.
    Rettificare il corso dei fiumi ne riduce la lunghezza complessiva, aumentandone così la pendenza e la velocità di deflusso. Il risultato è che nei periodi di piena l’energia del fiume è maggiore e maggiori sono i danni, così come un incidente stradale a 90 km orari è molto più letale di uno a 30 km orari.
  5. La colpa delle inondazioni e del dissesto idrogeologico è delle nutrie ed altri animali: FALSO.
    Il 94% dei Comuni italiani è a rischio dissesto per frane e alluvioni, e in gran parte di essi nutrie ed altri animali fossori non sono presenti. Vero è che localmente le tane scavate negli argini di dimensioni minori possono intaccarne la solidità, per questo sono ben note soluzioni (come la modulazione della loro pendenza o l’apposizione di reti) che prevengono lo scavo. Alcuni degli argini o dei “muri” di contenimento hanno ceduto durante la tragedia dell’Emilia-Romagna per problemi strutturali dovuti a difetti di costruzione o alla mancanza di monitoraggio e manutenzione.
  6. Per evitare inondazioni serve innalzare gli argini lungo tutto il reticolo idrografico: FALSO.
    Gli argini artificiali sono essenziali per proteggere insediamenti urbani e centri storici (e la loro manutenzione deve essere effettuata con cura e periodicità), ma la loro altezza, come peraltro ha affermato il segretario dell’Autorità di bacino del Po, è già al limite e non si possono rialzare ulteriormente; ,è semmai necessario ampliare le aree di esondazione, prevedendo dove possibile di spostare gli argini, in modo da ridare spazio ai fiumi. È fondamentale garantire la continuità dei fiumi e delle fasce naturali riparie ripristinando e tutelando boschi e zone umide, che svolgono un essenziale ruolo di laminazione delle piene, ricarica delle falde, depurazione, assorbimento di CO2 e protezione della biodiversità che stiamo sempre più velocemente perdendo. Purtroppo, negli ultimi anni il consumo di suolo è proseguito con ritmi impressionanti (2 metri quadrati al secondo, sfiorando i 70 chilometri quadrati di nuove coperture artificiali in un anno, ISPRA 2022) soprattutto nelle aree di pianura, lungo le coste e nelle principali aree metropolitane e in Emilia-Romagna si registrano tra i peggiori trend negativi.
  7. Servono casse di espansione: VERO.
    Le casse di espansione possono ospitare parte dell’acqua in eccesso durante le piene e restituirla una volta che la piena è passata. Tuttavia, dovrebbero essere un’estrema ratio perché sono una soluzione meno efficace rispetto ad interventi diffusi basati sulla natura in un’ottica di adattamento al cambiamento climatico.Sant'Agata sul Santerno (foto Marco Parollo)
  8. Servono grandi dighe per evitare disastri come questi: FALSO.
    Le grandi dighe possono contenere le piene di un singolo fiume o di un singolo bacino a monte; sempre che nel momento del bisogno non siano già piene. La Romagna è dotata di una delle più grandi dighe d’Italia (quella di Ridracoli), ma questo non ha impedito la tragedia dei giorni scorsi. Inoltre, le dighe hanno l’effetto di limitare il trasporto di sedimenti al mare, aumentando così l’erosione costiera e richiedendo centinaia di milioni di euro ogni anno per il ripascimento artificiale delle spiagge. In ogni caso in Italia esistono molte dighe che non sono state né collaudate né finite e farne di nuove è irresponsabile. È invece fondamentale allargare e ripristinare le aree di esondazione naturale lungo i fiumi che nel loro insieme svolgono un’importante funzione di “spugna” trattenendo l’acqua durante le piene e rilasciandola gradualmente nel resto dell’anno contribuendo ad attenuare le siccità.  E’ il caso del progetto di rinaturazione del Po inserito nel PNRR, che oltretutto risponde alle direttive europee Acque e Alluvioni e alla Strategia europea per la Biodiversità che impegna a riqualificare e riconnettere 25.000 chilometri di fiumi entro il 2030.
  9. Servono più infrastrutture: FALSO.
    Quasi il 10% del territorio italiano è già cementificato, incluse le aree a rischio inondazione. Questa situazione è particolarmente grave in Emilia-Romagna. L’impermeabilizzazione del suolo impedisce l’infiltrazione dell’acqua e la ricarica delle falde acquifere, mentre aumenta lo scorrimento superficiale riducendo il tempo impiegato dall’acqua per raggiungere i fiumi (“tempo di corrivazione”), pertanto le acque piovane giungeranno al fiume in un intervallo di tempo più ristretto, causando picchi di piena più alti e quindi maggiori rischi di esondazione. Inoltre, in gran parte dei fiumi italiani, le infrastrutture hanno sottratto spazio al naturale alveo dei fiumi, limitando lo spazio per le piene e aumentando così il rischio per le comunità. Ovviamente sono utili difese e infrastrutture ben pianificate nell’ambito dei centri urbani che, in molti casi possono essere anche ben inserite nel tessuto urbano come dimostrato in molte città europee anche con interventi di drenaggio urbano sostenibile.
  10. Il cambiamento climatico non c’entra nulla: FALSO.
    Il cambiamento climatico causato dalle emissioni di gas serra da parte delle attività antropiche, sulle cui cause la comunità scientifica mondiale concorda ormai da anni (con l’eccezione di qualche singolo professore spesso legato al mondo dei combustibili fossili), che ha già portato ad un aumento medio di oltre 1°C delle temperature medie globali, sta avendo effetti particolarmente intensi sul bacino del Mediterraneo, alterando fortemente i cicli idrologici, allungando i periodi di aridità alternati da brevi periodi di piogge intense, sempre più frequenti e dove la quantità di precipitazioni che un tempo cadeva in mesi ora cade in pochi giorni. Sta a noi agire per limitare al più presto le emissioni ed evitare gli scenari peggiori e adattarci al cambiamento climatico in atto.

Il Wwf non risparmia critiche: «Chi, nel dibattito pubblico, continua a sostenere tesi in contrasto con la scienza e l’evidenza dei fatti, rimandando decisioni o investendo fondi pubblici in opere inutili o dannose, si assume una responsabilità enorme rispetto alle prossime tragedie che continueranno a trovare il nostro territorio non pronto agli effetti della crisi climatica».

Ai dieci punti dell’elenco, il Wwf aggiunge un’altra smentita: la retorica che vorrebbe addossare la colpa dell’alluvione agli ambientalisti che hanno vietato ogni opera. «Gli ambientalisti non hanno governato alcuna regione italiana, né tantomeno hanno avuto voce in capitolo nelle scelte dei governi nazionali e regionali. Inoltre, i Governatori regionali sono stati investiti del ruolo di Commissario straordinario per il dissesto idrogeologico da parecchi anni e avrebbero potuto muoversi facilmente e spesso in deroga a molti vincoli.  Viceversa, da decenni gli ambientalisti segnalano il rischio derivante da una cattiva gestione dei corsi d’acqua italiani, dalla distruzione e riduzione delle aree di esondazione che spesso ha ridotti i corsi d’acqua in semplici canali, aumentando il rischio idraulico e causando un collasso della biodiversità dei fiumi italiani, quasi il 60% dei quali presenta uno stato ecologico non buono. Quindi siamo davvero ad una situazione paradossale: accusare chi da 30 anni lancia l’allarme su fiumi e territorio perché, semplicemente, quello che avevano annunciato si è avverato».

LA MOBILITAZIONE. Contro la secessione dei ricchi 105.937 «No»: parte l’iter della proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare

Il doppio delle firme per la proposta di legge contro l’autonomia differenziata 

Esiste una Italia che, dal basso, si sta opponendo al Ddl Calderoli sull’autonomia. Bastava darle la parola, come ha fatto negli ultimi 8 mesi il Coordinamento per la democrazia costituzionale (Cdc), presieduto dal costituzionalista Massimo Villone, che, con l’aiuto dei sindacati Flc Cgil, Uil scuola Rua, Federazione Gilda Unams, ha raccolto 105.937 firme per presentare la proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare da loro disegnata. Ne sarebbero bastate 50 mila. Alfiero Grandi ha snocciolato i numeri delle adesioni: «66 mila firme cartacee, il resto on line con tante adesioni spontanee che dimostrano che il vento della destra è forte ma c’è un vento altrettanto forte che dice no quando ha occasione di esprimersi, e noi gliela abbiamo data, abbiamo aperto un canale di mobilitazione».

«Siamo grandemente soddisfatti per avere raggiunto e largamente superato le firme necessarie in anticipo rispetto alla conclusione della campagna» hanno detto i promotori durante la presentazione dell’iniziativa ieri in Senato, con il contributo del senatore Giuseppe De Cristofaro (Alleanza Verdi Sinistra). «In commissione – racconta De Cristoforo – sulla scorta delle audizioni fatte finora mi pare che ci sia un largo elemento di dissenso, di dubbio intorno alla proposta del governo anche da parte di pezzi di mondi anche insospettabili. E c’è una larga convergenza delle forze di opposizione, che non era scontata, questo ci lascia ben sperare».
Il testo del progetto di legge, redatto da un gruppo di studiosi coordinati da Villone, già professore emerito di Diritto costituzionale nell’Università Federico II, intende modificare gli articoli 116, terzo comma, e 117, primo, secondo e terzo comma del Titolo V della Costituzione. Lo scopo è introdurre una clausola di supremazia della legge statale e spostare alcune materie di potestà legislativa concorrente verso la potestà esclusiva dello Stato. In tale modo «un’autonomia differenziata lesiva di uguaglianza e unità sarà preclusa per Costituzione» hanno spiegato dal Cdc. «Occorre tutelare l’uguaglianza dei diritti e l’unità della Repubblica, qui ci stiamo giocando 160 anni di Unità d’Italia – ha aggiunto Villone – Un paese così si sfascia pezzo per pezzo». «Il modello Calderoli – ha continuato – emargina il Parlamento, le autonomie locali, ma soprattutto non guarda a quello che la società dice: la gran parte delle opinioni sono contrarie».

Una questione sentita in particolare dal mondo della scuola dove le conseguenze dell’autonomia regionale sarebbero disastrose: dai docenti pagati in modo differente sul territorio nazionale, alle risorse dei privati, dalla possibile perdita del valore legale del titolo di studi, alla didattica divisa in 20 modelli differenti. «È un attacco frontale al diritto all’istruzione – commenta Graziamaria Pistorino, della segreteria Flc Cgil – per questo abbiamo costruito questo percorso dal basso con docenti, studenti e genitori che si oppongono alla disgregazione di questo paese». «Il numero delle firme – dice anche Francesca Ricci di Uil Scuola Rua – è il risultato straordinario del legame tra scuola, società e paese, l’istruzione non può essere costretta nei limiti dei confini regionali». A supporto dell’iniziativa anche Anpi, Arci, diverse associazioni del campo sanitario e consiglieri comunali di città non solo del Meridione.

Il comitato promotore auspica che l’iter non si perda: una volta incardinata, la proposta deve arrivare in Aula entro quattro mesi. «Abbiamo consegnato questo lavoro alla responsabilità dei parlamentari – dice ancora Pistorino – ma queste firme sono solo il primo passo di una grande mobilitazione»

Legambiente Emilia-Romagna esce dal Patto per il Lavoro e il Clima della Regione Emilia-Romagna

Legambiente Emilia-Romagna APS

Azioni non in linea con gli obiettivi fissati, incoerenza delle politiche pubbliche in materia ambientale e mancanza di coesione tra i firmatari alla base della scelta dell’associazione ecologista

Dopo un’esperienza durata due anni e mezzo, Legambiente Emilia-Romagna ha deciso di uscire dal gruppo di organizzazioni firmatarie del Patto per il Lavoro e il Clima promosso dalla Regione Emilia-Romagna. La scelta, maturata a seguito del confronto tra i livelli dell’associazione, è legata soprattutto alla mancanza di coerenza tra gli obiettivi indicati nel Patto e le azioni realizzate in questi anni dalla Regione.

Nonostante, infatti, gli impegni assunti con la firma del Patto e l’apparente condivisione di finalità dell’azione politica tra i firmatari, non sono però mancate scelte, sia nell’ambito della pianificazione regionale sia nell’autorizzazione a singoli progetti, decisamente in contrasto con tali finalità.

“Avevamo sperato che l’impegno assunto dalla Regione rispetto alle principali questioni ambientali del nostro tempo, che era stato riconosciuto anche dal cambiamento del nome del Patto rispetto al passato, quando non c’era riferimento al ‘Clima’, si concretizzasse in modo decisamente più forte rispetto a quanto è in realtà avvenuto”, dichiara Legambiente. “È evidentemente mancata la capacità di trovare un punto d’incontro tra l’obiettivo di mantenere un sistema economico forte e la necessità di attuare la transizione ecologica nei tempi dettati dalla crisi ambientale in cui ci troviamo.”

L’episodio più emblematico in questo senso, secondo l’associazione ecologista, è stata l’accoglienza che è stata data al nuovo rigassificatore di Ravenna, un impianto che ben poco ha a che fare con la transizione energetica che invece imporrebbe l’abbandono dei combustibili fossili in tempi rapidi: invece di cogliere l’opportunità della crisi russo-ucraina, la Regione (affiancata in questo dai Governi nazionali che si sono succeduti dal 2021 in poi) ha scelto di appoggiare la strategia della diversificazione dei Paesi di approvvigionamento del gas, una strategia che, per i tempi che sono stati indicati nei provvedimenti autorizzativi dei nuovi impianti, vincolerà il Paese per decenni alle risorse fossili.

Allo stesso tempo, è mancato un chiaro indirizzo a supporto degli impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili: in particolare per quello che riguarda gli impianti eolici, dalla Regione e dai firmatari del Patto è mancata un’azione chiara e coerente finalizzata al miglior inserimento di tali impianti nei contesti territoriali dell’Emilia-Romagna.

“Come è stato evidenziato anche dalle attività di Legambiente a livello nazionale, la transizione energetica incontra numerosi ostacoli su tutti i territori. Nel contesto emiliano-romagnolo è mancata una comunanza d’intenti tra i soggetti che avevano sottoscritto un impegno a favore della transizione energetica: anche nel caso nell’ultima delibera regionale in materia, dedicata alle aree idonee per l’installazione di impianti fotovoltaici, l’impegno dei consiglieri regionali promotori di emendamenti migliorativi rispetto alla proposta iniziale si è scontrato con l’opposizione di chi, pur aderendo al Patto, non sta riconoscendo l’urgenza di ridurre le emissioni climalteranti che tanti danni stanno provocando e provocheranno al nostro territorio.”

L’energia non è però l’unico ambito sul quale l’azione del Patto è stata carente, secondo Legambiente.

“Abbiamo avuto modo di confrontarci con l’Amministrazione regionale e gli altri portatori d’interesse su alcuni strumenti di pianificazione cruciali per lo sviluppo del territorio regionale, come il Piano Integrato dei Trasporti (PRIT) e il Piano Rifiuti (PRRB)”, ricorda l’associazione. “Nel caso del PRIT abbiamo presentato una protesta formale alla luce dell’incoerenza del Piano e delle sue previsioni infrastrutturali rispetto agli altri piani che si occupano di aspetti ambientali: in quell’occasione non c’è stato modo di ottenere alcuna modifica al testo che era stato portato alla discussione dell’Assemblea legislativa.”

“In merito al Piano Rifiuti avevamo invece presentato osservazioni relative alle previsioni di evoluzione dei quantitativi di rifiuti prodotti: le previsioni contenute nel Piano non erano in linea con l’ipotesi di applicare le migliori pratiche a disposizione per ottenere una riduzione significativa dei rifiuti stessi, un requisito necessario per poter ipotizzare di chiudere un impianto di incenerimento” continua Legambiente. “In questo caso si è voluto mantenere un obiettivo decisamente meno ambizioso, sulla scorta di indicazioni di livello nazionale: questo obiettivo non è però in linea con i risultati ottenuti nei territori che hanno adottato il sistema di tariffazione puntuale, che hanno ottenuto performance molto migliori di quanto prevede oggi il Piano.”

Tema ulteriore rispetto al quale Legambiente ha manifestato preoccupazione nel tempo è il consumo di suolo. Nonostante le finalità enunciate in fase di approvazione della legge urbanistica regionale 24/2017, tra il 2020 e il 2021 l’Emilia-Romagna è stata la terza Regione italiana per consumo di suolo, più 658 ettari cementificati in un solo anno, pari al 10,4% di tutto il consumo di suolo nazionale., come ricordato recentemente da Paolo Pileri.

“Come era stato preventivato da esperti e organizzazioni ambientaliste, la legge urbanistica non ha consentito di interrompere il consumo di suolo in Emilia-Romagna: secondo i dati ISPRA, i processi di copertura e impermeabilizzazione del suolo proseguono a ritmi elevati e i casi di grandi espansioni delle superfici urbanizzate non si sono fermati. Resta particolarmente critico il tema dei poli logistici, la cui realizzazione sul territorio continua a sfuggire alle logiche della pianificazione, a partire dalla mancanza di connessione con le infrastrutture ferroviarie. Ha costituito un segnale particolarmente negativo in questo senso l’approvazione di proroghe ai termini di attuazione delle previsioni urbanistiche previgenti alla nuova legge che, negli anni passati, hanno consentito di prolungare la validità dei vecchi PRG e PSC: questo ha portato alla prosecuzione di interventi urbanistici previsti da anni che, tra l’altro, non verranno nemmeno computati nell’ammontare del consumo di suolo consentito dalla nuova legge.”

Anche gli eventi estremi verificatisi nel mese di maggio in Romagna sono stati motivo di riflessione per Legambiente Emilia-Romagna.

“Abbiamo assistito con sgomento a quanto accaduto sul territorio e crediamo sia necessario procedere quanto prima non solo alla ricostruzione, ma anche a una trasformazione del sistema di gestione delle precipitazioni e di quello fluviale”, rimarca l’associazione. “Come ha sottolineato giustamente il segretario dell’Autorità Distrettuale di Bacino del Po, non occorre ripristinare la situazione preesistente, ma è necessario riprogettare e ampliare gli spazi a disposizione dei fiumi in modo da ridurre il rischio: questo significa rivedere le logiche che hanno guidato la pianificazione territoriale in passato, e quindi restituire spazio ai fiumi anche delocalizzando insediamenti oggi collocati in aree prossime ai corsi d’acqua.”

“Non abbiamo apprezzato il riferimento sprezzante di amministratori pubblici alle organizzazioni ambientaliste additate come responsabili di ostacoli alla realizzazione di opere per la sicurezza del territorio”, aggiunge Legambiente. “Addossare le responsabilità del mancato adattamento delle infrastrutture al cambiamento climatico a chi proprio di cambiamento climatico si occupa tutti i giorni è una palese contraddizione e il segno che la protezione dell’ambiente continua ad essere trattata come un elemento secondario, il contrario di ciò che il Patto per il Lavoro e il Clima avrebbe dovuto realizzare.”

Legambiente ribadisce infine il proprio sostegno alle politiche ambientali e di sviluppo sostenibile promosse sul territorio dell’Emilia-Romagna: “Continueremo a svolgere il nostro lavoro di analisi e di stimolo affinché la Regione, gli enti pubblici e il settore privato compiano rapidamente la transizione verso un modello socioeconomico a basso impatto ambientale. La nostra disponibilità al confronto resta immutata, serve però chiarezza da parte dei decisori politici ed economici: la crisi climatica richiede risposte immediate e non contraddittorie.”

Michele de Pascale

Sindaco de Pascale, in questi giorni su alcuni quotidiani nazionali è stata pubblicata una sua intervista che ci lascia basiti. Mentre altri sindaci intervistati hanno ammesso la corresponsabilità di scelte di pianificazione e gestione territoriale sbagliate alla luce di quanto è avvenuto, lei ha scelto di dare la colpa a nutrie e ambientalisti. Vorremmo quindi mettere in fila alcuni elementi per fare chiarezza.

A sottolineare la necessità che fossero quanto prima realizzate le casse di espansione del fiume Senio sono stati per primi gli ambientalisti che, negli ultimi 15 anni, hanno più volte chiesto spiegazione rispetto ai ritardi, cercando in ogni modo di spronare gli Enti competenti a realizzare rapidamente il progetto; per certo, quindi, non può essere imputata a noi la mancata realizzazione di questa opera.

Gli ambientalisti dicono no al rigassificatore perché non solo non è uno strumento per gestire in via emergenziale un periodo di prezzi dell’energia elevati, ma è addirittura un intervento strutturale che ci legherà al fossile per i prossimi 25 anni con ulteriori emissioni climalteranti.

La relazione diretta tra gli stessi cambiamenti climatici prodotti dalle emissioni di gas serra e la nefasta alternanza di lunghi periodi di siccità e periodi di piogge molto intense è certificata dalla comunità scientifica internazionale. I dati dei climatologi parlano chiaro: ogni aumento di 0,5 gradi della temperatura globale comporta il raddoppio o la triplicazione degli eventi estremi.

Dati del Quinto Rapporto IPCC indicano che il metano ha un potenziale di riscaldamento globale da 28-36 volte superiore alla CO2 su un periodo di tempo di 100 anni e di 84-87 volte superiore su un periodo di tempo di 20 anni. È stato stimato che il metano rilasciato in atmosfera è responsabile al 18% dell’incremento dell’effetto serra. La combustione di metano è poi alla base di ulteriori emissioni di anidride carbonica, gas serra primo responsabile del cambiamento climatico.

Non è quindi a causa delle nostre convinzioni contro l’energia fossile che siamo costretti a misurarci con tragedie ambientali come quella che ha colpito la nostra regione. Anzi, proprio per questi motivi abbiamo chiesto che, oltre a smettere di costruire nuove infrastrutture per il trasporto di gas, si provveda a riparare quelle esistenti, responsabili di perdite significative e dannose sia per il clima, sia per la sicurezza energetica del Paese.

Gli ambientalisti dicono sì alla manutenzione di fiumi e canali, a patto però che sia ben fatta e continuativa. Purtroppo, invece, vengono stipulati contratti di manutenzione che prevedono che una parte dei guadagni delle ditte esecutrici derivi dalla vendita del legno: questo fa sì che vengano realizzate manutenzioni a dir poco spregiudicate, come testimonia anche il lavoro dei Carabinieri Forestali: solo nel 2020 sono stati eseguiti in questo campo 886 controlli di cui 127 hanno accertato irregolarità.

Non va poi dimenticato che anche le aziende agricole proprietarie o concessionarie di terreni che confinano con fiumi e canali hanno l’obbligo di fare manutenzione affinché lo scorrere dell’acqua non sia intralciato dalla vegetazione. Questo richiama la responsabilità di controllo delle amministrazioni competenti, perché la manutenzione va fatta ma va anche sorvegliata.

Come ha ricordato il Segretario dell’Autorità di Bacino del fiume Po, nemmeno la manutenzione ordinaria e straordinaria degli argini la gestione di sedimenti e vegetazione ripariale saranno in futuro attività sufficienti, proprio alla luce del cambiamento climatico. Il raggiungimento di quote limite per l’altezza degli argini è un segnale d’allarme che deve portare a un cambiamento d’approccio nella pianificazione che, come ricordato sempre dal Segretario, dovrà orientarsi verso l’incremento dello spazio disponibile per la divagazione dell’acqua, arretrando le arginature e creando nuove golene, aumentando quindi i volumi contenibili all’interno degli argini ma lavorando in termini di superficie, non di altezza. Questo richiederà sforzi economici, compreso quello per delocalizzare alcuni insediamenti, ma si tratta di un sacrificio necessario per evitare ulteriori crisi come quella avvenuta nelle scorse settimane.

Né va ignorato il contributo significativo, in negativo, dato dal consumo e dall’impermeabilizzazione del suolo, che oltre a ridurre la superficie capace di trattenere i volumi d’acqua che si scaricano a terra, determina effetti negativi sulla possibilità di ricarica delle falde freatiche e quindi sulla capacità dei territori di far fronte alla siccità, l’altra (ben nota) faccia della medaglia del cambiamento climatico. In un comunicato stampa dell’agosto scorso evidenziavamo come, secondo i dati ISPRA relativi all’anno 2021, fra i comuni italiani Ravenna risultava secondo solo a Roma per incremento del consumo di suolo.

In ultimo, nessuno mette in dubbio che le nutrie, così come le specie fossorie in genere, contribuiscano a rendere le sponde dei fiumi meno solide, ma credere che abbiano avuto un ruolo determinante negli effetti devastanti a cui abbiamo assistito, peraltro in un’area così vasta e diversificata in quanto ad habitat locali presenti, ha il sapore di una chiacchiera da bar che non fa onore ad un amministratore del nostro territorio.

Vuole farci credere che le proteste degli animalisti rallentino la soluzione del problema? Basta leggere un po’ di letteratura scientifica per sapere, tra l’altro, che l’abbattimento massivo di questi animali non è la soluzione. Lo dicono gli studi sulla specie e lo conferma la sua espansione in Europa.

Siamo peraltro da qualche tempo impegnati, come associazione, insieme al Consorzio della Bonifica Renana e all’Università di Bologna, nel progetto Life Green4Blue, che ha tra i suoi obiettivi il ripristino della biodiversità in pianura anche attraverso il contenimento di due specie alloctone invasive, tra le quali proprio la nutria (Myocastor coypus). In tale contesto si sta sperimentando un metodo di contenimento innovativo e non cruento, lo stesso recentemente adottato dal Ministero anche per il cinghiale.

Un’amministrazione che è stata in grado di far autorizzare un rigassificatore in 120 giorni dovrebbe essere in grado di acquisire con la stessa velocità tutte le informazioni scientifiche che Ministeri e Centri di ricerca mettono a disposizione per fare le scelte giuste, ben diverse da quelle che la sua Amministrazione sta compiendo.

Con buona pace delle analisi che il fior fiore di scienziati, tecnici e intellettuali stanno facendo dagli anni ‘70 ad oggi. D’altra parte, gli studi contenuti nel volume “I limiti dello sviluppo” e relativi alla capacità portante del pianeta Terra sono stati pubblicati nel 1972. Ma è evidente che per qualcuno è come se questo non fosse accaduto.

LEGAMBIENTE EMILIA-ROMAGNA APS

MOBILITAZIONE SOCIALE. Sabato 24 giugno e 30 settembre a Roma contro il governo. Il segretario chiude l’assemblea: la crisi democratica si batte con la partecipazione. Landini: non basta difendere la Costituzione, ai precari serve offrire un progetto di cambiamento

Cgil, associazioni e giovani: due piazze per sanità e lavoro Maurizio Landini conclude l'assemblea "Insieme per la Costituzione" ai Frentani a Roma - Foto Ansa

Sabato 24 giugno per difendere la sanità pubblica. Sabato 30 settembre contro l’autonomia differenziata. Due manifestazioni nazionali per proporre un vero cambiamento: applicare la Costituzione e lottare contro la precarietà dilagante.

IN STAFFETTA CON LA PIAZZA per il reddito, ieri mattina ai Frentani a Roma si sono ritrovate una quarantina di associazioni laiche e cattoliche ospitate dalla Cgil. Una Cgil che rompe gli indugi e si mobilita, con coraggio e senza aspettare il via libera di chicchessia.

L’assemblea era stata chiamata «Insieme per la costituzione». E aveva richiamato decine di associazioni e movimenti, dall’Arci a Medicina Democratica, da Antigone a Rete Disarmo a tante associazioni di studenti universitari e medi. Uniti dall’idea di pace e dalla sfida portata dal governo Meloni «destinate a scardinare le fondamenta stesse dell’impianto della Repubblica, come l’autonomia differenziata, rilanciata con il Ddl Calderoli, e il superamento del modello di Repubblica parlamentare attraverso l’elezione diretta del capo dell’esecutivo che ridurrebbe ulteriormente gli spazi di democrazia, partecipazione e mediazione, politica e sociale».

Tante realtà che sul territorio cercano di contrastare la dilagante apatia democratica, testimoniata dal continuo superare di record di astensione alle urne.

«I diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione – si legge nell’appello condiviso a fine assemblea – tornino ad essere pienamente riconosciuti e siano resi concretamente esigibili ad ogni latitudine del paese». Diritto al lavoro, diritto alla salute, diritto all’istruzione, ad un ambiente sano e sicuro, contrasto alla povertà, una politica di pace»: sono questi i cardini del modello sociale e di sviluppo che per le associazioni deve essere promosso.

«UN MODELLO SOCIALE FONDATO su uguaglianza, solidarietà e partecipazione – si spiega nell’appello – che è l’antitesi di quello che vuole realizzare l’attuale maggioranza con l’autonomia differenziata e il superamento del modello di Repubblica parlamentare attraverso l’elezione diretta del capo dell’esecutivo». Per questo, concludono le associazioni, «ci impegniamo in un percorso di confronto, iniziativa e mobilitazione».

A tirare le fila delle decine e decine di interventi è stato il segretario generale della Cgil Maurizio Landini. In una naturale continuazione della mobilitazione sindacale di maggio, la Cgil punta a fare da catalizzatore di un nuovo impegno sociale.

NEL CENTENARIO DELLA NASCITA di Don Milani, il segretario della Cgil ha cominciato con una citazione del prete esiliato a Barbiana. «Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è politica. Sortirne da soli è avarizia”. Ebbene noi qui stiamo facendo politica», esordisce Landini. «Don Milani ha cambiato la storia, noi insieme proviamo a cambiare la crisi democratica che stiamo vivendo. È un momento così difficile che ognuno di noi deve partecipare, senza delega. Per avere la massima partecipazione alle due manifestazioni dobbiamo avere l’umiltà di ascotare tutti, organizzando sul territorio il numero maggiore possibile di assemblee». Ma per Landini «l’idea pur giusta di difendere la Costituzione non basta. Chi è precario è sotto ricatto non ha coscienza del diritto al lavoro o alla salute. Per coinvolgere i giovani e i precari serve farli partecipi di un progetto di cambiamento. Un progetto che spieghi anche dove trovare le risorse per renderlo credibile, denunciando come con la Flat tax e il taglio alla sanità pubblica previsto nel Def il governo va in tutt’altra direzione. Le uniche nostre discriminanti sono l’antifascismo e la partecipazione diretta. Solo lottando contro la precarietà potremo cambiare la società». Chiudendo con l’invito: «Ora al lavoro e alla lotta»