Buongiorno,
a nome e per conto del signor Luca Giacomoni, autore del libro "Anime nel fango", invio di seguito il Comunicato Stampa emesso a seguito della proiezione del film omonimo, lo scorso martedì 19 marzo.
Martedì 19 marzo 2024, al cinema Sarti di Faenza, è stato proiettato il Docufilm "Anime nel fango" del regista e direttore della fotografia Ettore Zito, tratto dall’omonimo libro di Luca Giacomoni.
Desideriamo ringraziare il Comune di Faenza per averci concesso il Patrocinio, Cinemaincentro per averci messo a disposizione la sala e il personale, e la Bottega Bertaccini per averci aiutato nella vendita dei libri. Il loro contributo è stato completamente gratuito.
Il ringraziamento più grande, però, va a tutte le persone che hanno voluto assistere alla proiezione, occupando sia i posti in platea sia nei palchi e acquistando le quasi ultime copie del libro. È stata l’ennesima dimostrazione di solidarietà e sostegno che la città di Faenza ci ha dimostrato.
Il Progetto Anime nel fango prosegue con sempre maggior entusiasmo il suo cammino, con l’obiettivo di raccogliere fondi che, al netto delle spese, saranno utilizzati a favore delle vittime dell’alluvione. I prossimi appuntamenti sono il 27 marzo a Montecitorio a Roma e il 6 aprile a Cesena al cinema Eliseo.
Destinatari:
A tutte le strutture
In relazione alla nostra raccolta vi informiamo che il carico di aiuti umanitari per la popolazione palestinese di Gaza è oramai pronto per la partenza.
Le donazioni ricevute e gli acquisti realizzati grazie alla raccolta fondi, oltre 10 tonnellate tra alimenti (latte in polvere e alimenti per neonati), materiali per presidi sanitari, materiale igienico per donne, sono già depositati nel magazzino della Caritas di La Spezia.
Il carico, via nave, raggiungerà Porto Said in Egitto e quindi, via terra, proseguirà ad Al Arish, dove avviene il primo controllo da parte delle autorità egiziane, per poi affrontare il secondo ed ultimo controllo da parte dei militari israeliani, quindi, il carico potrà finalmente entrare nella Striscia di Gaza, tramite il valico di Rafah, per essere preso in consegna dalla Mezza Luna Rossa e dalle agenzie ONU.
Questo complicato e tortuoso iter burocratico sta determinando un grave rallentamento del flusso di entrata degli aiuti umanitari, come è noto, oltre 1500 tir sono fermi al valico di Rafah, mentre la popolazione palestinese è stremata.
L’operazione umanitaria è realizzata in collaborazione con l’Associazione delle ONG Italiane (AOI), con il CISS di Palermo, ong registrata in Egitto e partner della Mezza Luna Rossa Egiziana, ente umanitario autorizzato e riconosciuto dalle autorità israeliane per operare in questa crisi umanitaria. Vi terremo informati sugli sviluppi.
Vento, sisma, acciaio: i rilievi di 68 criticità del Comitato scientifico confermano l’opinione di sindacati circa l’opera sullo Stretto. L’analisi di Alfio Mannino, Cgil
Il Comitato tecnico scientifico sul progetto del ponte sullo Stretto di Messina rileva 68 mancanze strutturali nel progetto stesso che mettono bastoni tra le ruote al ministro Matteo Salvini, il quale aveva annunciato l’inizio dei lavori già per prima dell’inizio dell’estate.
Il Comitato, nominato dal ministero delle Infrastrutture (il dicastero guidato dallo stesso Salvini) di concerto con le Regioni, non ha certo bocciato il progetto, ma ha elaborato una lunga serie di raccomandazioni tra le quali ve ne sono alcune di particolare rilievo. Tra questi: è chiesto che siano fatte maggiori verifiche sull’effetto dei venti perché le ultime risalgono al 2011; anche quelle sulla tenuta sismica devono essere aggiornate in base ai violenti terremoti verificatisi negli ultimi anni; è poi richiesto l’utilizzo di materiali dii più recente tecnologia e di rendere noto come e dove sarà reperito l’acciaio necessario alla costruzione del ponte.
Alfio Mannino, segretario generale della Cgil Sicilia, nell’audio-intervista spiega che le criticità sollevate non giungono nuove e non colgono il sindacato stupito. Il progetto sul quale si basa il piano del consorzio privato Eurolink e gestito dalla società pubblica Stretto di Messina Spa è ormai datato e la necessità del ministro Salvini di procedere velocemente con l’inizio dei lavori è dettata da esigenze elettorali e quindi di propaganda.
Mannino insiste anche sul costo del ponte, poiché si parla di 13 miliardi di euro, ma i costi lieviteranno inevitabilmente, anche per i rilievi del Comitato. Motivo per il quale ‘il governo ha sollevato sul progetto una nebulosa che impedisse di vedere le criticità. Non manca il capitolo espropri, quelli che devono essere effettuati nei confronti di chi occupa, con abitazioni o aziende, le aree che saranno interessate dal cantiere e dalla mega-struttura del ponte che avrà i suoi piedi sulla terraferma di Sicilia e Calabria. E anche l’accordo sugli espropri è ancora in alto mare.
Al via la campagna di Cgil e categorie per sensibilizzare e informare su un fenomeno esploso negli ultimi decenni. Gabrielli: “La politica non se ne occupa”
Una campagna di sensibilizzazione e informazione sulla precarietà, ma anche di lotta contro la precarietà. La promuove la Cgil insieme alle sue categorie per alzare l’attenzione sulla questione della qualità e della dignità del lavoro e della condizione dei redditi, tutti temi che non sono al centro dell’agenda politica del nostro Paese. “La precarietà ha troppe facce. Combattiamola insieme” è lo slogan dell’iniziativa, animata sui canali social dai lavoratori che rappresentano e incarnano la precarietà.
Per nove settimane saranno protagonisti i volti e le storie di chi fa i conti con ogni tipo di flessibilità e di incertezza: a termine, part time, in appalto, in somministrazione, pagati con voucher e contratti intermittenti, a collaborazione e a partita Iva, con orari miseri, irregolari, stagionali. Tante facce per altrettante condizioni occupazionali, che si traducono in situazioni di vita difficili e complicate prospettive per il futuro. Si parte con i lavoratori a termine, che in Italia sono circa 3 milioni.
“Abbiamo scelto i volti perché dietro ai numeri dei milioni di somministrati, intermittenti o lavoratori a termine ci sono persone – spiega la segretaria confederale della Cgil Maria Grazia Gabrielli -. Persone con le loro storie, le loro ansie, i problemi quotidiani, i sogni, le aspettative. Raccontarli in maniera diretta, così chiara e nitida, li rende concreti. Dietro ai dati sui quali si baserà la campagna e di cui di solito non si parla, ci sono giovani e meno giovani, migranti, uomini e donne impiegati nei settori pubblici e privati, che sono la rappresentazione della realtà”.
Perché la Cgil ha deciso di fare una campagna sulla e contro la precarietà?
Perché si continua a guardare la crescita dell’occupazione, un aspetto importante che va certamente osservato ma che non è sufficiente per misurare lo stato di salute di milioni di precari e non precari del nostro Paese. Sono persone che restano ai margini. Le politiche che vengono fatte e, ancor peggio, le scelte che non vengono compiute lasciano questi lavoratori in una condizione di mancanza di libertà, poiché non possono vivere dignitosamente e non possono decidere della propria vita. Questa non è una questione contingente, non riguarda solo l’oggi, ma anche il futuro di milioni di persone. Quindi bisogna affrontare e risolvere due emergenze: lavorare sulla precarietà oggi significa costruire in prospettiva migliori condizioni per i pensionati di domani.
Questo perché la precarietà riguarda soprattutto i giovani?
La precarietà condanna in particolar modo le generazioni più giovani, le rende particolarmente fragili e riguarda ancora più le donne degli uomini. È a queste due grandi platee che dovremmo rivolgere specifiche politiche per recuperare il gap esistente, che abbiamo anche nei confronti del resto dell’Europa, oltre alle disparità che ci sono all’interno del nostro Paese, come per esempio tra Nord e Sud. Eppure ancora oggi tutto questo non è al centro delle politiche del governo.
La precarietà è un fenomeno in crescita?
Sì, è in crescita ed è un fenomeno che va guardato con una lente di ingrandimento perché comprende anche una fetta importante di lavoratori irregolari o in nero, quindi sostanzialmente sconosciuti.
È il nero la forma più odiosa di precarietà?
Il lavoro nero e irregolare presenta certamente le condizioni più drammatiche e deleterie ed è spesso collegato al caporalato, un fenomeno ancora presente che anzi si è consolidato, diventando quasi strutturale nel settore agricolo ed esteso a moltissimi altri ambiti economici e produttivi. È il più odioso perché rende evidente la condizione di schiavitù del lavoratore, che è all’opposto di ciò che il lavoro dovrebbe rappresentare, e cioè rendere liberi e liberi di scegliere, di essere autonomi e autodeterminarsi.
La gamma delle tipologie contrattuali che costringono in una condizione di precarietà è molto ampia, e il nostro ordinamento prevede che si possa vivere in una situazione di povertà anche quando si ha un contratto di lavoro stabile. Questo capita a chi ha poche ore lavorate pur avendo un tempo indeterminato, penso al part time e in particolare al part time involontario che è enormemente cresciuto, o a chi è a tempo pieno ma in appalto, quindi con una precarietà data dal sistema degli appalti, subappalti, rinnovi.
Quando si parla di precarietà l’accusa più frequente che viene rivolta al sindacato è che non se ne è mai occupato abbastanza. Che cosa risponde?
Che noi ce ne siamo occupati e continuiamo farlo. Siamo l’organizzazione sindacale che ha proposto e propone iniziative inclusive, di contrasto alle soluzioni che mirano a rendere più precario, debole e frantumato il mercato del lavoro. Lo abbiamo fatto con il jobs act e con la legislazione che ne è seguita, con il contratto a temine, con il sistema degli appalti.
Solo chi ha poca memoria o è in mala fede non ricorda che abbiamo proposto un modello sociale diverso attraverso la Carta dei diritti universali del lavoro. E poi, ancora, davanti a un sistema regolatorio che ha precarizzato e reso più deboli e vulnerabili i lavoratori, accentuando una flessibilità che è tutt’altro che positiva, abbiamo continuato a esercitare un ruolo nella contrattazione nazionale, nel promuovere le buone pratiche nelle aziende per attivare percorsi di stabilizzazione.
È questo il significato dello slogan “combattiamola insieme”?
Per cambiare il mercato del lavoro e costruire un modello sociale più giusto, equo e dignitoso da consegnare alle giovani generazioni è necessario che questo sia un obiettivo condiviso, collettivo, partecipato anche da chi non ha mai vissuto la condizione di precarietà. Abbiamo bisogno di trasversalità, di comprendere che se non viene rimossa questa zona d’ombra è difficile immaginare di migliorare le condizioni di tutti.
Noi lo faremo con molti strumenti, la contrattazione, le proposte di legge, i contenziosi. E continueremo a farlo anche con l’iniziativa referendaria. È un’azione completa quella che la Cgil mette in campo per superare gli elementi di difficoltà, precarietà e povertà.
Il 13 marzo 1987, al porto di Ravenna, 13 operai restano soffocati all'interno della gasiera Elisabetta Montanari. Per non dimenticare
La mattina del 13 marzo 1987, nel porto di Ravenna, 13 operai - molti dei quali giovanissimi - muoiono soffocati nella stiva della nave gasiera Elisabetta Montanari. A scatenare l’evento è un incendio, le cui esalazioni causano il decesso per asfissia dei lavoratori impegnati in lavori di manutenzione e pulizia.
Le indagini riveleranno la disapplicazione delle più elementari misure di sicurezza - dalla disponibilità di estintori e presidi antincendio alla previsione di vie di fuga in caso di pericolo - e paleseranno la disorganizzazione del cantiere - di proprietà della Mecnavi Srl -, il reclutamento di manodopera attraverso il caporalato, l’assunzione di lavoratori in nero.
“Mai più - scriveva il giorno successivo Pietro Folena su l’Unità - Questo si deve promettere, che mai più possano accadere tragedie come quella di ieri, a Ravenna. Tredici morti. Due venivano dal Sud. Uno era egiziano. Gli altri di Ravenna, di Bertisoro, di altri comuni vicini. Dieci erano ragazzi tra i 19 ed i 24 anni, e tre lavoravano ieri per il primo giorno. (…) Non si osi parlare di tragica fatalità (…) le responsabilità appaiono evidenti. (…) Eccoci allora dalla rabbia di nuovo al dolore. Dal dolore ancora all’incredulità. Come può succedere in un mondo che si pretende ‘civile’. Come può accadere in un’Italia che si pretende ‘avanzata’. Ora bisogna punire i colpevoli. Ma anche cambiare le cose. Lo dobbiamo a Alessandro, a Onofrio, ai loro compagni”.
Era 37 anni fa. Sembra oggi. “Ho raccontato negli ultimi anni molte morti sul lavoro - scriveva qualche tempo fa Angelo Ferracuti commemorando quella tragedia - La morte non è mai accettabile, ma morire per mille euro al mese facendo lavori di merda lo è ancora meno. (…) Ho visto centinaia di volte nella mia vita entrando dal giornalaio la locandina con gli strilloni impietosi: operaio fulminato dai fili dell’alta tensione, lavoratore barbaramente schiacciato da una pressa, manovale fatalmente cade dall’impalcatura. Fatalmente, pensa un po’. (…) Non voglio raccontarle più, ogni volta che torno da queste ricognizioni e debbo scrivere sento l’impotenza del testimone di seconda mano, di chi cerca di ricostruire una storia che è sempre la stessa, e quelle dolorose degli altri mi entrano nel corpo e non se ne vanno più. Mi tormentano, tornano come fantasmi a farmi visita nella vita onirica. Sono storie di una Spoon river italiana dove il bisogno di fare e guadagnarti i pochi soldi per campare può spingerti a volte nelle mani di un aguzzino, un caporale senza scrupoli che ti accompagna la mattina al lavoro e fa la cresta sul tuo misero salario, o di un padrone spietato che se ne frega altamente delle regole di civiltà in un paese tra i più industrializzati e ricchi dell’occidente come il nostro; e in nome del profitto, perché di questo si tratta, deregolamenterebbe persino il rispetto della vita”.
Solo nel mese di gennaio 2024 sono accaduti complessivamente 45 infortuni sul lavoro: sono stati 33 gli infortuni mortali in occasione di lavoro e 12 quelli in itinere. Rispetto allo stesso mese del 2023, il dato è in leggera crescita con un numero di decessi superiore di 2 unità (+4,7%).
I morti sul lavoro sono stati oltre 1000 nel 2023, quasi tre al giorno. Una strage. Un’infinita sequela di omicidi che ha un mandante: il disprezzo delle leggi, la corsa al profitto, lo sfruttamento del bisogno, la paura di perdere il proprio lavoro - quando si è così “fortunati” da trovarne uno -, il silenzio.
“Forse non sarebbe accaduto se quei giovani fossero stati aiutati a dire di no”, affermava l’arcivescovo di Ravenna, Ersilio Tonini, al convegno nazionale indetto da Cgil, Cisl, Uil sui “problemi della condizione di lavoro e della sicurezza”, tenutosi a Bologna il 10 aprile 1987. Forse non sarebbe accaduto.
“Da Ravenna - tornava a dire nella sua omelia del 16 marzo il monsignore - dalla stiva di quella nave si leva una denuncia; l’umanità sta distruggendo senza saperlo i suoi tesori più pregiati, il rispetto mutuo, la pietà, la solidarietà, in una parola; la capacità di amare… Bisogna pur dire che si sta perdendo il confine fra il bene e il male: il guadagno, il successo, la riuscita, la propria gratificazione prendono il posto di quella attenzione all’onestà che gli stessi atei della nostra Romagna hanno conservato come tesoro prezioso da trasmettere ai propri figli.”
“Le chiamano ‘morti bianche’ - scriveva Marco Bazzoni, operaio metalmeccanico di Firenze e rappresentante dei lavoratori per la sicurezza -, come se avvenissero senza sangue. Le chiamano ‘morti bianche’, perché l’aggettivo bianco allude all’assenza di una mano responsabile dell’accaduto, invece la mano responsabile c’è sempre. Le chiamano ‘morti bianche’, come fossero dovute alla casualità, alla fatalità, alla sfortuna. Le chiamano ‘morti bianche’, ma il dolore che fa loro da contorno potrebbe reclamare ben altra sfumatura cromatica. Le chiamano ‘morti bianche’ per farle sembrare candide, immacolate, innocenti. Le chiamano ‘morti bianche’, tanto non meritano che due righe sui quotidiani, sì e no una citazione nei TG. Le chiamano ‘morti bianche’, per evitare che si parli di omicidi sul lavoro. Le chiamano ‘morti bianche’, bianche come il silenzio, come l’indifferenza che si portano dietro. Le chiamano ‘morti bianche’, ma non sono incidenti, dipendono dall’avidità di chi si rifiuta di rispettare le norme sulla sicurezza sul lavoro. Le chiamano ‘morti bianche’, un modo di dire beffardo, per delle morti che più sporche di così non possono essere.
Le chiamano ‘morti bianche’, ma sono il risultato dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, dove la vita non ha valore rispetto al profitto. Le chiamano ‘morti bianche’, ma sono un’emergenza nazionale, anche se c’è chi dice che sono in calo. Le chiamano ‘morti bianche’, un eufemismo che andrebbe abolito, perché è un insulto ai familiari e alle vittime del lavoro. Le chiamano ‘morti bianche’, ma quanto tempo passerà ancora perché vengano chiamate con il loro vero nome?”.
Le chiamano morti bianche, ma non lo sono mai. Sono morti rosse, come il sangue versato. Morti nere, come la coscienza di chi ha la responsabilità di evitare che queste disgrazie accadano. Morti nere. Come nero, troppo spesso, è il lavoro. Morti nere. Come la nostra rabbia. Come la nostra - di tutti! - vergogna.